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Anche il Jobs act influenza le scelte di maternità

Una maggiore incertezza sulle prospettive occupazionali si traduce in un minor numero di figli. Lo mostra uno studio sugli effetti del Jobs act sulle decisioni di fertilità delle lavoratrici. È un campanello d’allarme per un paese dalla bassa natalità.

Il calo delle nascite

Ormai da anni, i bassi tassi di fertilità, che contraddistinguono molti paesi avanzati, sono al centro del dibattito economico e politico e sono percepiti con preoccupazione dalla società nel suo complesso. L’attuale tasso di fertilità totale è inferiore al tasso di sostituzione della popolazione di 2,1 in quasi tutti i paesi Ocse (fanno eccezione Israele, Messico e Turchia). Si tratta di un processo che ha iniziato a manifestarsi a partire dagli anni Settanta e che ha raggiunto il picco più basso all’inizio degli anni Duemila (con valori al di sotto dell’1,3 in molti paesi europei). In seguito, alcuni paesi hanno registrato una ripresa, mentre la maggior parte degli stati dell’Europa meridionale è ancora oggi caratterizzata da tassi di fertilità molto bassi. L’Italia – che nel 2019 registrava un tasso di fertilità di 1,29 – si colloca tra i paesi con il minor numero medio di figli per donna.

Le cause

Una probabile causa del fenomeno è la tendenza a rinviare la nascita del primo figlio/a, che influisce sulla fertilità complessiva per il limitato intervallo di tempo che rimane per le nascite successive. Inoltre, anche in relazione ai problemi di salute che possono sopraggiungere con l’età, questo ritardo può portare a una involontaria mancanza di figli. L’età media delle donne al primo parto è infatti aumentata drasticamente nella maggior parte dei paesi Ocse: da 24,1 anni nel 1970 a 30 anni nel 2015. In Italia l’età media al primo parto ha raggiunto i 32,1 anni nel 2019.

Il rinvio della decisione di avere figli, a sua volta, può essere dovuto, almeno in parte, alla maggiore incertezza che le nuove generazioni affrontano sul mercato del lavoro e al fatto che il raggiungimento di posizioni che garantiscono una seppur minima stabilità avviene sempre più tardi nel corso della carriera lavorativa.

L’evidenza empirica su come l’incertezza economica influenzi la fertilità è ancora limitata. Tuttavia, esistono studi che mostrano come la fertilità sia negativamente correlata al tasso di disoccupazione aggregato e alla condizione di disoccupazione individuale, nonché alla condizione di temporaneità dell’impiego.

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Un’altra questione importante è quella di comprendere come le decisioni di fertilità siano influenzate da cambiamenti nella legislazione a protezione dell’impiego. Per l’Italia è un aspetto esaminato da Ervin Prifti e Daniela Vuri (2013) che, considerando la riforma del 1990 che aumentava la protezione all’impiego per i dipendenti delle imprese con meno di 15 addetti, mostrano un effetto positivo sulle decisioni di fertilità.

L’impatto del Jobs act

Contrariamente alla riforma del 1990, il più recente Jobs act ha sostanzialmente ridotto la protezione all’impiego per le imprese con più di 15 addetti (si veda Tito Boeri e Pietro Garibaldi, 2019). Pertanto, può essere interessante cercare di capire se le reazioni a una riduzione nel livello di protezione dell’impiego sono simmetriche a quelle che si riscontrano quando invece la protezione aumenta. Inoltre, la reazione potrebbe essere cambiata nel corso del tempo, magari perché gli individui si sono adattati alla maggiore incertezza che ha cominciato a contraddistinguere il nostro mercato del lavoro a partire dal nuovo millennio.

Più precisamente, dal marzo 2015 il Jobs act – con la cancellazione dell’articolo 18 – ha sensibilmente ridotto i costi di licenziamento per i nuovi assunti a tempo indeterminato delle imprese al di sopra della soglia dei 15 addetti, mentre li ha lasciati sostanzialmente immutati per i dipendenti delle imprese più piccole, per i quali già non esisteva la clausola di reintegrazione.

Sfruttando questa caratteristica della riforma, in un nostro recente lavoro cerchiamo di stimarne l’effetto sulle decisioni di fertilità delle donne occupate a tempo indeterminato.

I dati che usiamo sono quelli dell’Indagine sulle forze di lavoro (Istat), che fornisce informazioni trimestrali per il periodo 2013-2018 su un ampio campione della popolazione italiana. I nostri risultati mostrano che mentre prima della riforma le donne (di età compresa tra i 16 e i 46 anni) assunte nelle imprese più grandi avevano una maggiore probabilità di avere figli di circa 1 punto percentuale in più rispetto alle donne occupate nelle piccole imprese, dopo l’approvazione del Jobs act la differenza si è sostanzialmente annullata, contemporaneamente a un calo generalizzato della fertilità per entrambe le categorie.

