di Giovanni Dosi, Marcello Minenna, Andrea Roventini e Roberto Violi
Risposta a Roberto Perotti
In questo articolo offriamo una replica ai commenti del Roberto Perotti del 22 giugno scorso sulla nostra proposta di mutualizzazione dei rischi sovrani dell’Eurozona (di seguito la «proposta») basata sulla riforma del Fondo salva-stati (Mes). Ci spiace che Milena Gabanelli sia stata oggetto di critiche ingiustificate nel merito per aver deciso di presentare in maniera chiara anche se necessariamente divulgativa la nostra «proposta» pubblicata in un primo paper – poi ripreso dalla stampa specializzata – e che abbiamo meglio definito in questo working paper.
Le critiche di Perotti si concentrano specialmente sui costi e i rischi della nostra «proposta» per il contribuente tedesco e sui presunti incentivi al default dell’Italia in un contesto di mutualizzazione dei rischi, ma NON considerano gli elevati rischi della situazione attuale per l’Italia, la Germania e l’Eurozona.
Primo, noi siamo un po’ a disagio con espressioni come “il contribuente tedesco”, o ugualmente quello “italiano”; se io sono un individuo che ha, diciamo, un ristorante indebitato, e per usare l’esempio di Perotti, vivo nello stesso condominio della Virtuosa Angela e per garantire il debito metto a collaterale l’appartamento di Angela, il punto è dirimente. Vero! Ma sappiamo che non c’è isomorfismo micro-macro: è fuorviante considerare gli Stati come individui o come famiglie. Uno stato può garantire emettendo “pagherò” che se credibili non hanno nessun effetto sul reddito dei contribuenti. La collateralizzazione ridurrà il rischio complessivo senza nessun effetto sul reddito degli stessi cittadini tedeschi (o probabilmente con un effetto positivo, se gli “italiani” devono tirare meno la cinghia e comprano anche più prodotti tedeschi).
Secondo, un default incontrollato dell’Italia avrebbe effetti devastanti non solo sul sistema finanziario europeo, ma mondiale. Nessuno, in the right state of mind ha interesse a spingere l’Italia in quell’angolo.
A nostro avviso si deve partire dal prendere atto che l’Eurozona soffre di fragilità architetturali endogene che ne fanno un’unione monetaria non ottimale, congiunta ad una mancata “unione fiscale”. Inoltre, a partire dalla crisi, è stata realizzata una politica economica finalizzata a segregare i rischi nei paesi della periferia che, unitamente a una rigida disciplina fiscale pro-ciclica, ha ridimensionato gli effetti positivi della congiuntura economica su economie già in difficoltà e si riflette su grandezze quali lo spread e i saldi Target2.
I Bund sono così diventati il safe asset dell’Eurozona sottodimensionato rispetto alle esigenze del sistema economico-finanziario dell’UME e i funding cost del settore pubblico e privato sono differenti tra gli stati membri con evidenti discriminazioni competitive tra gli stessi.
Queste dinamiche alimentano un crollo della fiducia nei Paesi periferici con conseguente fuga all’estero dei capitali (oltre che della forza-lavoro in cerca di occupazione) come hanno evidenziato numerosi studi sull’evoluzione dei saldi Target 2. L’ultima rilevazione fotografa perfettamente il fenomeno: il surplus Target2 della Germania si avvicina ormai al record di 1.000 miliardi di euro mentre Italia e Spagna hanno deficit intorno ai 400 miliardi di euro.
Circolano proposte preoccupanti specialmente nel Nord-Europa miranti alla collateralizzazione nazionale dei deficit Target2, o a una loro liquidazione periodica, sino a suggerire alla Bce di bloccare nuovi crediti Target2 alle banche centrali nazionali che presentano elevati saldi negativi.
Simili proposte potrebbero attivare giochi non cooperativi sul debito pubblico portando gli stati membri a tentativi di ridenominazione in una nuova valuta nazionale con una perdita netta per i paesi creditori. Su questo punto è stato comunque evidenziato in recenti ricerche che si tratta di un’opzione oramai di dubbia convenienza. Paul De Grauwe sottolinea che in effetti gli attuali vincoli fiscali fanno sì che il debito di tutti gli Stati dell’area euro è di fatto un debito in valuta estera (un po’ come Panama o l’Argentina ai tempi di Carlos Menem)
Sulla sostenibilità di questo euro la business school ESMT di Berlino ha ospitato poco dopo le elezioni italiane una conferenza. Tema non nuovo dato che Alan Greenspan aveva preconizzato l’insostenibilità dell’euro già nel 1997. In quella conferenza Clemens Fuest, presidente dell’istituto di ricerca economica tedesco Ifo, ha suggerito la necessità di una clausola di uscita dall’euro e, meno male, puntuali sono arrivate anche questa volta le rassicurazioni del presidente Draghi che in un recente intervento ha anche proposto l’istituzione di «uno strumento fiscale aggiuntivo per mantenere la convergenza durante larghi shock, senza dover sovraccaricare la politica monetaria».
