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Chi ha paura dei dati Invalsi?

La misurazione delle competenze degli studenti è uno strumento di conoscenza molto utile. Permette per esempio di evidenziare le differenze territoriali, sociali e di genere che caratterizzano la scuola italiana. Molti però sembrano volerne fare a meno.

La scuola italiana tra differenze territoriali, sociali e di genere

Circa due mesi fa è apparso su La Repubblica un pezzo di Chiara Saraceno che discuteva dell’importanza dei test Invalsi come strumento di conoscenza. Si può dibattere – e lo si è già fatto a lungo – sui pro e sui contro di questo tipo di test, resta però il fatto che i dati che ne sono derivati hanno contribuito a una migliore comprensione della scuola italiana. Resta anche che la conoscenza non ha ispirato azioni correttive mirate o adeguate. Non un buon motivo per metterli da parte.

I dati Invalsi, così come i dati Pisa (Programme for International Student Assessment), e la loro disponibilità per un arco temporale più che decennale, hanno permesso di avere un quadro ricco di molti particolari del nostro sistema scolastico e di seguirne l’evoluzione nel tempo. Grazie alla loro disponibilità, abbiamo potuto avere contezza delle differenze territoriali che contraddistinguono il nostro sistema. Tutti ormai sanno che gli studenti nel Mezzogiorno conseguono risultati peggiori rispetto agli studenti che vivono nelle regioni del Nord; forse non tutti, ma tanti sanno che molti ragazzi meridionali non riescono a raggiungere nemmeno il livello di competenze minime necessarie per esercitare i normali diritti di cittadinanza.

Altrettanto note, grazie alle analisi svolte sui dati Invalsi, sono le differenze di censo: i risultati ottenuti dagli studenti, siano essi misurati dalla performance ai test Invalsi o dalle valutazioni espresse dai docenti, sono fortemente influenzati dalla provenienza socio-economica. Non solo, l’impatto esercitato dalle condizioni di origine anziché ridursi tende ad ampliarsi nel corso della carriera scolastica, indicando un fallimento particolarmente grave del nostro sistema scolastico: quello di non aiutare chi parte da condizioni svantaggiate a ottenere gli stessi risultati raggiungibili da coloro che partono da condizioni migliori.

L’uso di questo tipo di dati permette anche di analizzare congiuntamente le due dimensioni, domandandosi se e in che misura il divario territoriale sia il riflesso del divario socio-economico tra le aree del paese. Per esempio, nel grafico 1 riportiamo i risultati nella lettura dell’indagine Pisa, svolta sui quindicenni ogni tre anni dall’Ocse. In essa si nota come dopo dieci anni di carriera scolastica il divario in competenze di lettura tra le due principali regioni italiane, Lombardia e Campania, raggiunga un’entità equivalente a quella di quasi un anno di scolarità. Ma l’aspetto più interessante è analizzare come cambi il divario Lombardia-Campania al variare delle condizioni socio-economiche della famiglia di provenienza (misurate da istruzione, prestigio occupazionale e possesso di risorse culturali).

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Grafico 1

Se le due rette si avvicinassero tra loro al crescere dello status socio-economico, si potrebbe sostenere che una parte del divario sia imputabile al divario economico tra le due regioni. Invece, colpisce come il divario rimanga costante lungo l’intera dimensione delle origini sociali, a indicare come lo svantaggio sia pervasivo attraverso tutte le classi sociali. Siamo quindi in presenza di un problema strutturale del processo formativo, che neppure la famiglia riesce a compensare.

I test Pisa e Invalsi ci hanno rivelato impietosi una scuola diseguale anche per genere. Se già i primi collocavano l’Italia tra i paesi con il più elevato gender gap a favore dei maschi nelle competenze matematiche, i dati Invalsi hanno permesso di mostrare che il divario compare già dalla seconda elementare (primo anno per cui si dispone dei dati Invalsi) e che tende a crescere con l’età, in particolare dalla seconda alla quinta elementare e poi di nuovo alle scuole superiori.

