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Perché le aziende non amano il part-time

Le statistiche rivelano che il lavoro part-time è meno produttivo ed è pagato di più: per questo le aziende spesso non lo concedono. Ma è uno strumento fondamentale di conciliazione vita-lavoro. Occorre perciò che lo stato lo agevoli con alcune misure.

È una storia già sentita: un lavoratore richiede il passaggio da un orario di lavoro a tempo pieno a uno a tempo parziale e si vede negata la richiesta. A parte l’evidenza aneddotica, la conferma arriva da svariati studi.

Perché le imprese non concedono contratti part-time a chi li richiede? Le spiegazioni sono molteplici, ma sostanzialmente riconducibili a due: una è collegata all’effetto del tempo parziale sulla produttività, l’altra all’effetto sul costo del lavoro.

Se, a parità di condizioni, il part-time impone perdite, le imprese non sono indifferenti nell’impiegare i loro dipendenti full-time o part-time. In effetti, ci sono svariati motivi per cui il part-time potrebbe danneggiare la produttività aziendale. Potrebbe causare inefficienze di coordinamento e comunicazione all’interno delle aziende; oppure una riduzione della produttività individuale del lavoratore dovuta a quelli che in letteratura sono chiamati “start-up costs” (per esempio, la prima mezz’ora della giornata persa prima di iniziare a “carburare”). Il part-time potrebbe anche essere associato a maggiori costi. È ampiamente riconosciuto che impiegare lavoratori part-time aumenta i costi fissi del lavoro, cioè quelli non legati al numero di ore lavorate ma al numero di lavoratori (per esempio, costi di reclutamento e formazione).

In un nostro studio di recente pubblicazione, utilizziamo l’indagine Ril (rilevazione longitudinale su imprese e lavoro) effettuata dall’Inapp e mostriamo che l’utilizzo di lavoro part-time è significativamente associato a una minore produttività aziendale. Secondo le nostre stime, un aumento della quota di lavoratori part-time di 10 punti percentuali decrementa la produttività aziendale dell’1,45 per cento.

Tuttavia, se le aziende potessero adattare i salari alla produttività dei lavoratori part-time, tenendo anche conto degli eventuali maggiori costi fissi, dovrebbero essere indifferenti tra utilizzare lavoro full-time o part-time. In pratica, e specialmente in mercati del lavoro rigidi come quello italiano, le singole imprese hanno poco potere nella determinazione dei salari, che sono perlopiù regolati da precisi accordi collettivi, sia nazionali che aziendali. Se la legge prevede, come nel caso italiano, che i lavoratori full-time e part-time devono godere degli stessi trattamenti economici secondo un principio di “pro rata temporis”, il calcolo è presto fatto: il lavoro part-time impone perdite di produttività e maggiori costi che non possono essere recuperati con corrispondenti riduzioni salariali. Non è tutto: in Italia, gli accordi collettivi possono stabilire benefit aggiuntivi indirizzati ai lavoratori part-time, tra cui una più alta retribuzione oraria.

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Come non penalizzare le imprese

In un nostro recente studio, cerchiamo di capire se, in definitiva, i salari dei lavoratori full-time e dei lavoratori part-time sono sistematicamente diversi, pur a parità di mansione e di quantità di lavoro erogata. Utilizziamo dati Inps su tutta la popolazione di lavoratori dipendenti per più di trent’anni, dal 1984 al 2015. Per identificare l’effetto del part-time sul salario, analizziamo le trasformazioni da un contratto full-time a uno part-time (e viceversa) dello stesso lavoratore all’interno della stessa impresa. L’analisi è così in grado di tener conto delle specificità (non osservate dall’analista) a livello di lavoratore, impresa e “job-match”. Lo studio rivela un modesto, ma statisticamente significativo, differenziale salariale a favore delle posizioni part-time, dell’ordine del 4 per cento negli ultimi anni. Il premio si manifesta in tutti i gruppi di imprese e lavoratori (ad esempio, a prescindere dall’avere o meno un contratto a tempo indeterminato) e, seppur con una tendenza alla progressiva riduzione, in tutto l’arco temporale considerato. I risultati sono coerenti con l’assetto e gli sviluppi istituzionali del nostro paese. Da un lato, accordi collettivi che possono espressamente prevedere benefici salariali per i lavoratori part-time, dall’altro, una progressiva tendenza verso la desindacalizzazione e una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.

