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Così l’autonomia farà crescere le differenze

Il sistema delineato dalle intese con le tre regioni che chiedono l’autonomia  aumenterà il divario nella qualità e quantità dei servizi offerti a livello regionale. Si dovrebbero sciogliere i nodi dei fabbisogni standard e degli incrementi di gettito che restano nel territorio.

Spesa storica, fabbisogno standard e clausola di salvaguardia

Il tema delle autonomie regionali rimane all’ordine del giorno indipendentemente dall’esito dell’attuale crisi politica. Per il momento, vi sono coinvolte Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, i cui presidenti il 15 febbraio 2019 hanno siglato intese con il governo ai sensi dell’articolo 116, comma terzo, della Costituzione.

Il decentramento stabilito nelle intese cattura l’interesse dei media perché potrebbe non implicare il semplice trasferimento di una serie di funzioni valutate al costo attualmente sostenuto dal governo centrale. Le risorse da trasferire potrebbero essere determinate utilizzando i fabbisogni standard, che però, come sottolinea l’Ufficio parlamentare di bilancio in un suo recente intervento, non dovrebbero essere molto differenti dall’assegnazione storica che lo stato fa alle regioni in base a parametri oggettivi. Se tuttavia i fabbisogni standard non fossero determinati entro tre anni dall’approvazione dei decreti che formalizzano le autonomie regionali, alle regioni sarà riconosciuto un valore almeno pari alla spesa media nazionale: è la cosiddetta clausola di salvaguardia. L’esatto opposto dell’obiettivo che dovrebbe prefiggersi uno schema di decentramento della fornitura di servizi pubblici, che dovrebbe riflettere le differenze nei fabbisogni e costi dei diversi territori.

Nelle intese si fa menzione dell’istituzione di una compartecipazione regionale alle imposte sui redditi delle persone fisiche e ad eventuali altri tributi erariali che finanzierebbe la spesa devoluta e che sarebbe rivista ogni due anni in base alle esigenze di gettito che emergono dall’evoluzione della base imponibile. Nell’articolo 5 è anche scritto che “l’eventuale variazione di gettito maturato nel territorio della regione dei tributi compartecipati (…) rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard (…) è di competenza della regione”. Quindi, se nei due anni in cui la compartecipazione rimane fissa vi è un aumento di gettito che porta a incassare più di quanto sarebbe necessario per soddisfare i fabbisogni standard, la somma resterebbe nel territorio ove è stata generata. Sarebbe gettito in più oltre quello necessario a soddisfare i fabbisogni standard.

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Ma la norma chi avvantaggia?

Nel caso in cui venisse adottata la clausola di salvaguardia, trasferimenti compensativi (colonna 1 della tabella) andrebbero alla Lombardia per 1,871 miliardi, all’Emilia-Romagna per 468 milioni di euro e al Veneto per 367 milioni. Altre regioni a statuto ordinario con spesa pro capite molto bassa trarrebbero vantaggio dall’applicazione del criterio della spesa media nazionale: il Piemonte (+368 milioni), la Puglia (+241 milioni), la Toscana (+29 milioni) e le Marche (+26 milioni).

Per tutte le altre ci sarebbe una diminuzione di risorse. Per il Lazio il taglio sarebbe di 1.770 milioni, per la Campania di 696 milioni, per la Calabria di 261 milioni, per la Basilicata di 265 milioni, per la Liguria di 204 milioni, per l’Umbria di 108 milioni, per il Molise di 85 milioni e per l’Abruzzo di 49 milioni.

Quindi l’applicazione della clausola di salvaguardia sarebbe estremamente conveniente per le tre regioni che chiedono l’autonomia e che dunque potrebbero avere tutto l’interesse a far saltare il tavolo dei fabbisogni standard. Ecco perché sarebbe importante eliminare dalle intese la clausola di salvaguardia, che potrebbe indurre comportamenti strategici poco virtuosi.

