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Perché l’Italia ristagna

L’Italia non cresce perché il sistema è schiacciato dalla burocrazia e dall’inefficienza dell’amministrazione pubblica? O le cause sono altre? Un libro di Paolo Sestito e Roberto Torrini cerca di rispondere a queste domande. Ne pubblichiamo un estratto.

Un’industria poco innovativa

[…] Sarebbe semplicistico e sbagliato identificare nel (mal) funzionamento del mercato del lavoro la ragione principale della bassa crescita italiana. […] Il fattore di sviluppo più rilevante nel lungo periodo è la crescita della produttività del lavoro, che dipende soprattutto dalla capacità innovativa delle imprese e dal sostegno che il sistema istituzionale di un paese è in grado di offrire a quelle più dinamiche, anche penalizzando le posizioni di rendita che scoraggiano l’innovazione. […]

La dinamica fiacca della produttività dipende innanzitutto da scelte organizzative e manageriali delle imprese e degli imprenditori ed è quindi da ascrivere ai loro comportamenti e al modo in cui il contesto economico li condiziona. Da questo punto di vista, va ricordata quella che è forse la caratteristica più peculiare del nostro sistema produttivo, ovvero la sua estrema frammentazione in imprese di piccola e piccolissima dimensione, a cui si associa una quota di lavoratori autonomi che è la più elevata tra i paesi avanzati (doppia rispetto al dato medio europeo). Le imprese italiane nel settore privato non finanziario hanno una dimensione media di appena 3,9 addetti contro i 6,9 dell’Unione Europea; quelle con meno di 10 addetti impiegano il 47 per cento degli occupati contro il 29 per cento medio dell’Unione. Specularmente, le imprese sopra i 250 addetti sono molto poche e relativamente piccole, con una quota di occupati di poco superiore al 20 per cento contro valori superiori al 30 nei principali paesi europei.

A lungo questa specificità nazionale non è stata percepita come un ostacolo allo sviluppo, o almeno si è ritenuto che la peculiare organizzazione produttiva dei distretti industriali italiani potesse controbilanciare i vantaggi derivanti dalle economie di scala, e non solo, goduti dalle grandi imprese. Il quadro è mutato però radicalmente sul finire degli anni Novanta, quando le difficoltà crescenti del sistema produttivo nell’affrontare la rivoluzione tecnologica dell’Ict e la globalizzazione hanno messo sempre più in luce i limiti di un modello basato sulla piccola impresa. […]

Lo scarso dinamismo d’impresa in Italia non è principalmente legato al numero delle nuove imprese che entrano nel mercato. Rispetto ad altre economie avanzate, le nuove iniziative imprenditoriali, pur numerose, sono però caratterizzate da una scala produttiva più ridotta e da una minor propensione a crescere nel tempo […]. Inoltre, le nuove imprese mostrano una minor probabilità di uscita nel caso l’iniziativa imprenditoriale si riveli poco redditizia. […] Sembra quindi che il problema più rilevante non sia costituito dagli ostacoli all’ingresso nel mercato, anche se gli oneri burocratici che gravano sulle nuove iniziative imprenditoriali non devono essere sottovalutati, quanto piuttosto di qualità delle nuove imprese e di efficacia dei processi di mercato che dovrebbero favorire la sopravvivenza e l’ascesa di quelle migliori. […]

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Le iniziative dei governi

[…] Sono tre le aree in cui i governi si sono impegnati nell’ultimo decennio, da un lato per migliorare direttamente la performance delle imprese e dall’altro per costruire un ambiente più favorevole alle attività economiche.

[…] Le iniziative che hanno tentato di sollecitare l’innovazione nelle imprese italiane sono motivate dall’idea che, se queste da sole non garantiscono un adeguato livello di innovazione, il sostegno pubblico, anche a mezzo di generosi incentivi, possa dare una scossa positiva al sistema. La letteratura teorica offre una giustificazione a incentivi rivolti agli investimenti in innovazione, in quanto si ritiene che questi abbiano significative ricadute positive sull’intero sistema: nei casi in cui i benefici collettivi sono superiori a quelli percepiti dai singoli investitori, gli esiti spontanei di mercato non garantiscono il raggiungimento dei livelli ottimali di investimento, giustificando così l’intervento pubblico. Questo spiega, ad esempio, perché l’Unione Europea autorizzi gli stati membri a sostenere l’attività innovativa delle imprese in deroga alle restrizioni sugli aiuti di stato. Ma ovviamente, non fosse altro per il fatto che la disponibilità di fondi pubblici è per definizione sempre limitata, occorre interrogarsi sull’efficacia e sull’efficienza di questo tipo di incentivi: i sussidi in questione innescano meccanismi autopropulsivi o finiscono per coprire spese che sarebbero state comunque effettuate dalle imprese beneficiarie?

[…] Altre misure intervengono sull’ambiente in cui operano le imprese, senza in linea teorica richiedere aggravi di spesa. Si tratta delle misure di semplificazione e snellimento delle procedure amministrative, autorizzative e di altro tipo […]. L’idea sottostante è che gli oneri burocratici siano un peso che grava sulle attività produttive e che ne scoraggia gli investimenti. […] Anche in questo caso la valutazione degli interventi non è facile. Da un lato, infatti, il costo implicito per le imprese può essere molto diverso a seconda della modalità di intervento della pubblica amministrazione; dall’altro, alcune regole sono comunque necessarie per salvaguardare interessi rilevanti e i problemi non derivano tanto dalla loro esistenza quanto dagli extra-costi e dall’incertezza generata da regole farraginose e da amministrazioni inefficienti nella gestione dei processi amministrativi. […] La questione della burocrazia deve quindi essere vista come un problema di efficienza delle amministrazioni e, ancora più a monte, come un problema di qualità della regolamentazione.

