L’Istat ha diffuso i dati sulla disponibilità di risorse idriche in Italia. È un passo avanti verso la costituzione di un sistema informativo adeguato alle esigenze di una economia che sulla relativa facilità di accesso all’acqua ha costruito una parte importante del proprio modello di sviluppo.
QUANTA ACQUA ABBIAMO
In occasione della Giornata mondiale dell’acqua, l’Istat ha diffuso i dati sulla disponibilità di risorse idriche in Italia, colmando una lacuna pluridecennale. È così finalmente possibile conoscere sia l’andamento temporale delle disponibilità, alla scala regionale o di distretto idrografico; sia confrontarci con altri paesi, poiché i dati sono rilevati in modo standardizzato.
Nel novembre scorso, l’Istat ha anche pubblicato i dati relativi all’irrigazione, attestando utilizzi per poco più di 11 km3 (contro i 20 stimati dieci anni prima). L’approccio metodologico è diverso – il modello di stima odierno parte dai fabbisogni delle colture, dunque l’acqua effettivamente utilizzata, mentre in passato si consideravano i prelievi: in mezzo ci sono ovviamente le dispersioni delle reti (che per essere precisi non sono propriamente perdite, ma vanno considerate come ricariche artificiali della falda); e anche il fatto che i prelievi irrigui negli anni normali (come quello preso a base) sono molto inferiori rispetto agli anni siccitosi.
Sta di fatto che il dato Istat smentisce la credenza che vuole essere l’agricoltura il principale “consumatore di acqua” in Italia. Infatti, gli 11 km3 stimati sono solo di poco maggiori dei circa 9 utilizzati a scopi civili.
Il dato sulle disponibilità contiene informazioni interessanti e in parte sorprendenti. Le precipitazioni medie risultano in linea con la media degli ultimi quaranta anni, semmai in leggero aumento (specie al Sud). L’evapotraspirazione – ossia l’acqua che evapora dal suolo e dalle piante, funzione essenzialmente delle temperature – diminuisce leggermente.
Combinati insieme, i due dati determinano un leggero aumento dei deflussi (ossia l’acqua che scorrendo nei corpi idrici raggiunge il mare) e della ricarica delle falde. Anche in questo caso, è il Sud il principale beneficiario dei (seppur lievi) incrementi, mentre il Nord-Ovest evidenzia una (ancor più lieve) diminuzione (tabella 1).
Sarebbe tuttavia erroneo pensare che il dato Istat smentisca quanti paventano l’effetto dei cambiamenti climatici, solitamente associati a una diminuzione delle disponibilità idriche. Oppure sentirsi più al sicuro contro le siccità, soprattutto al Sud.
DIVERSE COME DUE GOCCE D’ACQUA
In realtà, ragionare di disponibilità su base annua costituisce solo una primissima approssimazione. Non tutte le gocce d’acqua sono uguali. L’acqua che piove scorre verso il mare, in un tempo più o meno lungo, a seconda delle circostanze. La neve invernale defluisce al disgelo; i ghiacciai e il permafrost immagazzinano enormi quantità; i laghi, soprattutto quelli alpini, e le falde sotterranee rappresentano altrettanti serbatoi che custodiscono la risorsa per le stagioni successive. Dunque, non è indifferente che piova in estate o nevichi in inverno. Dalle mie parti, i vecchi dicevano “sotto la neve, pane; sotto la pioggia, fame”.
Analogamente, non è indifferente che cada tanta pioggia concentrata in pochi giorni, alternandosi a lunghi periodi senza precipitazioni. Abbondanti piogge autunnali servono a poco, anzi possono generare più danni che benefici, come ci ricordano le ricorrenti alluvioni che falcidiano il nostro paese, soprattutto in ottobre e novembre.
Più le disponibilità sono irregolari, meno si può contare sui serbatoi naturali offerti dalla coltre nevosa, dai ghiacciai, dai laghi e dalle falde, maggiore è la domanda di picco nelle stagioni secche, con la conseguente necessità di provvedere con mezzi artificiali. L’Italia per secoli si è disposta a utilizzare tanta acqua, perché era relativamente poco costoso accedervi.
Se il trend conferma la relativa ricchezza di acqua del nostro paese, le oscillazioni annuali intorno alla media (nell’ordine del 40 per cento a livello nazionale, con punte di oltre il 70 per cento nelle isole) invitano a considerarne con attenzione anche la vulnerabilità. Se analizzato a livello regionale, il dato evidenzia chiaramente, ad esempio, l’annus horribilis 2003 e la prolungata siccità del 2006-2007.
Salutiamo dunque con favore la pubblicazione Istat, consapevoli che si tratta di un passo importante, ma ancora non risolutivo, verso la costituzione di un sistema informativo adeguato alle esigenze di una grande economia urbana, industriale e agricola, che sulla relativa facilità di accesso all’acqua ha costruito per una parte non indifferente il proprio modello di sviluppo.