La questione interessante è perché l’opinione pubblica di fronte a diseguaglianze così forti non reagisca con il dovuto vigore, perché non costringa la classe politica a intraprendere azioni che vadano nella direzione di colmarli. Cos’è che rende invisibili o sopportabili queste ingiustizie? Molte sono le questioni che hanno spostato la nostra attenzione su altri problemi, dalla stabilizzazione di oltre 100 mila insegnanti attuata con la Buona scuola all’accorciamento sperimentale di un anno della scuola secondaria di secondo grado, dalla valorizzazione del merito degli insegnanti ai concorsi per l’assunzione dei dirigenti scolastici. Ma la misurazione delle competenze degli studenti ci riporta implacabilmente all’esistenza di divari che non dovrebbero esserci. Tanto più quando ci troviamo alla vigilia di trasformazioni importanti, quali la regionalizzazione del sistema scolastico che l’autonomia rafforzata potrebbe comportare. Se anche i servizi di rilevazione delle competenze venissero regionalizzati, il problema dei divari regionali risulterebbe definitivamente risolto: ciascuna regione nella propria autonomia potrebbe definire obiettivi formativi e modalità di misurazione localmente validi, ma per costruzione non comparabili. Niente più fastidiose differenze territoriali di cui occuparci: occhio che non vede, cuore che non duole. Un danno non minore si produrrebbe se i test Invalsi cessassero di essere rilevati in modalità censuaria (come accadrà quest’anno per il neo-introdotto test in quinta superiore, dove la partecipazione individuale sarà facoltativa), dato che presumibilmente solo gli studenti più capaci si sottoporrebbero alla prova: l’Italia finirebbe così col privarsi dell’unico strumento di monitoraggio efficace del proprio sistema scolastico.

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Il difficile rapporto tra politica e ricercatori

Vi è infine un’ultima questione che riguarda il difficile rapporto che c’è in Italia tra politica e ricercatori. I test Invalsi infatti sono stati utilizzati non solo per dare un quadro del nostro sistema di istruzione, ma anche per cercare di capire quali strumenti siano più efficaci per migliorare le competenze dei nostri studenti. Vi sono studi che hanno indagato l’effetto di diversi input scolastici, ad esempio il numero di studenti per classe, la lunghezza dell’orario scolastico, la qualità dei dirigenti scolastici, l’esistenza di attrezzature informatiche, la formazione degli insegnanti, l’introduzione di borse di studio e così via. La politica non ha fatto grande uso dei risultati, come non si è data troppo da fare per intervenire laddove gli andamenti scolastici si rivelavano particolarmente deludenti. Non averlo fatto, però, non significa che non era necessario farlo o che non dovremmo provare a farlo in futuro. Rinunciare a misure comparabili di performance significa rinunciare a uno strumento di informazione cruciale per le azioni di governo, sia nella fase di definizione degli interventi che in quella della loro valutazione.

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22 commenti

  1. bruno puricelli

    Mi complimento per esser riusciti a pubblicare un’analisi critica tra due mondi che rappresentano due universi distanti qualche miliardo d’anni d’espansione: se va bene, le misure sono più brevi e proporzionate ma, in pratica, esse sono ancora più disomogenee di quel che appare dagli esami citati. Non potrebbe essere diversamente dato che i bimbi crescono con modelli meno virtuosi sotto gli occhi ed in quasi tutti i momenti dell’infanzia. Essere concessivi in tutti i doveri, in tutti gli uffici, in tutti i compiti che dovrebbero essere eseguiti con miglior precisione e puntualità genera necessariamente un prodotto più superficiale di quello ottenibile secondo standard più rigorosi. Purtroppo da almeno 50 anni s’è diffuso un (gradito) rilassamento nella vita sociale che ci ha reso anche gli anni scolastici meno stressanti di prima e non ci siamo accorti di un certo indebolimento caratteriale. Al sud, e qui c’è la vera nota dolente, il tutto è risultato amplificato causa una certa mancata vigilanza da parte dei genitori che hanno spesso avuto più problemi economici oltre a quelli culturali di partenza. Bene che si abbia l’opportunità di parlarne con la speranza di rendere più consapevoli gli attori (e comparse) del necessario superlavoro che dovrebbero produrre negli anni a venire per migliorarsi.