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[…] Le riforme della pubblica amministrazione si sono spesso focalizzate sul tentativo di rivedere il regime del pubblico impiego […]. In particolare, si è a più riprese intervenuti sulla relazione tra Pa (in primis i loro vertici amministrativi) e decisore politico, pensando che questo fosse lo snodo chiave per imprimere un cambiamento sostanziale. Gli interventi in questo campo sono stati spesso intrapresi con l’idea che si potessero ottenere grandi risultati senza costi per le finanze pubbliche o addirittura che da questi potesse derivare un risparmio di spesa – incrociando così il dibattito della riforma della Pa con l’annosa questione della spending review. Tuttavia, […] il tentativo di riformare a costo zero e per via prevalentemente normativa la Pa si è per molti aspetti rivelato velleitario. Sprechi e inefficienze sono certamente presenti, ma per conseguire significative riduzioni di costo e aumenti di efficienza sono comunque necessari importanti processi di riorganizzazione e magari sostanziosi investimenti (dall’adozione di nuove tecnologie allo svecchiamento e formazione del personale), senza i quali è difficile immaginare di ottenere risultati.

 

Paolo Sestito e Roberto Torrini, Molto rumore per nulla – La parabola dell’Italia, tra riforme abortite e ristagno economico, e-book scaricabile da internet e su Kindle-Amazon.

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E se copiassimo il modello irlandese?

  1. Savino

    Altro che taglio dei parlamentari. Vogliamo risparmiare sulla democrazia quando gli sprechi sono molto più evidenti e richiedono solo un minimo di autocritica.

  2. Marco Monarbario

    Ci volevano proprio due anime candide della Banca d’Italia per spiegarci che il Pil italiano ristagna per che la classe imprenditoriale non è all’altezza. Provate a chiedere ai burocrati di un ente pubblico uno degli innumerevoli permessi che occorrono per costruire uno stabilimento o provate a farvi pagare una fattura da un cliente moroso tramite il nostro strabiliante sistema giudiziario e poi potrete avere voce in capitolo.

  3. Giancarlo

    Ottima analisiggiungerei che, gli artigiani italiani sono in gran parte contoterzisti, per cui hanno grandissima difficoltà ad andare avanti se non vi sono medie e grandi imprese per cui lavorare. Quelli che producono oggetti che commercializzano autonomamente, limitano il loro campo al mercato italiano, notoriamente bloccato dall’inizio della crisi e ancora oggi. La precarietà del lavoro, induce i lavoratori al risparmio.

  4. Ubaldo Muzzatti

    C’è molto di vero negli argomenti trattati e nella tesi sostenuta. In particolare è vero che il sistema produttivo italiano dovrebbe maggiormente orientarsi su comparti più innovativi, tecnologici e a più alto valore aggiunto. Non di meno, però, rimane troppo elevato il peso dei fattori che imprese, e per loro imprenditori, manager e manodopera, non controllano. E sono, invece, in balia delle scelte politiche e del governo. Tecnicamente la produttività è il rapporto tra il valore della produzione ottenuta e le risorse a ciò dedicate. In questo senso si hanno vari livelli di produttività tra le quali: diretta della manodopera; aziendale; generale del sistema nazionale. Su quest’ultima incidono, non poco, fattori esterni all’azienda, quali i costi dell’energia, della logistica esterna, del denaro, fiscali, previdenziali, burocratici, che come detto l’organizzazione aziendale non può controllare. Per quanto sopra, pur essendoci un problema di produttività delle aziende italiane, io credo – al contrario degli autori – che nella competizioni globale le produzioni nazionali siano maggiormente penalizzate dalla bassa produttività generale del sistema italia, gravato ancora da troppe voci di costo improprie ed eccessive, sulle quali le imprese non possono intervenire direttamente.

  5. Carlo

    L’Italia ristagna anche perché il sistema fiscale premia settori obsoleti, la bassa produttività, le rendite e supertassa i redditi di chi ha studiato o si è impegnato sul lavoro. Ma andiamo per ordine.
    Dal 2017 i redditi agrari e dominicali degli agricoltori tra cui ci sono gli imprenditori del vino sono esenti dall’Irpef, e quindi questi soggetti sono a carico dei familiari (coniuge, figli, genitori, generi, nipoti, ecc) per cui non solo non contribuiscono alle spese della collettività attraverso l’Irpef ma abbattono l’irpef dei familiari con le detrazioni per familiare a carico e per oneri detraibili/deducibili. In pratica siamo in presenza di un’imposta negativa che, temo, sia incostituzionale perché se è vero che tutti i cittadini devono concorrere alle spese pubbliche non è vero il contrario, cioè chi non dichiara il reddito ottenga degli sgravi fiscali.
    Per la bassa produttività basti vedere la differenza fra l’Irpef pagata da un dipendente e quella di una p.iva in regime forfetario.
    Per le rendite basti pensare alla cedolare secca dei negozi o alla tassazione delle plusvalenze finanziarie che hanno un’aliquota inferiore al secondo scaglione: cioè un dipendente con un mensile di 1300 euro netti paga sugli straordinari un’imposta maggiore di chi sfrutta il lavoro altrui (negoziante) o specula in borsa.
    Infine lo scaglione ad aliquota irpef del 38% comincia a 28.000 euro annui che corrispondono ad una busta paga di 1700 euro ammontare certamente da ricchi.

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