La “Buona scuola” ha reso obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro per gli studenti di tutte le scuole superiori. Difficile dare un giudizio su uno strumento appena introdotto. Ma alcune criticità sono evidenti. Le possibili soluzioni passano per una maggiore responsabilità sociale delle imprese.
Alternanza obbligatoria
La debolezza del rapporto tra scuola e mondo produttivo rappresenta una delle più evidenti criticità dell’economia e della società italiana. Per affrontarla, e ispirandosi esplicitamente all’esperienza tedesca della formazione duale, con la “Buona scuola” il governo Renzi ha modificato il decreto legislativo 77/2005 della riforma Moratti proprio in materia di “alternanza scuola-lavoro”.
Con la “Buona scuola” l’alternanza è così diventata obbligatoria (400 ore negli istituti tecnici/professionali e 200 nei licei) nell’ultimo triennio della scuola secondaria di II grado.
I primi a partire con il nuovo regime sono stati i ragazzi delle classi terze dello scorso anno. Nell’anno scolastico 2015-2016 hanno partecipato 652.641 ragazzi, coinvolgendo il 96 per cento delle scuole chiamate in causa. I percorsi di alternanza attivi sono passati da 11.585 a 29.437 (+154 per cento). Le esperienze presso le strutture ospitanti sono state 149.795, nel 36,1 per cento dei casi si è trattato di un’impresa.
Le vere criticità del modello
I numeri dei soggetti coinvolti non permettono per il momento di formulare un giudizio complessivo. Stiamo parlando di migliaia di progetti formativi e in attesa dell’indagine qualitativa di Indire (Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa), le valutazioni andrebbero fatte superando le banali strumentalizzazioni pro o contro la riforma.
Una prima “criticità” riguarda la definizione stessa del concetto di “alternanza”. Istituti professionali e licei classici gli attribuiscono infatti un significato diverso: i primi vedono lo strumento come un ponte verso il mercato del lavoro, quindi tipicamente uno strumento di orientamento al lavoro; i secondi valutano l’alternanza come strumento esclusivamente educativo. Tra i due estremi si collocano, in una versione “ibrida”, gli istituti tecnici.
Nei licei classici si aggiunge anche la difficoltà di inserire nei piani di studio le 200 ore di alternanza, che è vista spesso come un danno perché ridurrebbe il tempo da dedicare alla didattica, fondamentale nella preparazione degli studenti per il successivo passaggio verso l’università.
Una seconda rilevante criticità è stabilire in cosa consista precisamente un piano pluriennale di alternanza scuola-lavoro. È infatti possibile avere percorsi di “serie A” ben strutturati, anche con la possibilità di sviluppare project work internazionali (vedi progetto Ecli) o di garantire una sorta di brand del percorso formativo aziendale (progetto Desi II in Ducati). Oppure si possono avere attività di “serie B” dove si realizza qualche attività di orientamento, un paio di visite in azienda e un possibile stage svincolato completamente dal percorso didattico, volto a raggiungere esclusivamente il monte-ore necessario. Se da un punto di vista di adempimento formale, entrambi rispettano la riforma, nel merito si rischia di danneggiare in termini di conoscenze e competenze acquisite gli studenti del percorso di “serie B”.
L’ultima delle “criticità” dell’alternanza è la preparazione dei docenti sul mercato del lavoro: conoscono perfettamente la riforma della “Buona scuola”, ma nella maggioranza dei casi non conoscono gli attori (per esempio, i centri per l’impiego o le Camere di commercio) e le funzioni che servono per interagire con le imprese.
Alcune soluzioni
La possibilità di inserire le tematiche affrontate nel corso dell’alternanza come seconda prova d’esame potrebbe rappresentare un argomento valido ma non sufficiente per incentivare i licei classici a credere veramente nei principi della riforma. Risultati migliori potrebbe ottenere la scelta di attribuire un “peso” specifico all’alternanza nella fase di accesso all’università, assegnando a seconda della qualità del percorso realizzato uno specifico punteggio, che andrebbe ad aggiungersi a quello del test d’ingresso (sulla valutazione del percorso si potrebbe chiamare in causa Miur, UnionCamere, Isfol ed Anvur). La possibilità di attribuire una sorta di riconoscimento formale dei percorsi di alternanza, attraverso l’analisi di chiari indicatori, permetterebbe anche di individuare le buone pratiche da generalizzare sul territorio nazionale.