    • umberto

      Sul tema accenno ad un altro aspetto: il ruolo ostile e distorsivo del corpo docente.
      Sull’aspetto dell’ostilità c’è poco da aggiungere al fatto che esula da una valutazione tecnica delle prove, ma si fonda su un timore di giudizio della loro efficacia educativa.
      Il punto di maggiore rilievo è il ruolo distorsivo da essi operato, dato che nei risultati delle prove Invalsi partecipano anche i docenti. Guidati dal timore sopra citato i docenti sostengono i propri allievi nell’esecuzione delle prove. Mi permetto di esprimermi in detto modo per conoscenza diretta, anche se non posso conoscere quanto tale atteggiamento sia diffuso. Spero che così non sia, ma di certo non è né facile da studiare e disaggregare dai risultati complessivi né utile o educativo per gli stessi studenti. Senza commentare che sarebbe poco onorevole per i docenti stessi dal punto di vista delle loro capacità, visti i risultati generali.

  2. barbara

    Grazie mille per questo contributo. Sempre utile ribadire l’importanza di continuare produrre evidenza solida e comparabile e, soprattutto, di cominciare ad usarla!
    A supporto di quanto tu scrivi inserisco il link a un articolo della voce di 9 anni fa, ma (purtroppo) sempre attuale. Soprattutto se si guarda ad alcuni commenti.
    https://www.lavoce.info/archives/26429/i-test-standardizzati-presi-tra-due-fuochi/

  3. bob

    ” molti ragazzi meridionali …” Ma cosa vuol dire??

  4. Davide

    Strano, gli studenti del sud hanno voti sistematicamente più alti, che consentono anche di avere un vantaggio nell’accesso alla pubblica amministrazione, quindi sono certamente più bravi.
    Senza sparare ulteriormente sulla croce rossa, il problema di base è il buonismo della scuola, imperante da 50 anni: anzichè insegnare le cose serie (a cominciare da matematica e relativa logica, che sono insostituibili per ragionare in modo corretto), con una certa severità ed un certo rigore, si preferisce usare la scuola pubblica per “fare inclusione”, per “non lasciare nessuno indietro” senza “traumatizzare” nessuno, per creare “bravi cittadini”, cioè tante belle pecorelle prive di senso critico che non osino criticare l’autorità.
    I risultati sono, come correttamente mostrate, il contrario: la scuola non fornisce l’istruzione a chi non ha modo di riceverla in famiglia. Così avanza l’analfabetismo funzionale di una popolazione che non capisce nulla di quello che succede. Però con buoni voti, e mai bocciati, in una scuola in cui si fanno “percorsi” ed un mare di inutili scemenze.

    • Alessandro

      D’accordissimo con Davide! Farò un poster e lo affiggerò nella scuola dove insegno. La fotografia è perfetta, e desolante purtroppo. Quest’analisi cristallina prescinde dall’attendibilità dei test nazionali e dal condividerne senso e contenuti. È qualcosa di assolutamente vero e le conseguenze non sono solo gli esiti nei test, ma saranno impietose e implacabili nel medio-lungo periodo.

  5. Andrea

    Grazie per l’articolo, molto interessante. In ogni caso c’è una imprecisione quando si afferma che le prove invalsi di V superiore non sono obbligatorie. il loro svolgimento costituisce per le istituzioni scolastiche attività
    ordinaria di istituto (art. 19, comma 3 del D. Lgs. N. 62/2017. E l’unica differenza concerne il fatto che è stato prorogato di un anno il vincolo di requisito di accesso all’esame di maturità.

  6. Mauro

    Il fatto che le rette del Grafico 1 siano parallele suggerisce che le scuole della Lombardia non sono meglio rispetto a quelle della Campania nell’attenuare gli effetti socio-economici-culturali della famiglia sulle competenze degli studenti. Ci sono regioni in cui la pendenza è diversa?

    • Andrea

      Una pendenza diversa starebbe a significare che l’associazione tra background familiare e punteggio ha intensità diverse nelle due regioni. Il grafico mostra come i livelli di partenza siano diversi tra le due regioni e rimangano costanti anche al crescere del background socio-economico e culturale delle famiglie degli studenti

  7. Paolo

    I test Invalsi mostrano una uniformità geografica nelle elementari, il distacco si compie in seconda media e si accentua alle superiori. Il motivo principale è che al nord esiste il tempo pieno al contrario del sud, questo si traduce in almeno due anni di “scuola” in meno per gli alunni. Di questo si dovrebbe ragionare. Sulla frase “molti ragazzi meridionali” esiste quello che si chiama “errore di generalizzazione” e deriva spesso da un’eccessiva volontà di perorare le proprie idee, basandole su affermazioni che dovrebbero essere inconfutabili (e che invece non sono che un grossolano errore).

