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Il ritorno dei contratti di lavoro precari

Finiti gli sgravi contributivi, i contratti a tempo indeterminato sono crollati. Così il tempo determinato è oggi la formula contrattuale più utilizzata nelle nuove assunzioni. Sono gli effetti del decreto Poletti del 2014, che per questo va modificato.

Contratti di lavoro nel 2016

A marzo del 2014, prima di diventare presidente dell’Inps, Tito Boeri nell’articolo “Per favore, cambiate quel decreto!” evidenziava i rischi, in termini di conseguenze sociali, dell’introduzione nella regolamentazione del mercato del lavoro italiano del cosiddetto “decreto Poletti” (decreto legge 20 marzo 2014, n. 34). Oggi quelle paure purtroppo sono confermate: anche senza affidarsi a complessi calcoli o stime, basta semplicemente osservare i dati sulle comunicazioni obbligatorie dal 2013 al 2016 elaborate dell’Osservatorio del precariato dell’Inps.

Tabella 1

Fonte: Elaborazione da Osservatorio del precariato Inps

Nel 2015, complice il sovrapporsi di due misure (contratto a tutele crescenti + sgravi contributivi), i contratti a tempo indeterminato erano decisamente decollati: il governo Renzi aveva volutamente “drogato” il sistema di regolamentazione proprio per garantire una maggiore stabilizzazione dei rapporti di lavori e sotto molti punti di vista alla fine di quell’anno c’era quasi riuscito.

Tuttavia, al termine degli incentivi si è tornati alla normalità e il contratto a tempo indeterminato è crollato del 37 per cento, mentre quello a tempo determinato rappresenta ancora oggi il contratto più utilizzato nelle nuove assunzioni e nel 2016 è addirittura aumentato dell’8 per cento rispetto all’anno precedente. Esattamente come affermava Boeri, il contratto a tempo determinato così riformato spiazza le altre forme contrattuali (non solo il contratto a tempo indeterminato, ma anche l’apprendistato).

D’altronde, per quale “assurda ragione” un datore di lavoro dovrebbe assumere una persona alla ricerca di un lavoro con un contratto a tutele crescenti, che prevede comunque penali per uscirne, quando può utilizzare un contratto a tempo determinato per tre anni (con la possibilità di realizzare numerose proroghe), dove non è tenuto a indicare le ragioni tecniche, organizzative e produttive della cessazione del rapporto di lavoro?

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Insomma, se da una parte il Jobs Act nasce per contrastare il “precariato”, il contratto a tempo determinato previsto dal decreto Poletti va nella direzione opposta. Purtroppo, riprendendo quanto scritto nel 2014 da Tito Boeri, chissà quante discriminazioni si sono già effettivamente verificate: per fare un solo esempio, “alla notizia della maternità di una lavoratrice, il datore di lavoro potrà semplicemente non rinnovare il suo contratto”. Ma non ci sono solo le eventuali discriminazioni, non dimentichiamo infatti che un effetto negativo dei contratti a termine è l’impossibilità, soprattutto per le generazioni più giovani, di costruire un percorso professionale che porti a promozioni e scatti di carriera. Anzi, davanti a loro si apre il rischio concreto di vedersi costretti dopo tre anni di lavoro a ripartire da capo, in altri ambiti o settori economici.

Una norma da modificare

Ci sono tutti i rischi di creare un modello che porti alle conseguenze già viste in Spagna, dove una parte significativa della forza lavoro rimane intrappolata in contractos temporales e dove chi vuole trovare lavoro compete con milioni di lavoratori che passano da contratto a contratto. Al momento non si conosce “quale” lavoro richieda un contratto a termine di tre anni e perché non possa andar bene il contratto a tutele crescenti a tempo indeterminato. Seppure più flessibile rispetto al passato, prevede comunque tutta una serie di condizioni e tutele che al momento gli oltre 3 milioni di lavoratori a tempo determinato sarebbero più che contenti di ricevere (in primo luogo, potrebbero affrontare con maggiore serenità tutte le future scelte di vita). Come evidenziano anche Lorenzo Cappellari e Marco Leonardi, è necessario incentivare il più possibile i datori di lavoro verso il contratto a tutele crescenti, non tanto con ulteriori sgravi contributivi, quanto con la modifica del contratto a tempo determinato, reintroducendo la causale o un costo di non-trasformazione del contratto in un rapporto a tempo indeterminato.

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10 commenti

  1. Mario

    Non riesco a capire perchè non si riesce ad applicare in Italia il sistema anglosassone che prevede un costo unitario superiore per tutti i contratti precari rispetto ai contratti stabili.

    • arthemis

      Concordo, non mi è chiaro perché la remunerazione dei contratti precari non debba essere maggiore visto che parte del rischio di impresa viene passato al lavoratore.

  2. Alessandro Russo

    Dai dati non sembra che stia spiazzando l’apprendistato, in forte crescita sia nel 2016 che nei primi mesi del 2017. Inoltre nelle assunzioni a termine sono compresi il lavoro somministrato e quello intermittente, che pare in ripresa nel 2017 anche in sostituzione del lavoro accessorio. Infine tra dicembre 2014 e dicembre 2015 gli occupati dipendenti a tempo indeterminato sono aumentati di 714.000 unità secondo l’Inps. Quelli a tempo determinato sono diminuiti di 213.000.
    Alessandro Russo

