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Chi finanzia l’università pubblica?

L’università pubblica italiana sembra trasferire risorse dai “ricchi” ai “poveri”, e non viceversa. Sebbene le fasce meno abbienti siano sottorappresentate nella fruizione dei servizi universitari, non lo sono a sufficienza per invertire l’effetto redistributivo dell’Irpef.

PROGRESSIVITÀ E SOTTORAPPRESENTAZIONE

Così come la sanità pubblica è finanziata sia dalle tasse dei malati che dei sani, anche l’università pubblica viene finanziata in larga parte indipendentemente dalla sua fruizione. Questo potrebbe portarla a funzionare come un “Robin Hood al contrario”. Ad esempio, se nessun “povero” fosse iscritto all’università mentre di “ricchi” ve ne fossero in abbondanza, allora le tasse pagate dai primi finirebbero indirettamente nelle tasche dei secondi. Più generalmente, questo effetto ha luogo se i “poveri” usano l’università sufficientemente meno dei “ricchi”. Ipotizzando che il fondo di finanziamento ordinario (Ffo) erogato dal ministero agli atenei sia pagato interamente attraverso l’Irpef, si può focalizzare meglio la questione attraverso la figura 1. (1)
Da un lato, la curva grigia rappresenta la quota dell’Irpef totale pagata da ciascuna quota di popolazione. Se giacesse sulla diagonale del quadrante (linea tratteggiata), il 10 per cento più povero della popolazione pagherebbe il 10 per cento dell’Irpef totale, così come il 10 per cento più ricco. Invece, la curva grigia si trova al di sotto della diagonale, a indicare che i redditi più bassi pagano una percentuale dell’Irpef totale inferiore a quella pagata dai redditi più alti. Questo primo meccanismo muove le risorse dai “ricchi” ai “poveri”. Alcune voci, ad esempio quelle di Francesca Coin e Francesco Sylos Labini, si sono limitate a mostrare questo primo effetto trascurando il secondo. (2)
Dall’altro lato, infatti, la curva nera rappresenta la quota sul totale degli universitari espressa da ciascuna quota di popolazione. Se giacesse sulla diagonale del quadrante, il 10 per cento più povero della popolazione esprimerebbe il 10 per cento degli studenti universitari, così come il 10 per cento più ricco. Invece la curva nera giace al di sotto della diagonale, a indicare che le fasce di reddito più basse sono sottorappresentate tra gli studenti universitari. Questo secondo meccanismo riporta nelle tasche dei “ricchi” una parte delle tasse destinate all’università. Anche qui, alcuni commenti si sono limitati a mettere in luce il secondo effetto trascurando il primo, come l’articolo di Andrea Moro. (3)
Occorre invece valutare entrambi gli effetti: a seconda della loro forza relativa, l’università si troverebbe a redistribuire risorse dall’alto verso il basso o viceversa. Dunque, quale prevale?

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Figura 1: Distribuzioni della quota di Irpef totale pagata e della quota di universitari espressi, entrambe rispetto alla quota di popolazione italiana ordinata per reddito lordo del massimo percettore all’interno della famiglia (anno 2010).

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Fonte
: Banca d’Italia.

IL SALDO PER I SERVIZI UNIVERSITARI

Nel rispondere a questa domanda, Andrea Ichino e Daniele Terlizzese hanno concluso che l’università trasferirebbe risorse dai “poveri” verso i “ricchi”. (4) Qui vorremmo mostrare che sembra invece essere vero il contrario. A tale scopo, usiamo dati e definizioni di costi e ricavi legati all’università identici a quelli adottati da Andrea Ichino e Daniele Terlizzese. Tuttavia, a differenza loro, non stabiliamo alcuna definizione particolare di “ricchi” e “poveri”: più semplicemente, in figura 2 mostriamo il saldo rispetto ai servizi universitari per ciascun decile della popolazione italiana ordinata rispetto al reddito. In questo bilancio, il costo per ciascuna fascia di reddito è dato dall’ammontare di Ffo che essa paga attraverso l’Irpef; invece il ricavo corrisponde alla parte di Ffo di cui ciascuna fascia di reddito beneficia attraverso l’iscrizione dei figli all’università. (5) Sottraendo i costi ai ricavi, si ottiene il saldo rispetto ai servizi universitari per ciascuna fascia di reddito. Come illustrato in figura 2, le nove fasce di reddito più basse sono in attivo: cioè godono di una parte dei servizi universitari superiore a quella che contribuiscono a finanziare tramite l’Irpef. Al contrario, il 10 per cento più ricco della popolazione è in passivo: cioè finanzia l’università in misura maggiore di quanto la utilizzi. Quindi, se l’università fosse finanziata interamente attraverso l’Irpef, sposterebbe le risorse dai “ricchi” ai “poveri”, e non viceversa.

