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Università inglesi nella tempesta

I professori in sciopero, il primo ministro che dubita dell’utilità della laurea, una burocrazia sempre più ossessiva. Nel Regno Unito le torri d’avorio universitarie sono in stato di assedio. E se niente cambia, si avviano verso un inevitabile declino.

La vertenza nelle università inglesi

L’accordo raggiunto il 12 marzo tra rettori e sindacati per concludere lo sciopero dei professori delle università del Regno Unito è stato decisamente respinto dalla base. Lo sciopero, che per ora continua a oltranza, è di protesta contro la riforma del sistema pensionistico per i dipendenti universitari, che da retributivo diventa contributivo: secondo alcuni calcoli, un professore che comincia oggi con il nuovo metodo perderebbe circa 200 mila sterline rispetto a quello che potrebbe ricevere se il sistema attuale rimanesse in opera. Alta partecipazione nei molti giorni di sciopero (per trasparenza, informo il lettore che non vi aderisco), picchetti sindacali, appoggio degli studenti. Il pubblico, per ora, simpatizza con gli scioperanti, forse anche in conseguenza della regolarità con cui le remunerazioni dei rettori sono nell’occhio del ciclone mediatico e perfino Theresa May preferisce commentarne l’entità e non menzionare lo sciopero.

Questi problemi di breve termine sono a mio avviso sintomi di due malesseri più generali che affliggono il mondo universitario britannico e che, senza un cambio di tendenza, lo porteranno a un lento declino.

Meno fondi…

In primo luogo, la forte crescita delle risorse disponibili nel settore universitario è certo destinata a rallentare ulteriormente: tra il 1996 e il 2007, la spesa complessiva è cresciuta da 11,33 milioni a 35 milioni di sterline e il numero di docenti a tempo pieno da 110 mila a 135 mila (quello a tempo parziale da 18 mila a 66 mila): è un andamento difficile da sostenere.

A questo va aggiunto il tiepido supporto che Madam May, al contrario dei suoi predecessori, dà all’istruzione universitaria: oltre ai commenti sugli stipendi dei rettori, nel suo discorso di febbraio ha criticato il sistema università per l’assenza di competizione sui prezzi e sulla durata dei corsi, con un occhio populista verso chi considera esorbitanti le rette che gli studenti pagano. Sembra anche che cerchi, velatamente, di separare il “contributo sociale” dei corsi scientifici da quelli in materie letterarie e scienze sociali.

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A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, e interpreterei il discorso di May come un preludio a una sorta di “rivoluzione culturale”: l’università costa troppo, bisogna ridurre le rette pagate dagli studenti. Rimarrà un contributo pubblico, ma dovrà essere concentrato su attività socialmente meritorie (scienze e ingegneria), al contribuente non bisogna chiedere di pagare per corsi “inutili”.

Così May toglierebbe un’arma al Labour di Jeremy Corbyn che vuole abolire le rette, garantendo al tempo stesso all’elettorato che la generosità verso gli studenti non si trasformerà in un aumento della tassazione generale.

… e più burocrati

Oltre alla probabile riduzione del finanziamento, nel medio periodo si addensa sulle università inglesi un’altra cupa nube: la rapida e pervasiva burocratizzazione del sistema universitario. Il governo certo contribuisce al processo, istituendo barocche impalcature di regolazione, quali il neonato “Office for Students”, ma ben più insidiosa è la pressione interna per la creazione di comitati, manuali, moduli, regole, procedure e altre diavolerie assortite.

Fino a 15-20 anni fa, l’università tipica era diretta da un rettore (vice-cancelliere), di solito un accademico proveniente da un’altra istituzione che diventava amministratore a tempo pieno per il resto della carriera, coadiuvato da tre-quattro pro-rettori, scelti tra i professori dell’università, che ricevevano una modesta indennità, e alla fine del mandato tornavano in aula e in laboratorio. Oggi i pro-rettori sono un numero almeno doppio: reclutati (spesso da cacciatori di teste) da altre università o addirittura da fuori del sistema universitario, ricevono uno stipendio ben più generoso di quello dei docenti. Grava sul bilancio anche la corte di vice-pro-rettori, di segretarie e assistenti personali di cui amano circondarsi. Per giustificarne l’esistenza, vengono così create strutture, consigli, comitati, gruppi di lavoro, che da un lato separano i dipartimenti dall’amministrazione, dall’altro impongono regole e vincoli, il cui scopo è la tutela da possibili abusi ed evitare attività che espongono l’istituzione a rischi spesso puramente teorici.

