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Amministratori indipendenti. Ma poveri

Si fa un gran parlare degli stipendi d’oro dei top manager, ma si sorvola sui compensi troppo bassi degli amministratori indipendenti e dei sindaci delle società. Eppure il rischio è evidente: considerare come una sinecura quello che invece dovrebbe essere un lavoro da svolgere con rigore e impegno.
STIPENDI D’ORO PER I TOP MANAGER
Si discute molto delle remunerazioni faraoniche di amministratori delegati e capi azienda. Studiosi, commentatori, politici spesso ne criticano le modalità di calcolo, in particolare l’uso di stock option – stigmatizzate come inefficaci nel migliore dei casi e fonte di incentivi perversi nel peggiore. Un eccellente e per alcuni aspetti rivoluzionario libro di un giovane professore di diritto commerciale americano, Michael Dorff (Indespensable and Other Miths. Why the CEO Pay Experiment Failed and How to Fix It, University of California Press, 2014), ad esempio, sostiene con numerosi dati che i piani di remunerazione legati alla performance aziendale non hanno indotto risultati economici migliori e non hanno “creato valore” per gli azionisti, come è di moda dire (con una formula che trovo vagamente irritante per la sua indeterminatezza). E dunque occorrerebbe tornare a una remunerazione fissa per top manager e amministratori delegati.
Oltre che la struttura, però, si critica anche la misura dei compensi degli amministratori. Nel 2014, il rapporto annuale dell’ufficio studi di Mediobanca sui grandi gruppi italiani, metteva in evidenza che i dirigenti di più alto livello delle nostre società guadagnano in media 36 volte il costo del lavoro dei propri dipendenti, e che spesso presidenti e amministratori delegati mettono in tasca quanto ottanta impiegati.
In una libera economia di mercato, è giusto che sia il mercato a fare i prezzi e il merito deve essere riconosciuto e remunerato. Il mercato tuttavia non è infallibile (soprattutto quando chi riceve lo stipendio concorre, in qualche modo, a determinarlo) e spesso causa ingiustizie crudeli che però possono essere corrette con misure redistributive. Se regole rigide e tetti massimi lasciano molto perplessi, non si può negare che simili sproporzioni nelle remunerazioni tra vertici aziendali e personale in trincea sollevano un problema di equità sociale.
LA PAGA DELL’AMMINISTRATORE INDIPENDENTE
Ciò posto, tuttavia, vorrei affrontare qui un problema diverso e speculare, che si presta a malintesi, facile ironia e critiche populiste, ma che credo chiunque sia interessato ai problemi della governance societaria, e quindi del buon funzionamento dell’economia, deve poter discutere con serenità e onestà intellettuale. Mi riferisco alle remunerazioni troppo basse di alcuni amministratori, in particolare indipendenti e privi di cariche esecutive, e di alcuni sindaci. Il discorso si concentra sulle società quotate, ma vale, e in alcuni casi a maggior ragione, anche per migliaia di società non quotate.
Diamo un’occhiata ai dati. L’ultimo e come sempre prezioso studio di Assonime sulla Corporate Governance in Italia, pubblicato poche settimane fa, ci dice che la remunerazione media dei sindaci delle società quotate italiane è pari a poco più di 50mila euro all’anno, in linea con quella degli amministratori indipendenti. Non c’è che dire, una cifra di assoluto rispetto. Ma esiste molta varianza tra le imprese: accanto a poche grandi società che offrono remunerazioni più alte, ve ne sono molte decisamente meno generose e in diversi casi il compenso del sindaco si attesta intorno ai 25mila euro. E non si tratta necessariamente di piccole società, ma talvolta anche di imprese che operano in settori ad alta complessità tecnica e legale, con frequenti rapporti con la pubblica amministrazione e che svolgono attività potenzialmente in grado di causare ingenti danni.
Non vorrei essere frainteso: 25mila euro all’anno sono una cifra considerevole. Chi scrive conosce il valore del denaro e la fatica del lavoro. Intere famiglie o solitari pensionati vivono con molto meno di quella cifra. Occorre tuttavia anche non essere ipocriti né populisti. Allora facciamo due calcoli, ad esempio per la posizione di un sindaco.
Sempre secondo i dati di Assonime, collegio sindacale e consiglio di amministrazione di una società quotata si riuniscono in media, rispettivamente, dodici e dieci volte all’anno, per un totale di circa 52 ore all’anno. Mi pare ragionevole ritenere che per svolgere bene il proprio compito, per ogni ora di riunione dell’organo societario ogni componente debba spendere almeno altrettanto tempo (in realtà, molto di più) in attività “istruttorie”: lettura di voluminosi e complessi documenti, discussioni informali con colleghi, predisposizione di report e relazioni scritti o orali, selezione di consulenti, rapporti con le autorità di controllo, studio di questioni industriali, finanziarie, contabili o giuridiche. Diciamo, con una certa prudenza, almeno altre 80 ore all’anno, circa dieci giorni di lavoro. A queste ore vanno aggiunti altri compiti, come la partecipazione ad altri comitati o a eventi aziendali di un certo rilievo. Ipotizziamo altre 25 ore all’anno, cinque mezze giornate. Con questo semplicistico calcolo arriviamo a circa 160 ore all’anno. In una società in cui il sindaco riceve 25mila euro all’anno, ciò si traduce in meno di 160 euro all’ora. Se ne prendesse 30mila arriveremmo a circa 188. Ovviamente al lordo delle imposte che sottraggono spesso quasi metà di quella cifra. E sono conti che sottostimano l’impegno orario necessario.