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L’effetto stimato risulta maggiore per le donne più giovani probabilmente perché, affrontando una minore pressione del tempo per creare una famiglia, hanno maggiori incentivi a posticipare la gravidanza nell’intenzione di perseguire la propria carriera professionale. Inoltre, l’effetto negativo è maggiore per le donne che lavorano nel Sud Italia, per quelle con istruzione inferiore e per quelle che guadagnano salari più bassi, suggerendo quindi che l’impatto dell’insicurezza lavorativa è probabilmente mediato dall’incertezza del reddito e, più in generale, dalle aspettative sulle future prospettive di occupazione e carriera.

Oltre all’abolizione della clausola di reintegrazione per le grandi imprese, il Jobs act ha anche introdotto altri due importanti cambiamenti per tutte le imprese (sia piccole che grandi): un sussidio per i nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato e il contratto a tutele crescenti. Le due misure potrebbero influire positivamente sulla fertilità. Pertanto, è importante notare che l’effetto negativo sulla fertilità che troviamo è un effetto medio sui dipendenti con diverse storie lavorative e non esclude che la riforma abbia portato a un aumento della fertilità per alcuni gruppi specifici di lavoratrici, come quelle precedentemente impiegate con contratti a tempo determinato o precedentemente disoccupate.

Le nostre stime, mostrando che una maggiore incertezza sulle prospettive occupazionali (nel nostro caso indotte da un cambiamento nella protezione all’impiego) si traduce in un minor numero di figli, fanno squillare un campanello di allarme sulle conseguenze che potrebbe produrre l’attuale crisi.

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  1. Forse correlare direttamente Jobs Act e calo delle nascite (pur con le precisazioni evidenzate nell’articolo) può assumere un significato fuorviante. Purtroppo ogni riforma del diritto del lavoro dagli anni ’90 almeno ad oggi è arrivata dopo per provare a disciplinare situazioni di fatto già createsi prima. Così è stato per ogni intervento all’insegna della flessibilità. Il Jobs act, ugualmente, ha preso atto della sostanziale crescente difficoltà che le imprese assumessero lavoratori subordinati alle vecchie condizioni. Quindi, piuttosto che lasciar proliferare false partite Iva prive di qualsivoglia protezione, sì è ritenuto preferibile “cedere” qualcosa sul piano delle tutele del dipendente e agevolare un ingresso a condizioni decenti dei giovani nel mercato del lavoro. Insomma, al di là delle criticità del Jobs Act (tra cui, due su tutte, l’aver creato un doppio binario di tutele tra assunti prima o dopo l’entrata in vigore e l’aver lasciato lettera morta il progetto di implementare solide politiche attive e di tutela del disoccupato incolpevole) forse il problema è per lo più collocato a priori nell’insieme di fattori (pregiuridici) che hanno reso sempre più incerto il futuro lavorativo delle nuove generazioni. Un noto giuslavorista scriveva giustamente che il diritto del lavoro è quella materia che si finisce per rimaneggiare quando ormai non si sa più dove metter mano per fare fronte a problemi complessi in realtà di natura economica, sociale, eccetera.

  2. Franco

    La denatalità non è un problema, abbiamo un continente in piena esplosione demografica sotto di noi. Accogliere, accogliere, accogliere e il problema passerà da solo!

  3. Enrico D'Elia

    Dal punto di vista strettamente economico, un figlio è un investimento a lunghissima scadenza, che ormai comincia a non costare attorno ai 30 anni e, con le regole attuali, contribuisce alla pensione dei genitori dai (suoi) 50 in poi. Neanche la r&d e le opere pubbliche assicurano rendimenti così scarsi e incerti. Tra le cause della natalità, oltre all’incertezza assecondata (non determinata)dal jobs act metterei anche regimi pensionistici sempre più sfavorevoli, che riducono il “rendimento” economico dei figli anche quando questi sono occupati.

  4. Enrico D'Elia

    (Continua)
    Se è questo il cash flow di un investimento in genitorialità è evidente che bonus e permessi sul lavoro non hanno alcun effetto sulla natalità.

  5. Michelr

    Il jobact è solo l’ultimo di una lunga serie di riforme che nell’arco di oltre 20 anni ha causato una sempre maggiore precarizzazione del lavoro. La promessa era che la “flessibilità “ avrebbe portato maggiore crescita, produttività, investimenti etc. I risultati sono stati ben diversi: crescita della produttività a zero, crescita del PIL negativa, aumento delle diseguaglianze, disincentivo alle imprese ad aumentare il valore aggiunto, investimenti privati (ante covid) sotto del 20% rispetto al 2008. A lungo andare anche le conseguenze sociali negative si fanno sentire: ovviamente la denatalità, ma non solo! Fortemente legato alla precarizzazione c’è anche la fuga dei cervelli, l’atomizzazione della società, l’avversione alla EU, il populismo becero di destra. In poche parole il declino economico e civile del paese.

  6. Henri Schmit

    La natalità va protetta con misure dirette, non attraverso il contratto di lavoro. Chi dice natalità dice maternità, infanzia, scuola. Aggiungiamo ambiente, sanità, sport, trasporti pubblici. Mi fermo.

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