Invece di notare questi ‘dettagli’, Perotti, a nostro avviso troppo in tono con il luogo comune sull’Italia spendacciona e inaffidabile, ricostruisce selettivamente la recente storia economica italiana. Ricorda il retrofront del governo italiano sul taglio del deficit nell’estate 2011 e i Btp comprati all’epoca dalla Bce, ma dimentica l’effetto devastante per le finanze pubbliche dell’aumento dei tassi di un quarto di punto deciso dalla Bce il 7 luglio 2011 (dopo un rialzo di 25 punti base varato pochi mesi prima).
Oggi lo spread Btp-Bund è di nuovo intorno ai 200 punti base. Peraltro in termini reali (cioè al netto dell’inflazione) il suo valore è a livelli paragonabili a quelli del picco della crisi dei debiti sovrani, circostanza che dovrebbe far riflettere considerata tra l’altro la fine del Quantitative easing entro l’anno. Ancora un elefante vicinissimo che Perotti sembra non vedere, ma che invece esige soluzioni out-of-the-box considerato che a quasi 10 anni dall’inizio della crisi globale l’Eurozona non sembra avere significativamente migliorato la capacità di fronteggiare nuovi shock, specie se asimmetrici.
Questo contesto – che potrebbe vedere la mortificazione dell’Eurozona a un sistema di cambi fissi destinato prima o poi a rompersi, come insegnano noti precedenti storici – supporta, contrariamente a quanto sostiene Perotti, l’esigenza di una graduale revisione dell’Eurozona il cui fine ultimo è una maggiore integrazione finanziaria e fiscale dei paesi dell’area euro.
Ed è qui che si innesta la nostra «proposta» la cui analisi critica non può pertanto prescindere da una statica comparata rispetto alla situazione attuale.
Incentivi e penalità
Perotti sostiene (in grassetto) che la nostra «proposta» ignora il problema del rischio morale (moral hazard). Secondo noi, invece, è disegnata per contenerlo attraverso una riforma che prevede diritti e doveri vincolanti per tutti i paesi coinvolti.
Il moral hazard sottende un’azione nascosta (hidden action) che per Perotti sarebbe un aumento del debito pubblico o addirittura un default volontario deciso unilateralmente dall’Italia dopo aver ottenuto la condivisione dei rischi. Tralasciando il pericolo di default derivante dall’insostenibilità dell’attuale architettura dell’Eurozona di cui si è detto sopra, osserviamo che la nostra «proposta» prevede uno schema di incentivi e penalità finalizzati a minimizzare condotte opportunistiche da parte dei paesi rischiosi.
I punti salienti di tale schema sono:
- il divieto di ridenominazione del debito coperto dalla garanzia del Mes;
- il limite all’incremento dello stock di debito pubblico rispetto a quello iniziale nei limiti attuali più l’importo dei premi assicurativi da pagare al Mes;
- la perdita dei premi pagati sino al momento del default ‘opportunistico’ da parte di un ipotetico stato-canaglia;
- l’incentivo alla scelta di strategie cooperative riveniente dalla convergenza ad un’unica struttura a termine dei tassi di interesse per tutti gli stati membri, dalla eliminazione dello spread e dei connessi rischi di attacchi speculativi;
- i paesi hanno incentivi a pagare i premi al Mes perché permetteranno di far ripartire l’economia nazionale grazie al volano degli investimenti finanziati dal Mes;
- il vincolo di subordinazione – durante la fase transitoria di graduale condivisione dei rischi sovrani – del debito non garantito rispetto a quello garantito dal Mes.
Il tutto senza contare il ruolo fondamentale della disciplina imposta dai mercati finanziari che precluderebbero allo stato-canaglia l’accesso al mercato dei capitali in caso default ‘opportunistico’.
Semplificazioni eccessive
L’ipotesi di Perotti di un’Eurozona a due permette delle speculazioni (vedasi già il titolo del suo articolo: «Ma i tedeschi non sono masochisti») favorite anche da una confusione fra l’architettura attuale del Fondo salva-stati e quella riformata secondo la nostra «proposta».
Partiamo da un distinguo chiave:
- attualmente il capitale del Mes è contribuito dai singoli Stati in proporzione al loro Pil;
- prospetticamente (cioè la «proposta») il capitale del Mes si incrementerebbe esclusivamente per effetto dei nuovi contributi per cassa corrispondenti ai premi assicurativi pagati dai paesi che col risk-sharing beneficiano di una riduzione della spesa per interessi sul debito. Quindi le quote di partecipazione al capitale del Fondo salva-stati cambierebbero significativamente rispetto a quelle attuali, favorendo un minore coinvolgimento dei paesi core.