Certo è che creano costi, che, pur minimi caso per caso, sommati tutti insieme incidono sul tempo da dedicare a ricerca e insegnamento e hanno effetti deprimenti sul morale. L’aspetto che molti trovano più preoccupante è l’importanza del rendimento finanziario: i dipartimenti sono ora “profit-centre” e un professore che ottiene pochi finanziamenti alla ricerca fa sempre più fatica a essere promosso. Perseguire il profitto ha la conseguenza socialmente assurda che la ricerca costosa (perché ad esempio richiede parecchie persone che raccolgano dati) viene preferita alla ricerca che si può fare con pochi costi (ad esempio analisi teoriche o lavori empirici con dati amministrativi), fino agli estremi di pro-rettori delegati alla ricerca che dichiarano ufficialmente che “la nostra università non persegue conoscenza fine a se stessa”: ogni attività deve produrre profitto.

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Chi comincia oggi la carriera accademica nel Regno Unito ha davanti a sé una prospettiva molto diversa da quella di chi diventava “lecturer” negli anni Ottanta.

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  1. Marcello Romagnoli

    Cosa dovremmo dire allora noi docenti delle università italiane che abbiamo visto una continua diminuzione dei fondi, un blocco stipendiale e una limitazione del ricambio che ha portato ad un aumento dell’età media dei docenti/ricercatori e un peggioramente del rapporto studenti/docente?

    Non parliamo poi della crescita degli adempimenti burocratici inutili (di quelli necessari non mi lamento, ma di quelli unutili al limite del vessatorio si).
    Un dipartimento NON E’ una aziernda. Pensare di poter applicare a tutto il concetto di efficienza di mercato è un segno di non aver compreso bene che il mondo non è tutto un mercato.

    Fa specie sentire che anche il mondo anglosassone, tanto portato a esempio, ha i suoi bei problemi.

    Detto ciò ritengo che una nazione che taglia la ricerca e l’istruzione non ha visione del futuro. Non si capisce perchè chi crea valore sociale, culturale, scientifico-tecnologico e anche economico debba guadagnare di meno di chi non produce nulla, anzi distrugge (denaro, posti di lavoro, diritti ecc.).

    IO STO CON I DOCENTI INGLESI

    • Gianni De Fraja

      Sono d’accordo sull’assenza di “visione del futuro” dell’attuale elite politica inglese. Sia il governo sia l’opposizione sono introversi, populisti, insulari. May è il primo PM dalla guerra che è davvero “little England”. Per giunta imperversa un’opposizione anti-intellettuale e anti-esperti, che ovviamente non rende popolari gli accademici, né da valore e orgoglio alle università. Il mio articolo non voleva confrontare la situazione in UK e in Italia, ma piuttosto la situazione in UK oggi e quella in UK vent’anni fa.

  2. Luigi

    Non mi pare che la May con la sua posizione intenda che la laurea sia inutile. Se lamenta costi troppo alti da parte delle Università è, invece, a favore della laurea. Se intende adottare una politica di incentivazione per le lauree scientifiche (come qualche anno fa accadeva agli iscritti a Chimica ed ad altre discipline scientifiche a Milano) imprime un legittimo orientamento scolastico del Governo, che deve farsi carico delle esigenze del lavoro nell’interesse di tutti: giovani, famiglie e aziende.

    • Gianni De Fraja

      Il costo di uno studente, nalla contabilità interna delle università è tra 8.000 e 20.000 sterline (le scienze costano di più, per ovvi motivi). Prima delle rette, questo veniva pagato dal contribuente. Una riduzione delle rette, non accompagnata da aumento del contributo statale (ciò che sospetto Madam May vuole fare) porterà inevitabilmente ad una riduzione dei fondii disponibili. Le università, penso, ridurranno la spesa in ricerca, visto che ridurre quella per insegnamento ridurrebbe il numero di studenti.

  3. Ci sono troppe universita’ che danno titoli scadenti, lavoro in Inghilterra da cinque anni nel campo tecnico e questi ragazzi non sono preparati, e non lo sanno.

    Putroppo una riorganizzazione lacrime e sangue e’ necessaria, temo. Almeno non vedo altra alternativa.

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