Insomma, i nostri risultati indicano che il lavoro part-time non solo è associato a una produttività significativamente minore, ma è anche pagato comparativamente di più. A ragione, se il part-time è meno produttivo ed è pagato di più, le aziende sono restie a concederlo. Non è quindi da esse che dovremmo aspettarci un genuino impegno in tal senso.

Il problema è che il part-time è uno strumento fondamentale di conciliazione vita-lavoro. Diventa dunque cruciale l’intervento dello stato, che dovrebbe mettere le imprese nella condizione di non essere penalizzate dall’utilizzo di lavoro part-time. Sgravi fiscali sui lavoratori a cui si concede di passare al part-time potrebbero essere un’opzione. Gli sgravi potrebbero essere superiori per chi ha più stringente bisogno di una conversione del contratto da full-time a part-time, come per esempio i genitori di bambini piccoli oppure chi si prende cura di un famigliare malato. Le riduzioni fiscali non andrebbero invece concesse quando il passaggio al part-time non fosse richiesto dal lavoratore, ma rientrasse in una discutibile strategia di contenimento dei costi da parte di imprese in difficoltà. Aiuterebbe poi rendere i salari più allineati alla produttività, contribuendo a ridurre le distorsioni nel mercato del lavoro e le inefficienze nell’incontro tra domanda e offerta, anche per quanto riguarda le posizioni part-time.

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11 commenti

  1. Henri Schmit

    L’analisi mi interessa per ragioni pratiche. Contrariamente alle conclusioni dell’autore trovo estremamente positivo che NON vi siano maggior costi da parte dello stato a seconda della durata full o part time del contratto. Lo stato deve invece garantire (meglio) che le ore supplementari e il lavoro domenicale siano (contabilizzati! e) remunerati correttamente. Nel settore della distribuzione al dettaglio di prodotti farmaceutici alcuni grandi gruppi (e forse anche numerosi piccoli esercenti ) non rispettano le regole pubbliche e i dipendenti farmacisti sono troppo deboli e senza inquadramente sindacale per difendersi. Nel settore delle farmacie il lavoro part time è un grande vantaggio, SENZA discriminazioni pubbliche. La produttività probabilmente non ne soffre del tempo limitato perché i farmacisti/le farmaciste interessate, numerosissimi, non hanno start-up costs rilevanti, né come inizio di un nuovo rapporto di lavoro, né su base giornaliera. Al contrario i guadagni in qualità della vita dei part-timer creano probabilmente un notevole benessere personale che si riflette positivamente sulla produttività al banco, nella vendita e nelle consulenze, e dietro le quinte. Da questo mio punto di vista limitato spero proprio che per ragioni di trasparenza e di comparabilità delle condizioni di lavoro tutto rimanga com’è, cioè che i costi decisi dallo stato rimangano neutri fra full e part-time.

  2. Buongiorno
    Stavo per commentare che nella mia esperienza il lavoro part time a parità di condizioni è estremamente positivo, quando ho letto questo commento che parla di farmacia. Non posso che confermare il commento, quindi. E’ il caso della mia azienda, una farmacia appunto, dove nessuna collaboratrice, né laureata né commessa, è a tempo pieno. Una scelta impegnativa in termini di gestione della complessità degli orari, della comunicazione e della formazione, ma estremamente positiva dal punto di vista della flessibilità (per sostituzioni di ferie o improvvise assenze), per ricchezza si contributi (più persone vuol dire più culture e più interessi) e soprattutto per la qualità della vita, che vuol dire anche qualità della prestazione professionale. Dopo 8 ore di lavoro per 5 giorni alla settimana è davvero difficile mantenere quella disponibilità, attenzione, vivacità intellettuale, curiosità, freschezza che fanno la differenza in termini di qualità di servizio. Per noi, farmacia con 17 persone in due sedi, una scelta straordinariamente positiva. L’elemento “estremo” della nostra organizzazione di part time è un nostro collega con un part time di 8 ore verticale più 6 ore di “lavoro agile”, il cui contributo in termini organizzativi e culturali, ad esempio nell’organizzazione di attività esterne, formazione ed innovazione è possibile grazie al fatto che in tutte le altre ore svolge attività, come libero professionista e per altre farmacie, che sviluppano background.

