L’Europa concorda un piano di rilancio dell’economia da 750 miliardi, finanziato con Eurobond. Un accordo che prova a guardare al futuro e a mettere nell’angolo gli egoismi degli stati nazionali e dei sovranisti. Ora servono riforme e serve farle bene.
I leader Ue prendono una decisione storica che guarda al futuro
Dopo quattro giorni e quattro notti di trattative, i leader dei 27 paesi dell’Unione Europea si sono accordati su una decisione senza precedenti. Oltre a rinnovare (e aumentare a più di mille miliardi di euro) i fondi per il bilancio Ue 2021-2027, per la prima volta la Commissione europea metterà a disposizione dei paesi Ue più colpiti dalla più grande recessione degli ultimi 70 anni 750 miliardi di euro finanziati con l’emissione di Eurobond. Di fronte a una situazione eccezionale (con un Pil 2020 dato in calo dell’8 per cento), l’Europa è stata cioè capace di esibire una risposta eccezionale che combina elementi di solidarietà e di visione del futuro. La solidarietà viene dal fatto che i fondi del pacchetto approvato si prevede vadano a finire in modo sproporzionato nelle tasche dei paesi più colpiti dalla pandemia (l’Italia dovrebbe ricevere 209 miliardi, 81 in sussidi e 128 in prestiti). Qualche mese fa, un risultato di questo tipo sarebbe stato bollato come il risultato in una “transfer union” (un’unione in cui i soldi sono presi sempre dalle tasche di qualcuno – i tedeschi – e vanno sempre a finire nelle tasche di qualcun altro, i paesi del sud Europa) e quindi bocciato dall’opinione pubblica tedesca e del nord Europa. Ma, sotto l’attenta regia delle tedesche Ursula von der Leyen (presidente della Commissione europea) e Angela Merkel (presidente di turno dell’Unione nel secondo semestre 2020), l’accordo raggiunto si qualifica come un pacchetto che finanzierà riforme strutturali e investimenti pubblici in campo digitale, educativo, infrastrutturale ed energetico: un “Next Eu generation Recovery Fund” che mette l’accento su un domani di una crescita più sostenibile, non sull’oggi della redistribuzione.
Un accordo non scontato ma obbligato
L’accordo è un ottimo risultato, non scontato anche solo fino alla settimana precedente il lungo summit di Bruxelles che ha portato all’adozione del pacchetto. Ma era anche in qualche modo un risultato obbligato. Negli ultimi mesi, infatti, tutti i governi e le banche centrali dei vari paesi del mondo (ricchi e poveri) hanno risposto con interventi eccezionali per entità e qualità a una recessione mai vista. Secondo i più recenti calcoli del Fondo Monetario, i governi del mondo hanno messo in campo 11 mila miliardi di dollari (una cifra pari al Pil di Germania, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito sommati) in aiuti e prestiti eccezionali oltre ai supporti automatici all’economia che arrivano dalle minori entrate causate dalla recessione e dai sussidi automatici come le indennità di disoccupazione. Circa metà di questa enorme cifra arriverà da prestiti, ricapitalizzazioni di aziende in difficoltà e garanzie offerte attraverso il sistema bancario e tramite imprese e agenzie pubbliche (come la nostra Cdp, Cassa Depositi e Prestiti). Sono risorse pubbliche che servono a garantire liquidità e preservare la continuità aziendale, evitando i fallimenti, e si aggiungono a deficit e debiti pubblici solo nel caso in cui questi interventi diano luogo a perdite. È ciò a cui si riferiva l’ex presidente della Bce Mario Draghi quando nel suo intervento sul Financial Times del 25 marzo parlò della necessità di fronteggiare la crisi che stava arrivando trasformando “i debiti privati in passività pubbliche”. Poi c’è l’altra metà dei fondi pubblici che consiste di maggiori spese pubbliche e minori entrate vere e proprie (che quindi aumentano immediatamente deficit e debiti pubblici). È in questo contesto che arriva l’intervento dell’Europa. Il supporto di 750 miliardi deciso a Bruxelles è composto da 390 miliardi di aiuti (che quindi non si aggiungeranno ai debiti pubblici nazionali) e 360 miliardi di prestiti che invece – se attivati – produrranno maggiore debito pubblico degli stati nazionali nei confronti dell’Europa nel suo complesso. La proposta iniziale di Francia e Germania, che godeva del convinto supporto di Italia e Spagna, puntava a un mix diverso, con 500 miliardi di aiuti e 250 miliardi di prestiti, ma i paesi cosiddetti “frugali” (Olanda, Svezia, Danimarca, Austria e Finlandia) hanno spinto per una soluzione con più prestiti e meno aiuti che espone meno la Commissione e responsabilizza di più i paesi beneficiari dei fondi. Va anche ricordato che i “frugali” – apparentemente preoccupati di un’eccessiva assunzione collettiva di rischio – sono stati in definitiva anche “furbetti”, dato che nell’accordo hanno portato a casa un aumento dei cosiddetti “rebates”, gli sconti nei contributi al bilancio pubblico europeo, privilegi immotivati e da cancellare secondo alcuni paesi, e che invece saliranno a seguito dell’accordo (anche per la Germania, tra l’altro).