Figura 2: Saldo rispetto ai servizi universitari per ciascun decile della popolazione italiana ordinata rispetto al reddito. Un saldo positivo indica che il decile in esame riceve risorse dagli altri decili della popolazione. Un saldo negativo indica che il decile in esame trasferisce risorse verso gli altri decili.

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Fonte: Banca d’Italia.

LIMITI E IMPLICAZIONI

Tutte le analisi inerenti gli effetti redistributivi dell’università pubblica in Italia condividono alcuni limiti intrinseci. La nostra non fa eccezione. In particolare, alcuni di questi limiti gonfiano il saldo delle fasce meno abbienti rispetto ai servizi universitari, mentre altri lo riducono. Nella prima categoria ricadono (i) l’assenza di una correzione dei dati per l’evasione fiscale e (ii) il trascurare che parte del Ffo è raccolto attraverso tasse indirette (regressive). Nella seconda categoria ricadono invece gli effetti legati (i) alle tasse universitarie, (ii) ai sussidi per il diritto allo studio e (iii) alla maggiore propensione delle famiglie più abbienti ad avere figli iscritti presso università estere o private. È possibile che i diversi effetti si compensino, oppure no: per saperlo con certezza occorre raccogliere dati migliori. Fatte queste precisazioni, e fino a prova contraria, i “ricchi” hanno un chiaro incentivo redistributivo a cambiare l’attuale meccanismo di finanziamento dell’università pubblica. D’altro lato, il fatto che il sistema sia equo rispetto al censo non implica in alcun modo che sia anche efficiente, ovvero che le risorse di cui dispone siano usate nel migliore dei modi al proprio interno. E questo potrebbe costituire un’argomentazione del tutto distinta in supporto di eventuali cambiamenti della macchina dell’università pubblica.

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(1) Si noti che la semplificazione secondo cui il Ffo è finanziato interamente attraverso l’Irpef deriva essenzialmente da una carenza di dati più completi, e pertanto è comune alla gran parte delle analisi sul tema. Ad esempio, Ichino e Terlizzese usano questa semplificazione nelle loro analisi.
(2) Francesca Coin e Francesco Sylos Labini: “Tasse universitarie: i numeri di Ichino e Terlizzese” (www.roars.it, 19 gennaio 2013).
(3) Andrea Moro, “I redditi delle famiglie degli universitari” (www.noisefromamerika.org, 12 settembre 2012).
(4) Andrea Ichino e Daniele Terlizzese, “Se i poveri pagano l’università ai ricchi” (Corriere della Sera, 10 dicembre 2012) e “Tasse e benefici universitari: una risposta a Roars” (www.scienzainrete.it, 5 gennaio 2013).
(5) Tutti questi dati e il risultato che ne deriva sono già contenuti nella figura 1. Tuttavia, la visualizzazione del saldo attraverso la figura 1 è più difficile, poiché occorre confrontare le pendenze relative delle due curve. Per questo abbiamo reso il risultato più fruibile visivamente attraverso la figura 2.

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  1. Paolo Zanghieri

    Come cambiano i risultati se invece degli iscritti si considerano (come penso sarebbe corretto fare) i laureati?

