Il presidente del Venezuela fronteggia una ondata di impopolarità che potrebbe condurlo ad abbandonare in anticipo la carica. La grave recessione deriva da scelte sbagliate in un’economia priva di adeguata diversificazione produttiva. Lo stock di riserve petrolifere e la mancanza di energia.
Popolarità ai livelli minimi
Dopo Dilma Roussef in Brasile, anche Nicolas Maduro si trova a fronteggiare una ondata di impopolarità che potrebbe condurlo ad abbandonare in anticipo la presidenza del Venezuela. La recessione sempre più profonda alimenta un’ostilità che è ulteriormente cresciuta dopo che il partito del presidente è stato accusato di aver fiancheggiato gli assassini di German Mavare, uno dei leader dell’opposizione.
Prima ancora, nello scorso dicembre, c’era stata la perdita della maggioranza in parlamento. Ora si aggiunge la notizia della raccolta di quasi due milioni di firme per avviare un processo che potrebbe portare alla sua destituzione. Insomma, Maduro non gode certo della popolarità di cui si vantava il suo predecessore, Hugo Chavez.
Una crisi prevedibile
La recessione che ha colpito il Venezuela è non solo profonda ma destinata a peggiorare. Secondo le ultime previsioni del Fondo monetario internazionale la caduta del Pil passerà dal -5,7 per cento nel 2015 al -8 per cento nel 2016. Il paese sembra tornato ai primi anni Settanta, quando – dopo aver sperimentato una ultra-decennale fase di crescita che aveva consentito al Venezuela di diventare la più ricca economia dell’America Latina – era sprofondato in una grave crisi. In realtà, la recessione attuale non è frutto di una sorpresa. Piuttosto è il classico effetto di un ciclo “boom and bust” (causato da un utilizzo pro-ciclico della politica fiscale) che si manifesta all’interno di un’economia priva di adeguata diversificazione produttiva (come conseguenza estrema della cosiddetta “maledizione delle risorse naturali”) e in cui le istituzioni sono state progressivamente indebolite e rese sempre meno credibili da più di quindici anni di chavismo.
Sino al 2014, il paese vive una fase di boom che consente di sostenere una elevata spesa pubblica – utilizzata sia per realizzare programmi di lotta alla povertà che per aumentare il peso del settore statale nell’economia, mediante la creazione di imprese pubbliche o nazionalizzazione di quelle private, soprattutto in ambito petrolifero. Al tempo stesso, non vengono accantonate risorse – generate dal ciclo favorevole delle materie prime – da usare per stabilizzare le fasi recessive (come invece viene realizzato in Cile) o da investire nella esplorazione, produzione e raffinazione del greggio (Us Energy Information Administration). Non si cerca neppure di aumentare il grado di diversificazione del sistema produttivo. Oltre il 25 per cento del Pil rimane generato da attività svolte nell’industria degli idrocarburi, sostanzialmente nazionalizzata, che dà luogo al 96 per cento delle esportazioni totali.
Quando il ciclo favorevole delle materie prime ha termine, la dinamica del Pil inverte rapidamente la tendenza. L’economia entra in recessione, in conseguenza del crollo di consumi e investimenti privati. Le entrate fiscali calano mentre la spesa pubblica rimane (almeno inizialmente) elevata. Il deficit pubblico cresce a dismisura (nel 2016 il solo deficit primario raggiungerà il 23,4 per cento del Pil), così come quello di parte corrente (pari al 7,6 nel 2015 e solo al 6,6 per cento nel 2016, grazie – si fa per dire – al crollo delle importazioni, superiore negli ultimi 12 mesi al 40 per cento). Tranne che i beni di prima necessità si importa poco o nulla – anche perché manca la valuta pregiata (cioè i dollari), nonostante l’introduzione di un sistema di cambi multipli.
Le conseguenze sono a dir poco devastanti. Il mercato internazionale cessa di acquistare titoli governativi, anticipando la possibilità di un prossimo default. Il deficit pubblico viene così monetizzato spingendo rapidamente verso l’alto l’inflazione che, secondo il Fondo monetario, raggiungerà il 700 per cento nel 2016 e il 2.200 per cento nel 2017. Viene dichiarato lo stato di emergenza (almeno sino al 15 luglio).
Più in generale, (quasi) tutto l’intero sistema socio-economico entra in una situazione di stallo per la mancanza di energia – oltre che di beni importati. Le scuole vengono chiuse un giorno in anticipo. Nel settore pubblico la settimana lavorativa diventa di soli due giorni. Numerose imprese sono costrette a interrompere l’attività produttiva in conseguenza delle continue interruzioni nella fornitura di energia elettrica. Si tratta di un risultato per certi versi paradossale, considerando che il Venezuela vanta il più grande stock di riserve petrolifere al mondo. Ma in realtà la maggior parte dell’energia del paese è generata da centrali idroelettriche in questo momento inutilizzabili per via del basso livello di acqua accumulata all’interno dei principali bacini artificiali. Una condizione (quella meteorologica) che Maduro e i suoi seguaci difficilmente potranno attribuire – ricorrendo a una retorica ormai stucchevole, usata per giustificare tutti i risultati negativi degli ultimi mesi – alla “scellerata condotta della borghesia del paese”.
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