Fondamentale è poi la creazione di uno spazio “curricolare” per il docente scelto quale figura di riferimento per l’alternanza. In altri termini, una sorta di certificato di competenza (tramite protocollo d’intesa tra Miur e Anpal) da acquisire per poter assolvere a questo compito, in cambio di una riduzione delle attività didattiche.
Infine, il successo dell’alternanza nei prossimi anni dipenderà soprattutto dall’impegno delle imprese (soprattutto le piccole imprese artigiane) nel credere in questo strumento di transizione scuola-lavoro. Qui, purtroppo, non c’è una vera soluzione: si possono certamente creare eventuali incentivi economici (come prevede l’ultima finanziaria), ma in realtà quello che conta è un criterio culturale – lo stesso che è alla base del successo del modello duale tedesco -, ovvero una maggiore responsabilità sociale di impresa.
È questa la sfida più rilevante e chiama in causa non solo il governo, ma soprattutto le organizzazioni datoriali per favorire la diffusione e il successo dello strumento.
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Alessandro
Non penso sia una buona idea stravolgere ulteriormente un esame di maturità che già di per se’ ha poco valore e il cui voto è difficilmente confrontabile fra istituti. Si inserirebbe solamente un ulteriore elemento di arbitrarietà che va a formare il voto finale.
L’incentivo più importante dell’alternanza scuola/lavoro è di fornire ai giovani un’esperienza lavorativa che si possa inserire a curriculum e vada a rompere il circolo vizioso per cui serve esperienza lavorativa per poter lavorare ma si deve prima lavorare per avere esperienza lavorativa.
La criticità riguarda più la QUALITA’ (a volte dubbia) dei tirocini dell’alternanza scuola lavoro.
Markus Cirone
Imporre per legge l’alternanza scuola lavoro nei licei è una cattiva idea. Imporre 200 ore in 3 anni Una enormità) è anche peggio. Imporre con una legge che venga attuata nel giro di pochi mesi lasciando le scuole da sole nella gestione dell’intera faccenda (perché così è stato) è ridicolo.
Dina Labbrozzi
L’alternanza scuola-lavoro, per chi come me lavora da svariati anni negli Istituti Professionali, ripropone nella sostanza la “Terza Area”, un progetto di integrazione del curricolo introdotto nella Riforma degli Istituti Professionali (“Progetto 1992”) e cancellato dalla legge Gelmini (2008). Il progetto comprendeva un percorso formativo di 300 ore annue (180 di teoria e 120 di tirocinio) sul biennio di formazione post-qualifica (4° e 5° anno degli Istituti Professionali). Non so quanta dell’esperienza degli insegnanti che hanno lavorato su questi percorsi sia stata non dico valorizzata, ma perlomeno utilizzata dalle scuole a indirizzo tecnico-liceale (modulistica, documentazione del percorso, certificazione delle competenze). Per quanto riguarda l’impatto effettivo dell’alternanza sul rapporto tra scuola e mondo produttivo rimangono molte criticità che non dipendono dalla scarsa qualità dei percorsi extra-curricolari, ma dal mancato raccordo fra scuola e mondo del lavoro. Un solo esempio fra tutti: gli studenti che si diplomano al Corso Servizi Socio-Sanitari, a meno che le Regioni non abbiano deliberato in merito, non possono accedere ai ruoli professionali di OSS- Operatore Socio-Sanitario. Come a dire che l’Istituto Professionale insegna un mestiere che però non può essere svolto, a meno che gli studenti non acquisiscano un diploma – spesso erogato da scuole private – cui si accede con il Dilpoma di Terza Media ed un corso variabile fra 350 e 1000 ore.
Enrico Vannicola
Condivido pienamente l’ultimo periodo del post ma ritengo che la responsabilità sociale delle imprese debba necessariamente incontrare un cambio di approccio del mondo della scuola a quello del lavoro. Senza il superamento di preconcetti, a volte di natura meramente ideologica, non si va da nessuna parte: le aziende devono imparare che l’alternanza è un investimento sui potenziali futuri collaboratori ma la scuola deve accettare l’idea che una formazione di qualità non può prescindere dal coinvolgimento del mondo del lavoro. L’alternativa è quella di continuare a formare giovani diplomati e laureati con possibilità di accesso al mercato del lavoro scarse e precarie.
Giovanni Rossi
Mi trova d’accordo con le sue tesi solo nelle ultime otto righe, a partire dalla parola Infine !.