Infine – altro punto qualificante dell’accordo di questi giorni – il monitoraggio nella gestione dei fondi rimane rimesso alla valutazione della Commissione europea mentre il Consiglio europeo (dove sono rappresentate le volontà dei governi nazionali) deciderà su questi temi a maggioranza qualificata, il che elimina la possibilità del veto da parte di singoli paesi che sarebbe stato in contrasto con la legislazione Ue. Viene previsto tuttavia un meccanismo di “freno di emergenza”: in casi speciali in cui si ravvisino rilevanti scostamenti rispetto ai piani annunciati, un gruppo di paesi potrà sollevare la questione al Consiglio europeo.
Un accordo che mette i sovranisti europei nell’angolo
In definitiva, l’accordo che esce da Bruxelles vede l’Europa nettamente rafforzata. Sono passati secoli dall’umiliazione della Grecia di otto anni fa. Oggi è l’Europa nel suo complesso che pone il tema del rafforzamento della crescita e della competitività del continente, spingendo di nuovo l’acceleratore sulle “riforme strutturali” che l’avvento del sovranismo aveva messo in soffitta. Rimane infatti che, al di là delle parole d’ordine di chi vuole fare per sé, paesi con redditi pro capite elevati, con una prevalenza di anziani e una elevata densità della popolazione come sono i paesi europei non possono crescere e creare lavoro per i loro giovani se non riescono a riformare la loro pubblica amministrazione, a semplificare le vita alle loro piccole imprese, a migliorare il funzionamento della giustizia, della sanità e della scuola. Certo, non tutte le riforme sono buone, non tutte funzionano e anche quelle fatte bene spesso richiedono anni per produrre risultati efficaci. Ma bisogna farle e farle bene. E ora ci sono i soldi dell’Europa per finanziarle su un orizzonte temporale plausibile che va oltre il breve periodo. L’accordo di oggi è forse un primo passo di un’Europa meno matrigna e più casa comune. Un’unione che – nel ricostruirsi – prova a mettere da parte gli egoismi e le umiliazioni della crisi dell’euro che tanto consenso elettorale hanno portato a chi l’Europa vuole vederla distrutta e asservita alle altre grandi potenze.
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Henri Schmit
Per merito della F e della D e nonostante la pessima trattativa del governo italiano e l’ostruzionismo di facciata di alcuni mercanti di “rebates” (raddoppiati!), i 27 hanno raggiunto un ottimo accordo, ambizioso piuttosto che immediato, come insisteva Christine Lagarde consapevole del fatto che la politica monetaria dovrà risolvere i problemi lasciati o creati da politiche fiscali inadeguate. L’UE si indebita spostando gli impegni degli stati membri molto in avanti. Gli stati rimasti indietro (ben prima della pandemia!) ricevono generosi trasferimenti, a condizione che rispettino le regole comuni, definite insieme, monitorate dalla Commissione e se necessario dal Consiglio votando a maggioranza qualificata. All’Italia che non ha saputo approfittare del mercato comune e dei tassi bassi dell’euro si offre ora una nuova opportunità per chiudere una parte del gap con i paesi più performanti. Ma questa volta sarà un po’ meno “sovrana” a farlo sotto regia propria, i vincoli saranno più stretti, i controlli più serrati, le sanzioni più dolorose. Adesso servirebbe un grande consenso nazionale intorno a un piano di riforme (normativa, tasse, amministrazione) e di rilancio (investimenti) e una capacità gestionale (indirizzo, valutazione, procedure, appalti, legalità, esecuzione, convalida) a realizzare i singoli progetti europei e nazionali. Per fare questo servono politici e dirigenti capaci e concordi, almeno sul piano generale. Dov’è il piano? Dov’è l’intesa? Dove sono gli uomini?
Stefano Scarabelli
Mi permetto: a me sembra molto strano che i tuoi concorrenti indichino quali sono le terapie corrette per rubar loro quote di mercato. Qui non siamo in presenza di nessuna Yalta o momento Hamilton, come si dice da più parti con retorica stucchevole: si cerca solo di tirare a campare e salvare gli investitori in titoli di stato italiani, tra i quali spiccano le banche francesi. Cordiali saluti
Henri Schmit
Non capisco l’argomento troppo sofisticato del suo contro-commento, ma capisco che ho toccato un nervo scoperto. Fa male quando i pregiudizi collettivi cozzano contro la realtà che sta venendo al pettine. Prevedo un processo doloroso non brevissimo. Meglio accettarlo che prendere altra morfina!
lupe
Ci sono cose che se potessero essere capite non ci sarebbe bisogno di spiegarle. Che in un regime concorrenziale i vincitori della competizione non vedano l’ora di perdere è improbabile. Pensare che l’Olanda volesse il freno a mano per assicurarsi che l’Italia faccia riforme efficaci che rilancino la produttività del paese è decisamente ingenuo. O forse è solo un pregiudizio positivo.