La ripartizione Italia 3/8 – Germania 5/8 si applica all’assetto azionario attuale del Fondo salva-stati ma non vale per quello riformato; ergo, le conclusioni di Perotti si basano su una premessa sbagliata. In più, la nostra «proposta» non prevede che a garantire siano i singoli Stati membri (come la Germania) bensì il Mes che in caso di necessità può rivolgersi ai mercati per reperire le risorse necessarie con lo scudo ulteriore della Bce. Tutto questo, peraltro, è stato già fatto, quando il Mes ha erogato la propria assistenza finanziaria alle banche spagnole, a Cipro e alla Grecia come pure – seppur nei limiti posti dalla mancanza di risk sharing – quando la Bce è intervenuta con l’annuncio delle Omt e con il Quantitative Easing.
Perotti insiste sul paragonare la nostra «proposta» con una mutualizzazione dei debiti e ad allinearla agli Eurobond. Nulla quaestio che l’emissione di Eurobond abbia oggi forti criticità dato che mancano una politica fiscale comune e un budget federale a 2 cifre percentuali nell’area euro.
Proprio per questo la novità della «proposta» è che attraverso una soluzione di ingegneria finanziaria si offrono 20 anni all’Euro-burocrazia per arrivare a questo risultato; finalmente si potrebbe costruire una pianificazione strategica a lungo periodo per il futuro dell’Eurozona.
Come possa Perotti ipotizzare che lo status quo possa restare in piedi per più di qualche anno è singolare. A dicembre del 2011 (anno in cui vinsero il premio Nobel per l’economia) Christopher Sims e Thomas Sargent, non certo dei sovversivi, dissero chiaramente che per sopravvivere l’Eurozona ha bisogno di «its own jointly issued bonds, a central fiscal authority and its own tax».
Quanto al fatto che le precedenti proposte avessero almeno l’apparente buon senso di suggerire modeste emissioni di Eurobond mentre la nostra copre l’intero debito pubblico dei paesi del blocco euro (non solo dell’Italia), notiamo che misure parziali rischierebbero di creare stabilmente un debito di serie A e uno di serie B riproponendo gli usuali problemi di discriminazione e conseguente vulnerabilità dell’unione monetaria.
Che poi Perotti rimarchi che nel lungo periodo l’Italia non pagherebbe più il premio assicurativo mostra un’incomprensione del senso della «proposta», il cui intento è proprio quello di allineare i rischi dei diversi paesi perché altrimenti una valuta comune non avrebbe senso.
Finanza e mercati
Secondo noi, le osservazioni di Perotti mostrano anche alcune imprecisioni.
Cominciamo dalla quantificazione del premio assicurativo richiesto da un assicuratore neutrale al rischio. Scrive Perotti:
«Poiché l’Italia ha una probabilità di default del 2 percento, approssimativamente il prezzo dell’assicurazione è di 2 centesimi per ogni euro di debito assicurato. […] Poiché come abbiamo ipotizzato ogni anno l’Italia emette debito per 200 miliardi in sostituzione di quello che scade, e la probabilità di default il 2 percento, l’Italia paga un premio assicurativo di 4 miliardi (il 2 percento di 200 miliardi) il primo anno»
Rischio e premio al rischio sono due cose collegate ma diverse. Perotti confonde la probabilità di default col premio per il rischio di default. Se vuoi calcolare il prezzo dell’assicurazione contro tale rischio non devi usare la probabilità di default bensì il premio del relativo contratto assicurativo, il credit default swap (Cds). Questo perché il premio del Cds non dipende solo dalla probabilità di default, ma anche dalla perdita in caso di default (loss given default o Lgd).
Anche sulle assicurazioni, le conclusioni di Perotti si basano su premesse incomplete. Scrive:
«Normalmente, un assicuratore che vende polizze auto si basa sulla legge dei grandi numeri. […] Ma nel caso di un assicuratore che vende una polizza contro un rischio enorme di una singola entità, come è il default su 2000 miliardi di debito italiano, questo ragionamento non si applica. Anche se il rischio ogni anno è minimo, quell’unica volta che si realizza l’assicuratore è chiamato a sborsare una somma enorme, molto maggiore del suo capitale»
Attenzione: la legge dei grandi numeri non è l’unico sistema assicurativo. Se così fosse non avremmo le coperture per le catastrofi naturali e altri rischi estremi in cui i sistemi misti pubblico-privato sono molto diffusi. In più, anche qui l’esempio a due Paesi (Germania buona e Italia cattiva) distorce. Diverso è il caso con 19 Stati con diverse probabilità di default che, tra l’altro, è il caso corrispondente alla realtà. Su similari semplificazioni Perotti basa i ragionamenti che lo conducono a conclusioni per noi discutibili.