    • Emanuele Pugliese e Ugo Gragnolati

      I dati della Banca d’Italia non permettono di rilevare facilmente il numero di laureati associato a ciascuna fascia di reddito. L’unità di rilevazione è il nucleo familiare, di cui vengono riportati i dati inerenti ciascun membro. In questo contesto, l’ottenimento della laurea specialistica costituisce una ragione di uscita dal campione osservato, nel caso in cui il neo-laureato abbandoni il nucleo familiare di provenienza (ad esempio perché trova lavoro) e giunga così a formare un nuovo nucleo familiare. Quindi, potendo conteggiare solo i laureati ancora nel nucleo di provenienza, si riduce di molto il numero di eventi e si introducono bias di selezione. Ad una prima perlustrazione, usando solo gli studenti di laurea specialistica (e in quanto tali già laureati alla triennale), risulta una fotografia qualitativamente simile a quella mostrata qui, sebbene con differenze quantitative. In ogni caso, non vediamo una chiara preferibilità a priori nell’usare il numero di laureati invece che il numero di iscritti: tutto dipende da cosa si desidera misurare. Si può fare un’analisi più complessa, guardando anche alla formazione di nuovi nuclei familiari, e stiamo pensando di seguire questa strada in un articolo più completo che risponda a questi dubbi. In questo esercizio, il nostro obiettivo primario era di garantire la comparabilità diretta con altri risultati emersi nel dibattito pubblico, i quali utilizzavano il numero di iscritti come variabile.

  2. Robert52

    Una domanda impertinente : siamo sicuri che i beneficiari dei finanziamenti all’università siano veramente gli studenti e non tutta la pletora di docenti , tecnici, amministrativi etc. che affolla i nostri mille atenei ? Se guardiamo alle reali differenze di reddito tra i laureati e non ,e alla grande disoccupazione tra laureati, mi sembra che restino pochi dubbi. E siccome parliamo sempre di Europa , come mai le tasse universitarie italiane sono seconde solo a quelle de Regno Unito ?
    In Danimarca , per esempio, l’università è gratuita per i cittadini UE.
    Forse l’obbiettivo di questa polemica è che alcuni nostri studenti spendano in affitti in Germania nei Paesi Scandinavi una parte di quello che spenderebbero qui di tasse universitarie . E poi nel futuro produrrano ricchezza al di fuori dell’Italia !!

  3. Giuseppe Passoni

    Quali sarebbero i risultati se nella fig. 1 si considerasse il reddito familiare complessivo anziche’ solo quello del massimo percettore all’interno della famiglia ?
    grazi, gp

    • Emanuele Pugliese e Ugo Gragnolati

      La Figura 1 ordina le famiglie sulla base del reddito ottenuto dal percettore meglio remunerato, ma i conti vengono poi svolti a livello di famiglia. Questo ordinamento dei dati viene usato per replicare quello già usato da altri autori e permettere una comparabilità diretta dei risultati. In ogni caso, usando il reddito familiare complessivo, i risultati rimangono pressoché invariati.

  4. Fabri73rn

    Io figlio di operaio ho finito l’università in 4 anni, i figli di papa ci hanno messo 5 6 7 anni pagando sovratasse per il fuoricorso. Se le tasse erano proporzionali al reddito va a finire che il figlio del gioielloiere pagava meno tasse di me.

    • Emanuele Pugliese e Ugo Gragnolati

      Se capiamo correttamente, lei allude al fatto che la famiglia di gioiellieri ha più possibilità di evadere rispetto alla famiglia di operai. Come diciamo nel paragrafo conclusivo dell’articolo, questo effetto non è catturato dai dati a disposizione e costituisce un limite dell’analisi.

  5. Dino Rizzi

    Forse non ho capito bene, ma mi sembra che non si scorpori il costo della ricerca, che, a naso, assorbe almeno il 50% delle spese degli atenei (comprendendo anche la quota di costo dei docenti) e non e’ uniformemente distribuita per disciplina. In alcuni casi in cui la ricerca costa poco (giurisprudenza, economia, …) e i corsi sono molto affollati gli studenti si pagano gia’ adesso quasi interamente il costo. Se e’ vero, il risultato ridistributivo non cambia solo se ricchi e poveri scelgono in egual proporzione gli stessi corsi di laurea.

    • Emanuele Pugliese e Ugo Gragnolati

      È vero, e sarebbe molto interessante disaggregare il conto per facoltà. Nel farlo, non sarebbe comunque facile decidere quanta parte del costo per ricerca scorporare e quanta no, visto che una parte di esso si riflette presumibilmente nel servizio formativo erogato (ad esempio fornendo lezioni migliori). In ogni caso, i dati della Banca d’Italia non rivelano presso quali facoltà si iscrivono i figli di ciascuna famiglia.

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