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La web tax italiana si veste all’europea

La web tax riscritta dalla legge di bilancio 2019 recepisce appieno le indicazioni della proposta di direttiva della Commissione europea. L’Italia è il primo paese ad attuarla, anche se serve qualche ulteriore chiarimento per evitare estensioni indebite.

Titubanze europee

Le legge di bilancio 2019 riscrive la web tax italiana – emanata con la legge di bilancio 2018 – recependo appieno le indicazioni contenute nella proposta di direttiva formulata il 21 marzo scorso dalla Commissione UE.

L’Italia è, dunque, il primo fra i paesi comunitari a dare attuazione a una proposta che non è stata ancora tradotta in direttiva, ma che si cimenta a dovere con la complessità della materia e anche con le sue contraddizioni interne alla UE stessa. Mentre alcuni paesi premono per una sua rapida attuazione (Francia, Germania e Spagna oltre all’Italia), ve ne sono infatti altri ben più timidi (Austria, Danimarca, Svezia), quando non addirittura del tutto contrari (Irlanda, Lussemburgo, Olanda). Tanto che il presidente di turno del Consiglio europeo (l’austriaco Johannes Laitenberger), consapevole della difficoltà a raggiungere l’unanimità richiesta per l’approvazione della direttiva ha provato – il mese scorso – a introdurre una soluzione compromissoria che ne riduceva l’ambito di applicazione e ne fissava l’attuazione al 2022 (anziché nel previsto 2020). Compromesso che, però, le parti in causa si sono sostanzialmente rifiutate persino di discutere. Insomma, le nubi UE non solo non si sono diradate, ma sembrano, anzi, volgere al peggio. Tanto che Francia e Germania nella stessa sede hanno detto che, se non si procederà a livello UE, andranno avanti per conto proprio.

Quando si applica

La nuova imposta sui servizi digitali (Isd) non si applica a tutte le operazioni condotte sul mercato digitale, ma solo a quelle che, in breve, si risolvono in una prestazione pubblicitaria o di intermediazione in cui, però, gli utenti interagiscono fra loro. La Commissione UE ha, infatti, ritenuto di dover distinguere i servizi digitali in due categorie: (i) quelli generati e offerti dall’organizzatore del servizio all’utente-cliente (rapporto diretto fra prestatore e beneficiario del servizio) rispetto a (ii) quelli in cui il valore si produce attraverso rapporti multilaterali (quantomeno trilaterali). Rapporti cioè fra: (a) organizzatore del servizio, (b) utente che vi si imbatte e (c) beneficiario finale (colui che paga la prestazione dell’organizzatore). La ragione della distinzione va ricercata nel ruolo dell’utente (“end user”) nella creazione di valore. Mentre nel rapporto diretto (sub i) il servizio (e quindi il valore) è creato dal solo organizzatore dello stesso, nel rapporto multilaterale (sub ii) il valore proviene dallo sfruttamento che l’organizzatore fa del “dialogo” fra utenti e dalle informazioni “personalizzate” che i medesimi (anche incoscientemente) producono attraverso lo scambio. Il retropensiero che accompagna questa valutazione sta nell’identificare il mercato in cui agisce l’utente come mercato in cui si crea il valore (attraverso, appunto, l’apporto dell’utente). Tanto che il luogo (paese Ue) in cui il servizio si considera reso non è né quello dell’organizzatore del servizio (che incassa il corrispettivo) né quello del beneficiario finale (colui che paga) ma è quello in cui l’utente (che magari non paga nulla) attiva l’apparecchio (“device”) per il cui tramite la prestazione si concretizza. Condivisibile o meno che sia questa visione, la Commissione UE ha ritenuto che è solo questo valore, alla cui formazione l’utente ha certamente in qualche misura concorso, che va assoggettato a tassazione.

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La Isd nostrana recepisce appieno questa filosofia anche se la traduce in enunciati bisognosi di qualche ulteriore chiarimento, tanto che la legge delega il ministero dell’Economia e delle Finanze all’emanazione dell’immancabile decreto attuativo (entro aprile 2019).

La Isd non si applica, tuttavia, alla generalità delle imprese, ma solo a quelle di grandi dimensioni: devono aver realizzato (i) almeno 750 milioni di euro di fatturato (comunque ottenuto) in giro per il mondo, (ii) almeno 5,5 dei quali in territorio italiano e a fronte – stavolta – dei soli servizi tassabili. La fissazione dei due requisiti ha lo scopo, da un lato di escludere dall’Isd le imprese di medio-piccola dimensione. Dall’altro, per quelle di maggiori dimensioni, fare sì che solo coloro che operano attraverso lo scambio di informazioni fra una larga platea di utenti sia idonea a generare servizi tassabili. Certo, l’attuale formulazione della Isd è un po’ troppo scarna al riguardo e suscettibile di non volute interpretazioni estensive. Tanto che sono stati sollevati timori di allargamento dell’imposta a settori (primi fra tutti i giornali) che non dovrebbero esserne interessati. Ma il decreto attuativo potrà ben rimediare, se lo si vuole, a questa un po’ frettolosa formulazione.

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  1. Henri Schmit

    Mi domando 1. come giustificare e gestire (cioè evitare l’elusione realizzata attraverso la suddivisione della mega-impresa in cloni più piccoli) le soglie di fatturato e 2. perché esonerare i giornali con il rischio che gli operatori proveranno a qualificarsi come tali per eludere la tassazione. Come definire un giornale? Coloro che parlano di (o fanno) politica e sono finanziati dallo stato (dalla politica)? Ma forse non capisco io.

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