La Commissione europea ha adottato un regolamento per il monitoraggio degli investimenti esteri in entrata. L’obiettivo principale sono quelli cinesi, aumentati in modo esponenziale, e spesso caratterizzati da contorni ed effetti poco trasparenti.

Nuovo regolamento sugli investimenti esteri

Dopo lo stallo in cui versano da sempre le negoziazioni per un Trattato bilaterale degli investimenti tra Ue e Cina iniziate nel 2012, la Commissione europea ha adottato un regolamento per il monitoraggio degli investimenti esteri in entrata che si affiancherà alle regole nazionali, per proteggere la sicurezza e l’ordine pubblico nell’Unione. Norme simili esistono però solo in circa la metà degli stati membri, e le misure finora adottate per far fronte all’ondata di investimenti da paesi terzi sono state le più disparate e spesso non hanno evitato o limitato acquisizioni predatorie.

Nel regolamento europeo è implicito il riferimento agli investimenti cinesi, il vero motivo che lo ha ispirato. L’Europa è diventata infatti la principale destinazione dei capitali cinesi nell’ultimo decennio, con uno squilibrio crescente nei flussi bilaterali: 35 miliardi di euro investiti dai cinesi nel vecchio Continente nel 2016, in aumento del 77 per cento rispetto all’anno precedente, mentre il valore degli investimenti europei in Cina è diminuito per il quarto anno consecutivo, e si attesta sugli 8 miliardi di euro.

Reciprocità e imprese strategiche

I criteri principali considerati nel monitoraggio dei progetti di investimento sono tre, tutti ispirati al principio della flessibilità. Potranno essere limitate le acquisizioni da parte di imprese di paesi che non garantiscano reciprocità nell’apertura agli investimenti in casa propria.

Il principio della reciprocità è il più invocato perché la sua mancanza negli investimenti bilaterali è all’origine di molte frizioni. Tuttavia, perseguire la piena reciprocità lascia intendere una parità di trattamento reciproco tra paesi con lo stesso status e contraddice la posizione europea secondo la quale la Cina non sarebbe un’economia di mercato, status che le garantisce un trattamento favorevole. Pretendere reciprocità solleva in altre parole l’altro tema caldo e irrisolto tra Europa e Cina.

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Meglio allora inserire ulteriori criteri, che nell’insieme permettano di valutare progetti dai contorni e dagli effetti poco trasparenti. Tra questi, lo screening preventivo delle acquisizioni di attività ritenute strategiche da parte di imprese di proprietà statale o pubblica.

Che cosa sia strategico non può essere definito a priori: ciò che lo è cambia nel tempo, e per un paese può essere diverso da un altro, ragion per cui la regolamentazione appena varata include, tra i settori ritenuti strategici, infrastrutture, tecnologia e input critici, ma lascia molto spazio di manovra al regolatore.

Per quanto riguarda la proprietà statale o gli aiuti di stato alle imprese acquirenti, nel caso della Cina non è agevole distinguere le aziende pubbliche da quelle davvero private, perché la riforma delle grandi imprese di stato degli ultimi vent’anni ha ne ha ridotto il numero attraverso le fusioni e il consolidamento di colossi che oggi sono ancor più grandi. Ma la riforma della struttura proprietaria, lontana da qualunque forma di privatizzazione, si è limitata a quotare una delle società del gruppo, il cui proprietario in ultima istanza rimane sempre lo stato. Inoltre, benché siano classificate come pubbliche soltanto le imprese registrate come tali, molte altre che di fatto sono di proprietà pubblica (perché lo Stato o le province ne sono gli azionisti di maggioranza) sono registrate come imprese estere oppure come imprese a responsabilità limitata o per azioni. Dai dati del censimento delle imprese analizzati da Chang-Tai Hsieh e Zheng (Michael) Song, nel 1998 “solo” il 15 per cento delle imprese di proprietà pubblica erano registrate come private, ma nel 2007 la percentuale era salita a poco meno del 50 per cento.

Effetti sulla concorrenza

Il regolamento europeo prevede poi un terzo criterio importantissimo: quello che considera l’effetto delle acquisizioni sul grado di concorrenza all’interno dell’Unione. Dal momento che le acquisizioni estere influenzano la concentrazione del mercato interno, ricadono nell’ambito di applicazione della normativa europea sulle fusioni e acquisizioni. Sebbene l’espansione internazionale di multinazionali dei paesi emergenti abbia in generale ridotto la concentrazione di molti settori (dieci imprese in più dai paesi emergenti riducono la concentrazione di mezzo punto percentuale), se misurata su scala globale, questa è invece aumentata significativamente nei settori in cui le imprese di stato cinesi hanno assunto una posizione dominante (in settori sia tradable sia non-tradable) attraverso consolidamento in casa e acquisizioni all’estero (ogni impresa cinese in più nelle top 4 aumenta la concentrazione di 5 punti percentuali).

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L’aumento del potere di mercato delle imprese cinesi riduce l’efficienza allocativa globale, ma è ancor più preoccupante perché esse rappresentano un’eccezione nella relazione tra dimensione di impresa, efficienza e produttività: mentre in tutto il mondo le imprese più grandi sono anche le più produttive, in Cina è esattamente il contrario.

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