    • Buongiorno, intanto la ringrazio per il commento. La nostra analisi è stata condotta su un campione rappresentativo delle aziende italiane, che comprende quindi tutti i settori economici (ad esclusione del settore agricolo e finanziario). Che alcuni settori specifici, come per esempio quello delle farmacie, possano beneficiare dal lavoro part-time è sicuramente possibile. Per esempio, c’è uno studio (che può trovare qui: https://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/001979391306600507) che analizza l’impatto del lavoro part-time sulla produttività per il caso specifico delle farmacie, trovando per l’appunto un impatto positivo. Come dicevo, dal nostro studio emerge che, in generale, l’impatto è negativo. Tra l’altro, anche analizzando l’impatto per sotto-settori (per esempio, manifattura, trasporti, commercio, …) emerge un impatto sempre negativo. Unica eccezione è il settore del commercio al dettaglio (in cui rientrerebbero le farmacie). In quel contesto, il nostro studio delinea un impatto positivo, ma molto piccolo in magnitudine e non statisticamente significativo. Un saluto, eg

  3. Fulvio

    Alcune forme di agevolazione implicite da parte dello Stato nei confronti del part-time esistono già – anche se sono destinate al lavoratore e non all’azienda: la progressività dell’IRPEF genera un’aliquota media più bassa per il lavoratore part-time; pur di rispettare alcuni vincoli, il diritto alla pensione viene maturato con meno ore di lavoro da parte di chi lavora part-time rispetto a chi lavora full-time.
    Per il supporto a bambini piccoli e familiari malati mi pare esistano già degli istituti ad hoc (congedi parentali, legge 104),
    Non sono del tutto convinto che finanziare anche “lato aziende” politiche di riduzione della produttività sia una scelta saggia.

  4. Ivan Beltramba

    Non ho guardato le fonti citate. Però per esperienza personale dissento profondamente. Ho un part-time 83% su 4 giorni che per il mio datore (pubblico) che non mi ha ridotto i compiti sono un risparmio secco del 17%, visto che faccio le stesse cose in minor tempo.
    La differenza di produttività e costi la vedo invece da alcuni colleghi ingegneri che hanno il 50% per fare attività professionale in proprio (e uno ha anche un B&B): la maggior parte del tempo sono al telefono per i cavoli loro disturbando quelli degli uffici vicini. Ed i documenti che devono produrre arrivano sempre in ritardo e pieni di errori. Ma per la Buongiorno saranno bravissimi: sono in ufficio e timbrano regolarmente. Questo particolare (e l’articolo) mi ricordano l’epoca dei miei studi universitari (Ing.) quando i prof. erano tutti part-time e facevano la libera professione per cui a ricevimento studenti mancavano 1 volta su tre e a lezione spesso mandavano un sostituto. E le lunghe liste di attesa nella Sanità Pubblica dovute al part-time dei dirigenti medici mi fanno sospettare che forse la analisi andrebbe fatta spacchettando le “voci merceologiche” dei lavoratori, altrimenti si potrebbe ricavare un po’ semplicisticamente che “le donne a part-time lavorano meno e sono una palla al piede per le aziende”. Che vista la autorevolezza degli autori non sembra nelle intenzioni.

  5. Ivan Beltramba

    Peraltro lo studio della European Foundation etc mi sembra piuttosto datato (estate ed autunno 2000!), non c’era qualcosa di più recente? e soprattutto qualche cosa di comparativo fatto per esempio negli USA? oltre alle autocitazioni…

  6. Mirko Zanette

    Che dire, io lavoro nel settore finanziario, che è proprio uno dei due settori esclusi dall’analisi, chissà perchè poi. Posso immaginare che in tutti quei settori in cui la mansione svolta generi “produttività costante” (esempio classico l’operaio in catena di montaggio) concedere il part time rappresenti un costo per l’azienda; viceversa laddove il lavoro è “a tratti” (negli uffici direzionali di una banca, ad esempio), comprimere il lavoro utile in un part time penso sia molto utile sia per l’azienda che per il lavoratore: diverse volte mi son trovato a pensare che sarebbe meglio se guadagnassi il 40% in meno, lavorando il 50% in meno; farei le stesse cose, con un grosso guadagno in termini di qualità della vita, e l’azienda risparmierebbe in proporzione.