Per un affermato professionista con anni di esperienza alle spalle, che ha investito molto tempo e danari in formazione, meno di 190 euro all’ora non è una cifra particolarmente generosa. Per fare solo alcuni esempi, le tariffe professionali suggerite dall’ordine degli avvocati di una media città di provincia italiana nel 2012 indicano per l’attività di consulenza stragiudiziale un compenso minimo di 150 euro all’ora, che salgono a 300 se il professionista deve fare una trasferta di oltre 50 chilometri. Per attività di gestione amministrativa su incarico giudiziale, poi, non si deve scendere sotto i 500 euro all’ora. Un professore universitario che tiene una relazione di un’ora in un corso di formazione a pagamento prende tra i 300 e i 400 euro. Un’ora di attività di un giovane avvocato di uno studio internazionale viene fatturata ai clienti circa 200 euro. Un buon parrucchiere da signora di Milano per colore, taglio e piega difficilmente prende meno di 120 euro. Insomma, 160 euro all’ora non sono pochi in assoluto, ma la valutazione cambia facendo un realistico confronto con altre attività professionali.
E il punto importante, ovviamente, non è certo la remunerazione oraria. Se in questo calcolo si computano i notevoli rischi di responsabilità amministrativa e penale ai quali si espongono anche gli amministratori e sindaci più scrupolosi e corretti, il quadro muta ancora. Certo, si potrà dire, spesso la sanzione è meritata. Forse, ma non sempre; e soprattutto si deve tenere conto dei danni reputazionali, almeno temporanei, che il mero avvio di procedimenti sanzionatori può causare, anche quando – spesso a distanza di anni – si risolvono a favore dell’amministratore o del sindaco. Luca Enriques ha già ricordato su questo sito come l’apparato sanzionatorio delle operazioni con parti correlate vada rivisto, sostanzialmente in quanto ingiustificatamente severo proprio nei confronti di sindaci e amministratori indipendenti.
UN LAVORO, NON UNA SINECURA
Quale è allora il messaggio che – anche involontariamente – si invia scegliendo di remunerare un sindaco 25mila euro all’anno? Certo sobrietà, ma, temo, talvolta anche questo: “Vieni da noi, c’è qualche rischio, ma è sostanzialmente una sinecura, una piccola stellina da aggiungere al tuo cv”. E può sorgere il sospetto che in alcuni casi l’assunzione di incarichi societari, più che come un vero e proprio lavoro che richiede tempo, impegno, rigore e passione, sia vista come un necessario modo per mantenere rapporti professionali e relazioni, ovviamente un anatema per l’indipendenza di amministratori e sindaci. Più seriamente, vi è – almeno per certe realtà e in certi casi – il rischio di una selezione avversa, in cui proprio i soggetti che più hanno da perdere, e che forse anche per questo più avrebbero da contribuire, preferiscono evitare l’assunzione di incarichi societari, soprattutto in quelle società che, per la natura dell’attività svolta o altre ragioni, presentano una particolare complessità giuridica, finanziaria o industriale.
Ovviamente, vi sono moltissimi amministratori e sindaci che accettano un incarico per compensi contenuti per motivazioni del tutto virtuose, hanno profonde competenze e svolgono il lavoro con grande diligenza e correttezza. Ciò che qui si sostiene è che andrebbero maggiormente valorizzati.
Quale è la soluzione? Non certo “tariffe minime” per gli incarichi societari. Il problema, ovviamente, è soprattutto culturale. Ciò su cui credo sia importante riflettere è che gli incarichi societari sono e devono essere trattati – anche sul piano economico – come veri e propri lavori, forse non a tempo pieno, ma delicati e impegnativi, che comportano grandi responsabilità e talvolta rischi. Proprio remunerazioni più elevate possono attrarre bravi professionisti che, avendo meno connessioni e incarichi di altri, si dedicherebbero con particolare impegno ed entusiasmo al proprio lavoro. Se infatti è vero che un amministratore delegato guadagna spesso 80 volte quanto un dipendente, la proporzione con il guadagno del sindaco che dovrebbe controllarne l’operato non è molto diversa: è corretto?
Anche per una società quotata di piccole o medie dimensioni non è certo un problema pagare tre o quattro persone 50mila euro anziché 25mila. Se invece si pone un problema di costi totali per l’emittente, le società possono risparmiare attraverso organi meno pletorici, più snelli, ma con singole posizioni meglio remunerate, così da attrarre risorse migliori, creare più virtuosa competizione per gli incarichi e poter pretendere una maggiore dedizione dagli incaricati.
Solo per evitare malintesi: non ricopro attualmente alcun incarico societario e non ho nessun interesse o ambizione di ricoprirli in futuro.

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  1. IC

    Condivido pienamente quanto sostiene l’Autore precisando che nelle banche la competenza richiesta, l’impegno e il tempo da dedicare ed infine i rischi giudiziari e di sanzioni amministrative da parte dell Autorità di vigilanza sono di gran lunga maggiori rispetto ad altri tipi di imprese. Malgrado ciò i compensi lordi attribuiti a sindaci e amministratori indidendenti sono relativamente bassi e notevolmente inferiori a quelli dell’alta dirigenza. Trovo poi assurdo che, nel caso di sanzioni, un sindaco o un amminstratore indipendente debbano sborsare somme eguali o di poco inferiori a quelli di ammistratori delegati e alti dirigenti molto più informati sulla gestione e che percepiscono compensi anche 20 volte superiori

  2. faustino falaschi

    Letto questo articolo condivido. Siamo arrivati a valutare il lavoro intellettuale non equamente retribuito perchè molte volte non si considerano le ore necessarie alla conoscenza dei problemi sempre più complessi delle contabilità aziendali. Oltre questo l rischi e l’assunzione di responsabilità sono alte e quindi soggetti a sanzioni civili e penali pesanti.

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