  3. Gianluca

    Ma qualcuno di voi ha mal fatto l’imprenditore?
    I clienti spariscono dall’oggi al domani, le commesse già acquisite vengono annullate, la solvibilità dei clienti oscurata dalla privacy, le cause legali hanno tempi geologici e costi stratosferici, la tassazione è sadica e folle, gli adempimenti inutili e farraginoso, pura fuffa fatta esclusivamente per dare !avoro ad una pletora di soggetti, pseudo esperti sorti dal nulla, le camere di commercio, le valutazioni rischi, le mille certificazioni, i centomila moduli da scaricare online, i sadismo contabili con la giungla interpretativa…
    Tutto questo non do renne riflettersi sull’ultimo anello della catena, il lavoratore?
    È l’unico margine di flessibilità rimasto visto che l’evasione fiscale e ormai monopolio di grandi aziende e banche o della criminalità organizzata.
    Le piccole imprese soffrono, arrancano e non chiudono perché non possono, drogando le statistiche, che grazie agli studi di settore e al pizzo richiesto per evitare gli accertamenti dipingono una realtà che non esiste e sulla quale vengono fatte le scelte politiche.
    Ma via! Il lavoro è dscontinuo, precario, volatile di sul, come i gusti e le scelte dei clienti.
    Volete che diventi sicuro, stabile e tutto a tempo indeterminato?
    Imponete gli stessi obblighi che fanno capo alle imprese anche ai privati. Obbligateli invece che a fare i corsi sulla sicurezza a comprare i miei servizi anche se non li vogliono, non servono e non sono convenienti.
    Ah, ci stiamo arrivando?

    • bob

      …ci fu un momento della storia in cuia lla domanda ” Regina il popolo ha fame..” l’ eterea fanciulla rispose ” Se non hanno più pane, che mangino brioche..”…come andò a finire lo sappiamo tutti
      C’è uno scollamento tra la realtà e la teorica burocratica non dissimile dalla risposta della Regina, aggravato dal fatto che l’ 80% della classe burocratica non sa cosa sia merito e un CV

  4. Matteo

    Poichè i dati parlano piuttosto chiaro e confermano, di fatto, questioni già emerse negli ultimi mesi credo sia utile aprire un ulteriore fronte di discussione che parte dalla seguente considerazione: per l’ennesima volta si sceglie consapevolmente di creare il gruppo dei fortunati (che potremmo provocatoriamente chiamare i ‘drogati’) e il gruppo degli sfortunati, lavoratori precari che non si drogano ma che continueranno ad esser tali, con l’angoscia di aver mancato di un anno certe possibilità. Se una misura di un certo tipo sai già che non è strutturalmente sostenibile… non farla.. Lo spiazzamento in questo caso è sociale…

  5. Mi sembra che con questo articolo anche qui su lavoce.info si sia riusciti a far confusione tra stock e flussi.
    I _lavoratori_ con contratto a tempo indeterminato sono aumentati molto nel 2015, e nel 2016 sono aumentati ancora, sia pure molto meno. Questi sono i fatti, che le tesi di questo articolo mi sembra ignorino serenamente.

  6. Maurizio Cocucci

    Dott. Giubileo, il lavoro cosiddetto ‘precario’ è una realtà che non interessa solo noi, ma è un fenomeno internazionale e correlato alla trasformazione dell’economia che è diventata sempre più dinamica. Se alziamo la campana di vetro sotto la quale ci rifugiamo e guardiamo cosa avviene all’estero, notiamo che l’Italia è praticamente nella media e questo nonostante la situazione della nostra economia che sebbene sia in ripresa è comunque in uno stato esso stesso precario. Dalla tabella OCSE sul tasso di contratti a termine rispetto al totale lavoratori dipendenti emerge che il nostro 14% del 2015 è superato da Paesi come Finlandia, Francia, Svezia, Paesi Bassi, e che la tanto citata Germania si colloca poco sotto con il suo 13%. Se poi guardiamo ai dati sui contratti part-time, la Germania ci supera con il suo 22,4% contro il nostro 18,7% (sempre riferito al 2015) e che livelli più elevati hanno anche Norvegia, Danimarca, Austria, Giappone, Regno Unito, Svizzera e Paesi Bassi. Curioso poi osservare il tasso di lavoratori autonomi (professionisti e imprenditori) sul totale occupati: noi siamo ai primi posti con un 24,7% contro livelli spesso dimezzati presenti nei Paesi a economia avanzata. Questo la dice lunga sul fatto che spesso da noi vengano utilizzati contratti in maniera irregolare (false partite IVA che all’atto pratico esercitano come veri e propri lavoratori dipendenti). Non serve jobs-act o similari, è una questione sia culturale che di realtà economica.

  7. Michele

    È la legge di Gresham. Il lavoro cattivo scaccerà sempre quello buono. Se non si pone un serio freno alla precarizzazione del lavoro le condizioni economiche e sociali generali non potranno che peggiorare. A danno in primis di quelle stesse aziende che sfruttano la precarietà ma che in realtà si segano l’erba sotto i piedi. Il decreto Poletti, il jobact, la reintroduzione dei voucher etc etc tutti passi verso la precarizzazione crescente del lavoro e il declino irreversibile dell’Italia

  8. Aldo

    Mia moglie è l’esempio dei danni del Jobs Act, dopo 18 mesi di lavoro a tempo determinato come Direttore Sanitario di una struttura, si è trovata senza rinnovo perchè ha avuto un figlio. Legge assurda che ha dato potere discriminatorio ai datori di lavoro e nessuna possibilità di tutela alle madri che vorrebbero avere un figlio e non perdere il posto di lavoro.
    E poi si lamentano che non si fanno figli e dei problemi demografici… facessero leggi serie.

    ps. ad esempio la Legge prevede per mia moglie il diritto di precedenza per le assunzioni per la stessa mansione nei successivi 12 mesi. Bello. Peccato che questo diritto si possa aggirare assumendo a P.Iva.

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