Gli effetti della compartecipazione

Nella tabella abbiamo calcolato una compartecipazione al gettito raccolto a livello regionale dell’imposta personale sul reddito delle persone fisiche (colonna 3), come previsto dagli accordi siglati il 15 febbraio. L’aliquota della compartecipazione Irpef per coprire la spesa regionalizzata per tutte le funzioni richieste, comprensive dei trasferimenti necessari a raggiungere la media nazionale (nel caso in cui non vengano approvati i fabbisogni standard), sarebbe del 30 per cento per l’Emilia-Romagna, del 28 per cento per la Lombardia e di quasi il 34 per cento per il Veneto, mentre arriverebbe a superare il 71 per cento per la Calabria, il 64 per cento per la Campania e il 61 per cento per la Puglia.

Nelle intese è previsto che l’eventuale variazione di gettito maturato nel territorio della regione dei tributi compartecipati rispetto alla spesa sostenuta dallo stato debba rimanervi. Utilizzando i dati previsionali della crescita per il 2019 della spesa per consumi delle famiglie a livello regionale resi disponibili da Prometeia, ipotizziamo una crescita del gettito Irpef sul territorio nazionale che rifletta le differenze nella crescita stimata dei consumi. L’aumento ipotizzato del gettito Irpef è superiore nelle regioni del Centro-Nord, in media pari all’1,5 per cento, (percentuale già calcolata su un gettito di partenza molto alto), rispetto a quelle del Centro-Sud (1 per cento). Mantenendo le stesse aliquote di compartecipazione, il gettito ricavato aumenta rispetto a quello previsto per la copertura della spesa media a favore di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto di 296 milioni di euro, circa il 45 per cento dell’incremento totale per tutte le regioni, pari a 659 milioni.

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Il testo delle intese non è chiaro nel dire in quale caso bisogna rivedere l’aliquota di compartecipazione ogni due anni. Sembra che la revisione debba valere solo se il gettito diminuisce e quindi non si riesce con la compartecipazione fissata a finanziare il fabbisogno, mentre se il gettito cresce l’aliquota dovrebbe rimanere invariata e il gettito incrementale andare tutto nelle casse delle regioni.

Nel caso della crescita del gettito da noi ipotizzata, un sistema simile potrebbe essere un ulteriore vantaggio per le regioni che chiedono l’autonomia: si concede loro gettito incrementale che non serve a finanziare i fabbisogni standard e che potrebbe essere utilizzato per altre esigenze, come quella di diminuire il debito pubblico o appianare le disuguaglianze territoriali.

Se il gettito incrementale da compartecipazione viene trattenuto tutto nella regione ove viene generato, dati i diversi tassi di crescita, ciò non farà altro che incrementare il divario nella qualità e quantità della fornitura di servizi tra regioni ricche e regioni povere.

Tabella 1 – Spesa regionalizzata pro capite delle regioni a statuto ordinario e ipotesi compartecipazione al gettito Irpef (dati in milioni di euro).

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  1. Giorgio Massobrio

    Fino ad ora, le differenze sono sempre aumentate; se certe Regioni non sanno amministrarsi e continualo a “bruciare” soldi in privilegi, assistenzialismo, e inefficienze, le differenze sono destinate ad aumentare ancora, sempre. Basta.

  2. “Per il Lazio il taglio sarebbe di 1.770 milioni.” Cosa succede oggi nel Lazio? Come mai vi è una tale differenza rispetto alle altre regioni italiane? Anche di fronte ad un criterio “rozzo” come la spesa media nazionale, sembrano numeri (e discrepanze) da capogiro.

  3. Michele

    L’autonomia regionale va cancellata. La cronaca dimostra che più la gestione è locale (specialmente a livello regionale) più si moltiplicano i casi di corruzione e sprechi

  4. Piero Bonacorsi

    Onestamente mi pare un ragionamento abbastanza strano .Se si ipotizza una percentuale sul gettito IRPEF a copertura della spesa sanitaria e l’eventual gettito dovesse aumentare sarebbe per quella percentuale a favore della regione circa il 30% a favore dell Emilia-Romagna per esempio ma il restante 70% a favore dello Stato che potrebbe tranquillamente fare perequazioni. Se aumenta il gettito guadagnano tutti punto.

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