La Germania è il principale partner commerciale dell’Italia, nell’export come nelle importazioni. Nelle catene globali del valore, poi, le interrelazioni sono in costante crescita. Una eventuale recessione tedesca avrebbe conseguenze gravi anche per noi.
La frenata tedesca
Tra le notizie poco confortanti che provengono dall’economia mondiale (protezionismo, Brexit, rallentamento di Usa e Cina e altro ancora), un’attenzione particolare si dovrebbe dare all’andamento, dell’economia tedesca.
Negli ultimi tempi, infatti, i segnali provenienti dalla Germania non sono molto incoraggianti: i dati pubblicati da Destatis, l’istituto di statistica tedesco, hanno evidenziato come, a dicembre, per il quarto mese consecutivo, la produzione industriale sia calata di circa lo 0,4 per cento rispetto a novembre, mese in cui era già diminuita dell’1,3 per cento. Su base annuale, è scesa del 3,9 per cento e ciò ha determinato un taglio delle stime di crescita per il 2019, passate dall’1,8 all’1 per cento, a riprova che le difficoltà dell’economia tedesca vengono percepite come strutturali.
Questi dati devono destare non poche preoccupazioni anche in Italia, dal momento che le economie dei due paesi sono sempre più interconnesse. Di conseguenza, se la Germania dovesse entrare in recessione, anche il nostro paese pagherebbe un prezzo molto elevato.
I rapporti tra Italia e Germania
La Germania, infatti, rappresenta il principale partner commerciale dell’Italia, sia come paese esportatore che come importatore. Nel 2018 l’export italiano verso la Germania si è attestato sui 60 miliardi di euro, per un peso complessivo del 12,5 per cento sul totale, circa un quarto di quanto esportiamo nell’Unione europea. In particolare, tra il 2010 e il 2017 si è registrato un aumento del nostro export di quasi il 30 per cento, con un incremento di oltre 12 miliardi di euro, mentre le importazioni dalla Germania sono cresciute nello stesso periodo di soli 6 miliardi (+10 per cento).
Bisogna poi considerare le crescenti relazioni tra i due paesi all’interno delle catene globali del valore, ovvero quelle sequenze di fasi produttive che dagli input iniziali conducono ai prodotti finali, passando per i beni intermedi. Sotto questo aspetto, negli ultimi anni, la Germania è diventata un vero e proprio “hub” della produzione europea, capace di importare dagli altri paesi europei semilavorati e prodotti intermedi, trasformarli e successivamente esportarli includendo valore aggiunto proveniente da quei paesi. Pertanto, all’interno degli ingenti flussi di esportazioni tedesche, è incorporata una parte di valore aggiunto prodotto in Italia – oggi appunto tra i principali fornitori tedeschi, soprattutto in un settore importante come quello della meccanica. Da questo punto di vista, la Germania risulta essere non tanto un paese concorrente per l’export italiano, ma un importante alleato, utile in particolare per raggiungere i mercati extra europei.
Figura 1 – Andamento del valore aggiunto scambiato tra Italia e Germania
Come si osserva dal grafico, dal 2000 al 2014 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati Wiod da noi utilizzati) – se si esclude il 2009, l’anno del “grande crollo del commercio” che ha ridotto drasticamente i flussi commerciali mondiali – il valore aggiunto scambiato tra le due economie è cresciuto costantemente in entrambe le direzioni.
Un’altra misura che permette di valutare l’importanza delle catene globali del valore nelle relazioni commerciali tra i due paesi è costituita dalla percentuale di valore aggiunto italiano incorporato nelle esportazioni e a sua volta riesportato. La percentuale è aumentata considerevolmente nel tempo, passando dal 38 per cento del 2000 al 51 per cento del 2014, confermando l’importanza strategica della Germania come punto di transito per le nostre esportazioni verso altri paesi (tabella 1).
Tabella 1 – Partecipazione alle catene globali del valore: Italia e Germania
Nella integrazione produttiva nell’ambito delle catene globali del valore, un ruolo importante è stato certamente svolto dall’euro. Una parte consistente dell’opinione pubblica italiana considera negativamente la moneta unica perché ha tolto al nostro paese la possibilità di utilizzare lo strumento del tasso di cambio per le cosiddette svalutazioni competitive. L’euro ha invece rappresentato, nel complesso, una novità positiva per l’economia italiana. Oltre agli indubbi vantaggi dal punto di vista della finanza pubblica, soprattutto in termini di minore spesa per interessi, anche il nostro export ne ha tratto complessivamente un beneficio, come indicano i buoni recenti risultati delle imprese italiane sui mercati internazionali. Ciò è accaduto soprattutto grazie alla minore incertezza derivata dal venir meno, almeno nell’area euro, della instabilità dei cambi. Questo aspetto assume particolare importanza in un contesto nel quale acquistano crescente rilevanza i fenomeni di frammentazione produttiva, caratterizzati da sempre più stretti rapporti di collaborazione tra imprese di paesi diversi. Tutto ciò richiede la sostanziale assenza di significative barriere commerciali e di rischi associati a impreviste oscillazioni dei tassi di cambio.
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Henri Schmit
Giustissimo. Ma non solo “un’eventuale recessione tedesca avrebbe gravi conseguenze anche da noi”, anche solo un rallentamento tedesco può far sprofondare l’Italia in recessione. I problemi tedeschi sembrano legati soprattutto al nuovo mercantilismo (americano) nel commercio internazionale. La disproporzionalità degli effetti esprime la malattia di questo paese. Quali sono i difetti strutturali? Come riformare per eliminarli?
Maurizio Cocucci
Avete dati non aggiornati. Proprio il giorno in cui avete pubblicato questo articolo sono usciti quelli di febbraio che ha visto un aumento dello 0,7% su gennaio. Le esportazioni sono cresciute sia a gennaio che a febbraio. Il fatturato nel comparto edile è in crescita così come quello del commercio al dettaglio. L’occupazione segna ancora incrementi pertanto lo spettro di una possibile recessione o anche stagnazione si allontana.