Per poter davvero essere utili alle decisioni, i dati devono restituire un bilancio idrico puntuale, ossia una rappresentazione istantanea della relazione tra disponibilità e domanda, tra deflussi e capacità dei sistemi idrografici. Devono fotografare non solo i flussi, ma anche gli stock, a cominciare dalla consistenza di nevi e ghiacci perenni, livello delle falde e così via. E devono anche descrivere lo stato qualitativo delle risorse superficiali e sotterranee. Simili basi di dati sono ancora lacunose, come pure quelle relative al profilo degli usi: se ne conosce l’ammontare concesso come diritti di prelievo, ma non sempre le modalità di utilizzo effettivo e i profili temporali.
Ancora insufficiente è lo sviluppo dei modelli idraulici, capaci di tradurre il dato grezzo delle precipitazioni in informazioni puntuali sulla disponibilità. Le autorità di distretto, seppur alle prese con la precarietà delle risorse e degli assetti istituzionali, hanno compiuto comunque progressi notevoli. Ed è anche grazie al progresso delle conoscenze che situazioni anche potenzialmente molto gravose, come le siccità del 2003 e del 2006-2007 sono state governate con successo, minimizzando le conseguenze negative per la collettività.
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Francesco Giordano
Dalle mie parti, in Sicilia, da tempo sono in corso delle campagne di opinione per restituire ai comuni la gestione dell’acqua, al grido di slogan spesso abbastanza demagogici (“in difesa della sacralità dell’acqua…”). Potete consigliarmi qualche fonte su esperienze serie di gestione dell’acqua “in house” o da parte di privati? Grazie. F. Giordano- Sciacca (AG)
Marco
Non sono d’accordo con il punto di vista dell’estensore dell’articolo sopratutto per la “riabilitazione d’ufficio” che egli opera nei confronti dell’agricoltura, paragonando gli 11 km3 di acqua consumata ad uso irriguo, con i 9 km3 di acqua prelevata a scopi potabili. Non si possono infatti confrontare grandezze disomogenee tra di loro, quindi delle due l’una: o si confrontano gli 11 km3 di consumi irrigui con i 5,23 km3 erogati ad uso potabile, oppure su confrontano i 9 km3 prelevati ad uso potabile con i 20 km3 prelevati ad uso irriguo. In entrambi i casi ci si accorge che i quantitativi impiegati dall’agricoltura sono superiori a quelli prelevati ad uso potabile del 100 % circa e non, come riporta l’autore, “solo di poco maggiori”, paragonando il prelievo idrico potabile (appunto 9 km3) con il quantitativo irriguo erogato (11 km3). In queste cose occorre essere precisi, soprattutto in affermazioni “rivoluzionarie” come queste. Colgo l’occasione per rilevare altre importanti constatazioni cui giunge il rapporto ISTAT e che, non so perchè, non sono state colte dall’autore. Esse riguardano: 1) l’elevato incremento d i spesa per acqua potabile delle famiglie (+74%); 2) la diminuzione della manutenzione delle reti per effetto della diminuzione degli investimenti; il conseguente aumento delle dispersioni. Chi e come ha impiegato quindi queste maggiori risorse (+74%) se gli investimenti non sono stati fatti? Forse occorre pensare a qualcosa di diverso dalla privatizzazione….
Antonio Massarutto
In un articolo di 5000 battute non si può parlare di tutto.Questo intendeva commentare i dati quantitativi su disponibilità e usi. Nel merito della sua osservazione: non si possono confrontare grandezze disomogenee, e siamo d’accordo. Però oggi l’Istat certifica che l’impiego di acqua in agricoltura è molto minore di quanto si stimava in passato, e questo dato mi pare rilevante, soprattutto se può contribuire a togliere all’agricoltura l’immeritata patente di “sprecatore di acqua” che la vulgata le ha da tempo affibbiato..Quel che l’agricoltura preleva ritorna in buona parte in falda, e non va contabilizzato come consumo (semmai, fa un favore all’ambiente, rallentando il deflusso dell’acqua verso il mare).
Marco
Mi dispiace replicare nuovamente all’autore, che dimostra di non conoscere, come purtroppo molta parte di chi governa le risorse idriche in questo paese oggi, lo stato reale delle cose. Un’analisi attenta ed imparziale conferma, ripeto conferma, che l’uso agricolo oggi eccede del 100% circa l’uso potabile, con dispersioni rilevantissime dovute sia ai sistemi di irrigazione adottati, sia al carente stato manutentivo delle reti irrigue. L’affermazione che i prelievi agricoli ritornano in buona parte in falda, rallentando il deflusso delle acque verso il mare e facendo così “un favore” all’ambiente, è infine una beata amenità, innanzitutto perché tornano in falda anche le dispersioni delle reti idrico-potabili (ma ciò nonostante si continua a demonizzare le loro dispersioni), ma soprattutto perché i quantitativi che l’agricoltura “restituisce” all’ambiente (per l’appunto in falda) sono strapieni e stracarichi delle peggiori razze di pesticidi e fertilizzanti (delle quali tutti gli agricoltori non hanno alcuna intenzione di fare a meno) che vanno ad inquinare le falde, quelle stesse falde dalla quali traggono origine molto spesso gli approvvigionamenti delle reti idrico-potabili, imponendo ai gestori inevitabili e costosi trattamenti epurativi. Morale: gli usi agricoli sono i principali fattori di depauperamento quantitativo e qualitativo della risorsa idrica e rappresentano la prima priorità in un piano di recupero serio.