    • bob

      ” molti ragazzi meridionali …” Ma cosa vuol dire?? Esatto! “”errore di generalizzazione” esattamente aggiungerei che è una affermazione di luoghi comuni che si scontra con quella che viene presentata come analisi dettagliata di numeri

      • Maria De Paola

        ha ragione, ce ne scusiamo. Per dare un’idea più precisa, la percentuale di studenti italiani residenti al sud frequentanti la V elementare che al test di matematica totalizzano meno di 10 punti (su max 38) è pari a 9.44, mentre nelle regioni del nord questa percentuale è di 3.88 (anno 16/17, solo scuole campione).

    • Davide

      Francamente trovo ridicolo appellarsi al tempo pieno.
      I risultati sono drammaticamente diversi da ben prima che il tempo pieno si fosse diffuso.
      Forse, se al sud la smettessero di dare voti alti a chi non sa niente, saremmo sulla strada giusta.
      Conta la qualità, non la quantità: stare a tempo pieno a scaldare la sedia non serve a niente, nè in ambito scolastico nè in ambito lavorativo.
      Aumentare il tempo, anzichè la qualità e la severità di ciò che viene fatto, è precisamente uno dei principi che hanno rovinato la scuola, confondendola con un parcheggio e con mille altre cose, rispetto ad un luogo di apprendimento serio.

      • Paolo

        Prima di fare delle affermazioni generiche e “stare a scaldare la sedia” può andare a leggersi il rapporto Invalsi “Nel corso dell’itinerario scolastico, dalla seconda primaria alla seconda secondaria di secondo grado, i risultati nelle prove di Italiano e Matematica delle macro-aree si
        allontanano progressivamente. Nella scuola primaria le differenze sono piccole e in
        generale non significative statisticamente. In terza secondaria di primo grado, invece,
        i risultati medi delle macro-aree tendono a divergere significativamente tra loro,
        tendenza che si consolida ulteriormente nella scuola secondaria di secondo grado”
        http://www.invalsi.it/invalsi/doc_evidenza/2018/Rapporto_prove_INVALSI_2018.pdf
        Sulla frase: “Forse, se al sud la smettessero di dare voti alti a chi non sa niente, saremmo sulla strada giusta”. Si commenta da sola.

        • Davide

          Mettiamo i puntini sulle i: le differenze in seconda elementare non sono statisticamente significative, pur essendo lievemente presenti (guardi i risultati da pag 34 in poi). In seconda elementare si è appena cominciato ad andare a scuola. Mentre diventano rilevanti già in quinta elementare.
          Questo signfica che, all’inizio del percorso scolastico, le differenze sono limitate.
          La stessa frequenza della scuola elementare, però, fa la differenza. In negativo.
          Attribuire questa performance negativa al tempo pieno è ridicolo ed indimostrato, proprio perchè tali differenze sono di lunga data, presenti da prima che si diffondesse il tempo pieno (e le sue considerazioni non incidono su questo punto).
          La frase sulla curiosa relazione inversa tra voti e risultati si commenta certamente da sola. E’ semplicemente la realtà che tutti conoscono, ma che non si può dire perchè è politicamente scorretta.
          Lei mi sa spiegare per quale motivo vengono sistematicamente dati voti più alti a chi, nei test omogenei, ottiene risultati peggiori?
          Pensa che questo aiuti gli interessati a migliorare la loro preparazione?
          Io dico il contrario. Dico che è uno dei fattori che aiuta a tenere bassa la preparazione, perchè banalmente non viene richiesto di migliorarla, quando i dati oggettivi mostrano che invece ce ne sarebbe bisogno.
          Le ragioni dei problemi, generali e riguardanti tutto il paese, riguardano la qualità, e non la quantità di tempo, che è fin troppo elevata.

