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Venezuela, cronaca di una morte annunciata

Il Venezuela si trova a rivivere la più classica delle crisi in stile anni Settanta e Ottanta, caratterizzata da fughe di capitali e calo delle riserve ufficiali in uno scenario di profonda recessione e di elevata inflazione. Ed è un crollo annunciato.

Crollo annunciato da tempo

La crisi venezolana è la triste cronaca di una morte annunciata. Come negli anni Settanta e Ottanta, Caracas si trova a rivivere la più classica delle crisi di un paese emergente, caratterizzata da fughe di capitali e calo delle riserve ufficiali che si sovrappongono a uno scenario di profonda recessione e di elevata inflazione. La sfiducia è talmente profonda che la popolazione inizia ad abbandonare il paese.
Un anno fa di questi tempi era facile prevedere che il Venezuela sarebbe precipitato in una crisi profonda. Ma neppure uno dei più attenti conoscitori della sua realtà era stato in grado di anticipare la precisa dimensione di un disastro che non è più solo economico, ma anche politico-umanitario.
Pochi indicatori sono più che sufficienti a definire il quadro macroeconomico di un paese che, vale la pena ricordarlo, agli inizi degli anni Ottanta vantava il reddito pro-capite più elevato di tutta l’America Latina. Il Pil è in continua diminuzione a partire dal 2014. Lo scorso anno – stando alle stime del Fondo monetario internazionale, perché il governo venezuelano ha sospeso le pubblicazioni di statistiche ufficiali ormai da diversi anni – il Pil dovrebbe essere calato del 18 per cento. Contemporaneamente, il tasso di inflazione è ritornato a tre cifre. Nel 2016 le stime del Fondo mostrano una crescita dell’indice dei prezzi al consumo superiore al 250 per cento che quest’anno potrebbe addirittura arrivare a superare la soglia del 700 per cento.
I conti con l’estero sono coerenti con questo scenario drammatico. Il deficit di parte corrente (pari al 7,8 per cento del Pil nel 2015) si sta riducendo, ma solo perché le importazioni crollano per effetto della profonda recessione e di un tasso di cambio (sul mercato nero) ormai fuori controllo. La crisi e la sfiducia sono così diffuse che per la prima volta nella storia recente del paese i flussi di investimenti diretti esteri realizzati da multinazionali Usa sono risultati negativi. Ciò significa che le società statunitensi hanno iniziato a disinvestire nel tentativo di ridurre il rischio di subire espropriazioni (come già accaduto all’impianto posseduto da General Motors nello Stato di Carabobo alla fine di aprile) da parte del governo Maduro.
A lasciare il paese non sono solo le imprese multinazionali. Un numero sempre maggiore di residenti venezuelani ha deciso di migrare non solo verso paesi limitrofi (come Brasile e Colombia), ma spingendosi a chiedere asilo anche presso stati ben più distanti (come Stati Uniti e Spagna).

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La risposta di Maduro

Come risposta alla profonda crisi economica, il presidente Maduro ha imposto prezzi amministrati e intensificato l’espansione monetaria necessaria a finanziare il crescente deficit pubblico. Inoltre, ha proposto la creazione di un nuovo organo politico – l’assemblea popolare, costituita da 500 rappresentanti, di cui solo la metà “liberamente eletti”, con una durata non meglio specificata e l’obiettivo di cambiare la costituzione (già riscritta da Hugo Chavez diciotto anni or sono).
In poche parole, Maduro ha tentato un vero e proprio colpo di stato, solo pochi mesi dopo aver rinviato lo svolgimento delle elezioni regionali per evitare una debacle simile a quella registrata in occasione delle elezioni politiche del dicembre 2015 che hanno condotto l’opposizione a prendere il controllo dell’assemblea nazionale. E le reazioni non si sono fatte attendere. La popolazione è scesa in piazza manifestando contro la proposta di costituzione dell’assemblea popolare e chiedendo l’organizzazione di elezioni democratiche. Le dimostrazioni anti-governative sono diventate sempre più numerose e sono presto sfociate in scontri che hanno provocato (sino a questo momento) alcune decine di morti e diverse centinaia di feriti.
A questo punto per ricostruire il tipico scenario di crisi degli anni Settanta-Ottanta, manca solo il default sul debito estero. Il crescente isolamento del Venezuela dai mercati – ha perso anche l’appoggio del governo cinese che aveva recentemente erogato un prestito da 60 miliardi di dollari –rende sempre più probabile la materializzazione del default.
Più difficile è invece la previsione sull’evoluzione dello scenario politico. Nicolás Maduro controlla saldamente le principali istituzioni del paese – grazie alle “innovazioni costituzionali” di Chavez – e sembra ancora contare sull’appoggio di buona parte delle alte sfere delle forze armate.
Ciò che davvero lascia perplessi è, ancora una volta, la totale assenza di una presa di posizione e di decisioni concrete da parte della comunità internazionale. Forse bisognerà attendere che la scarsità di cibo e medicinali faccia scoppiare una crisi umanitaria, ancora più acuta di quanto già non sia, perché qualcosa venga fatto.

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En marche! Ma con chi?

  1. Pierluigi Molajoni

    Solo un appunto sulla nozione che agli inizi degli anni Ottanta il Venezuela vantava il reddito pro-capite più elevato di tutta l’America Latina, che peraltro ricorda simili commenti sulla ricchezza dell’Argentina: sono/erano ricchezze dovute al settore primario, mal distribuite, con povere supply chains e scarso impatto sulla occupazione, sul capitale umano, sulla cultura.

  2. Savino

    Con la corruzione che c’è anche in Italia, il Venezuela è davvero vicinissimo

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