Aggiungiamo che se il rischio-Italia fosse inassicurabile non si capirebbe come mai il nozionale netto in essere del relativo Cds sovrano superi i 15 miliardi di dollari. Non sarà che le banche d’investimento negoziano questo Cds? Che siano diventate tutte enti no-profit?
Perotti conclude il suo intervento suggerendo che la nostra è l’ennesima «proposta» finalizzata a estorcere soldi, tanti soldi, al contribuente tedesco.
La nostra conclusione – per tutto quanto sopra esposto – è che è una «proposta», anche molto market-friendly, di salvare l’Europa dell’euro e con ciò anche il benessere del contribuente tedesco!
Per chi volesse approfondire le argomentazioni di replica all’articolo del professor Perotti a questo link si trova una versione estesa del presente articolo.
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Accademico della Crusca
E’ disponibile una traduzione in italiano?
Pentangeli
I primi articoli erano più divulgativi, entrando nello specifico non si può prescindere dal frasario tecnico!
Complimenti per l’articolo e la qualità dell’analisi. Noto che Perotti è inciampato nel solito ricorrente errore di tanti economisti neoclassici ovvero l’applicazione di logiche micro su prospetti macro. Grave errore metodologico.
mariorossi
Mi sembra che le vostre osservazioni si contraddicono. La prima sostiene che Perotti sovrastima il costo del sussidio Europeo all’Italia, mentra la seconda suggerisce un modello catasrofico dove di solito il prezzo del premio e’ significativamente piu’ alto della perdita attesa.
In ogni caso 15bn di dollari sono meno dell’1% del debito italiano. Mi sembra un paragone insostenibile. Inoltre visto che il CDS a 5y e’ a 233 mi sembra che la stima di Perotti (che lo calcola a 200) sia ottimista. Se poi uno volesse assicurare il 100% del debito italiano mi aspetterei un livello molto piu’ alto.
L’unico punto che ha veramente forza e’ che alla fine dei conti non vi e’ alternativa. L’uscita dell’Italia dall’Euro sarebbe cosi’ costosa che un qualche compromesso e’ inevitabile. Ma non si puo’ intavolare un negoziato sulla base che l’Italia ha gia’ sofferto abbastanza che che tutto l’aggiustamento deve venire dai paesi creditori. Quale elemento del vostro piano rappresenta un vantaggio per i creditori? Anche in questo pezzo l’unico argomento che proponete e’ la promessa di non fare default. E’ un ricatto neanche tanto velato.
Condivido l’accusa alla ECB, di sicuro ha commesso un errore nel 2011. Ma l’ECB e’ un’istituzione comune, per cui anche gli italiani sono responsabili. E’ un errore che e’ stato commesso dal altre banche centrali, per cui mi sembra poco credibile che fosse una congiura verso l’Italia.
Faust
Minenna e colleghi sembrano ignorare che i problemi da loro esposti sono ben noti: il fatto che la Commissione abbia rcentenemente pubblicato una proposta su un fondo di stabilizzazione fiscale é sintomatico del fatto che le criticitá sono ben conosciute. Il tono profetico e l’atteggiamento “lecturing” é pertanto quantomeno inappropriato. Quella che dispregiativamente definiscono Euro-burocracy é dalla loro stessa parte (e da anni), ma a quanto pare gli autori non se ne sono accorti. Che l’Eurozona soffra di fragilità architetturali endogene é cosa nota. Il problema é tutto politico. Non una volta gli autori menzionano che sono i Trattati europei a sancire il principio di “segregazione dei rischi”. Questo é il contratto su cui l’euro é stato fondato e questa premessa costituisce la condizione necessaria per l’adesione dei paesi del nord Europa. Una diversa architettura sarebbe certamente vantaggiosa per l’Italia, ma non avrebbe il consenso degli altri paesi. E si noti bene che non é solo la Germania. Anzi, attualmente il governo tedesco si é mostrato aperto alle proposte di un budget comune. Ci sono voci contrarie in Olanda, Finlandia, in tutti i paesi scandinavi e nei paesi baltici, per non parlare dei paesi dell’Est. Questi problemi sono dibattuti continuamente nell’Eurogruppo, l’Ecofin e nei vari consessi europei. Le obiezioni sono prevalentemente di natura politico-giuridica, poiché ogni condivisione dei rischi in EU deve fare i conti con separate sovranitá nazionali.