  8. Chiara Fabbri

    I dati Invalsi non ci hanno regalato altro che la riscoperta di cio’che certificava Don Milani gia’nei lontani anni 60: la scuola italiana e’ come un ospedale che cura solo i sani. Lungi dall’aiutare a intervenire per sanare gli evidentissimi gap della struttura educativa italiana, i dati Invalsi sono solo serviti a fornire una utile arma di distrazione di massa. Tutti parliamo dei dati, nessuno della mancanza di asili nido e scuola materna al sud, del fatto che il tempo pieno non esiste al di sotto di Roma, che le strutture scolastiche del meridione, anche quelle di proprieta’dello stato centrale, sono fatiscenti e prive di laboratori, palestre e potrei continuare. I dati Invalsi non hanno creato programmi di investimento mirati a colmare le lacune piu’evidenti, anzi semmai servono a esacerbare lo stigma nei confronti delle aree del paese nelle quali la mancanza di politiche educative ha creato condizioni di perenne svaltaggio. Se cé’una cosa che i dati Invalsi hanno fatto e’stato creare pseudo-analisi dal sapore marcatamente razzista. Analizzare i differenziali di investimento pubblico darebbe risposte interessanti e probabilmente meno facili di una generalizzata demonizzazione degli studenti del sud. Spesso gli Invalsi vengono paragonati a un termomentro: ma se ho la polmonite e pochi soldi, non li spendo tutti per un termometro super sofisticato, magari mi compro un antibiotico che mi cura. Potremmo investire di piu’nella scuola e meno negli Invalsi.

  9. Luca Cigolini

    Le prove Invalsi sono un utile strumento statistico. Grazie per averlo ricordato. L’ostilità di alcuni docenti (me compreso) è per l’uso valutativo del singolo studente o della singola classe che di tanto in tanto viene imposto o riproposto dal Ministero. Per questo servono strumenti adeguati, pensati e strutturati per un fine diverso da quello statistico (un problema p.e. è quello di uniformare i criteri e i modi di valutazione usati nelle singole scuole). Comunque l’ostilità dei docenti non ha mai impedito alcunché nella scuola, così come le richieste di stipendi adeguati non hanno mai ottenuto alcun effetto.

  10. Luca Cigolini

    Aggiungo che dai test INVALSI e dagli studi PISA risulta la presenza, nella scuola italiana, di vaste aree che ottengono risultati pari o superiori alla media europea (es. Lombardia, che conosco bene perché è la regione nella quale insegno). Sarebbe utile, prima di tutto, evitare di estendere il giudizio negativo che colpisce solo alcune aree a tutta la scuola italiana. In secondo luogo forse è il momento di pensare ad interventi differenziati e mirati, che sostengano quanto già eccelle e possano davvero migliorare le aree in difficoltà (non genericamente tutto il Sud). Invece assistiamo da decenni a riforme indifferenziate, che evidentemente o non colgono le differenze o hanno altri obbiettivi.

    • bob

      Apprezzo la Sua onestà intellettuale ma Lei sa che le statistiche sono “biada per il popolino” soprattutto per una certa classe”politica” a cui questo bizzarro Paese ha delegato perfino il Ministero con con un “ministro” il cui cv scritto a mano come su un pacchetto di sigarette la dice tutta. La cosa deprimente che manca il contrappeso di una onesta classe intellettuale al di sopra delle parti come dovrebbe essere e come il Suo intervento sottolinea

  11. Maria Prodi

    l’autonomia regionale in discussione a articolo 117 invariato non sottrae allo stato la competenza sulle norme generali sull’istruzione: direi che la valutazione del Sistema resterebbe con tutta ragionevolezza ad una autorità centrale. Molto preoccupante invece sarebbe la inclusione nella struttura del Miur delle funzioni di valutazione ora attribuite a Invalsi. Già le procedure e il potere di nomina su Invalsi ne rendono molto debole l’autonomia dal governo: far coincidere valutatore e valutato significa depotenziare la attendibilità e il significato della valutazione. Il rischio è un uso propagandistico e strumentale dei risultati ed un condizionamento della ricerca.

    • bob

      “Il rischio è un uso propagandistico e strumentale dei risultati ed un condizionamento della ricerca.” Già avviene e non solo per Invalsi.

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