  7. Sara

    Per quanto l’azienda sia attenta alla produttività, secondo la mia esperienza credo che i parametri della produttività vengono analizzati in modo un po’ strano. Nel mio caso spesso rimango per un mese ferma senza lavoro e poi in altri mesi si lavora ma non in modo eccessivo. Si potrebbe gestire benissimo con un part time. Se consideri tutti i momenti morti delle giornate. Poi se una dipendente chiede spesso permessi o si assenta forse il part time in quel caso è necessario. Perché un’azienda come la mia mi sta pagando di più del dovuto rispetto alla produttività. Faccio 40 ore ma a livello di produttività sono 30 se non meno. Sostanzialmente mi pagano quando non faccio niente. Quindi penso che la mia azienda più che valutare la produttività è ancorata a un’idea vecchia per cui quantità equivalga a buona qualità e produttività. Per fortuna altri paesi sono più avanti e iniziano a ridurre le ore settimanali.

  8. Francesco

    Veramente le statistiche dicono l’opposto: che il part time è più produttivo in proporzione.
    Ma questo si sapeva già da anni.

    Io da quando lavoro part time sto meglio di umore e di salute, e produco quanto prima e meglio, e la mia vita è più serena.

    Lavorare 8 ore per 5 giorni è una forma di “tortura” che non conviene a nessuno, principale incluso, che comunque NON HA un costo maggiore rispetto a un full time.

    Ovvio che se uno ama il suo lavoro gli è meno pesante a prescindere, ma quanti lo amano davvero il proprio lavoro?

    https://it.businessinsider.com/lorario-di-lavoro-piu-produttivo-3-ore-al-giorno-il-migliore-dal-punto-di-vista-fisiologico-3-giorni-alla-settimana/

  9. demolitionman

    Come spesso accade, tuttavia, nella realtà il mondo funziona al contrario rispetto a quanto sostenuto nell’articolo: 8 aziende su 10 cercano solo personale parti time, e in certi settori offrono esclusivamente tale forma contrattuale – palestre, negozi di abbigliamento, profumerie etc.-. E’ più vantaggioso per l’azienda, dato che spesso a questo tipo di lavoratori “flessibili” vengono chieste ore di lavoro a nero che non verranno mai pagate – soprattutto al sud, ma non solo -; inoltre, in caso di permessi di malattia, ferie etc. la dianzi citata flessibilità permette al datore di sostituire prontamente il dipendente assente. Basta leggere l’ultima intervista del fattoquitidiano al Ceo di Yamamay, il quale si vantava di offrire fantomatici contratti full time di 1300€/mese ma di non trovare personale a causa del reddito di cittadinanza. Ebbene, si è scoperto che la quasi totalità dei suoi dipendenti è assunto con contratti part time di 7/800€ al mese, con possibilità di sfruttare, conseguentemente ed all’occorrenza, i lavoratori per indurli a svolgere ore di lavoro extracontrattuali al nero e non pagate.

  10. Emanuela Bicci

    Non sono d’accordo sulla minore produttività di un PT rispetto ad un FT, anzi, è l’esatto contrario.
    Avendo lavorato per 10 anni nel Customer Service di una delle più note compagnie telefoniche del mondo, posso garantire che gli studi fatti all’interno mostravano come un part time fosse notevolmente più produttivo di un lavoratore a tempo pieno, per via degli alti ritmi di lavoro che non è possibile mantenere con costanza in un turno di 8 ore rispetto ad uno di 4 o 6 ore (orari da riproporzionare in base al ccnl di riferimento, ovviamente).
    Pertanto, la presunta necessità di adeguare al ribasso il salario per un lavoratore parziale, è livellate dalla maggiore produttività stessa.

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