Io mi soffermerei sul fatto che a fronte di una perdita di pil prevista dell’8% (circa 1050mld) ci vogliano 4 mesi di litigi per costruire un piano che vale il 5% spalmato su 6 anni, allentato da passaggi burocratici inutili (il consiglio dice “alt” poi decide la commissione, una perdita di tempo inutile) dimostra che le istituzioni europee in nome del quale sono state indebolite 27 istituzioni nazionali non hanno strumenti efficaci per reagire alle crisi. Se l’UE è un fine in sé, allora questi sono passi avanti, se l’obiettivo è contenere la disoccupazione e placare le tensioni sociali, allora questo risultato getta un’ombra nerissima sul futuro degli europei.
Henri Schmit
Non sono d’accordo. Tutti gli altri paesi, senza eccezione, preferirebbero mille volte – nel loro interesse – che l’Italia fosse affidabile, efficiente e competitiva. Ci sono volute un paio di settimane per F e D per rispondere con il Recovery fund alle proposte insostenibili di I e E relative agli euro-bond, altre due per la Commissione per fare la proposta NGEU, ma due mesi e quattro giorni per l’Italia di capire e accettare (a parole) le condizioni inerenti a uno strumento di bilancio comune. Il freno a mano serve solo per costringere l’Italia a rispettare gli obiettivi. Vedremo se questa sarà la volta buona. Ci sono buone ragioni per rimanere cauti. I torti dei Paesi Bassi sono altri, ma il governo italiano ha preferito passarci sopra. Perché?
Henri Schmit
Intendevo ovviamente “donne e uomini”; anzi, dobbiamo sperare che le donne riescano dove gli uomini hanno fallito!
Glauco Boscarolli
22/07/2020Non credo che l’avvenire del Paese sia legato al sesso ma alle età. Ad 83 anni propongo invitanti e pressanti bonus per le decine di migliaia di cervelli migrati all’estero dove contribuiscono al benessere, non soltanto economico, di altri popoli. Li abbiamo istruiti in Italia: preghiamoli di ritornarci per ricostruire qui il loro futuro e mettiamoli in condizione di farlo; adesso abbiamo i mezzi economici per farlo. Non invito all’umiltà chi deve decidere ma alla consapevolezza che sono i nostri figli, nel nostro e loro Paese. Altrimenti saranno soldi buttati.
Henri Schmit
Ha ragione. La mia osservazione era per un terzo seria, per un terzo ironica e per un terzo “demagogica”.
Savino
La solita italietta old mentality non è nelle condizioni di fare le riforme. Le redini dell’economia dovrebbero integralmente passare ai giovani, la pubblica amministrazione dovrebbe essere totalmente ringiovanita per il digitale e in chiave anticorruzione, i soldi pubblici (tra cui quelli UE) non dovrebbero essere sperperati in assistenzialismo o in fasulli investimenti stile Alitalia, Autostrade, Ilva, le infrastrutture si dovrebbero fare per migliorare le nostre condizioni senza lanciare sassi sui cantieri TAV e senza che la commissione VIA neghi il doppio binario sulla Termoli-Ripalta per proteggere gli uccellini; scuola, università, ricerca e formazione dovrebbero essere al centro di tutto, nella sanità non dovrebbe prevalere il sistema Lombardia e non dovrebbero essere sufficienti pochi minuti di acquazzone per mettere k.o. l’assetto idrogeologico, riconoscendo stigma a chi non paga le imposte e a chi condona tutto. Altro che sovranismo, altro che patria, altro che continuare ad elemosinare agli olandesi: dobbiamo dimostrarci nazione seria.
Alessio Franzoni
Ottimo l’accordo sul Recovery e oggi c’è di che essere soddisfatti, come dicono i commentatori. D’accordissimo! Ma non bisogna dimenticare che la partita ancor più difficile di quella appena terminata, è quella che inizia domani. Quando i nostri governanti torneranno da Bruxelles e dovranno ricominciare a distribuire quei soldi, a Roma. Applausi sì quindi, canti di vittoria e sfrenata esultanza anche no. Tra l’altro i prestiti vanno comunque restituiti. La storia degli ultimi anni dell’Italia in Europa è stata spesso lastricata di buone intenzioni e cattive azioni.
Dovremo far davvero tesoro di quelle centinaia di miliardi. Se butteremo via quei soldi, la nostra economia difficilmente si risolleverà da una crisi come quella che stiamo vivendo e con davanti fosche previsioni di una decina di punti in meno di Pil e migliaia di disoccupati in più. Una grande opportunità dunque, da saper cogliere con un altrettanto grande senso di responsabilità. Un enorme “in bocca al lupo” alla nostra Italia!
Stefano Scarabelli
Perchè l’Europa conta qualcosa sullo scacchiere globale? Qual è la posizione dell’Europa sulla questione libica? Tra l’altro mi permetto di osservare che forse in questa occasione sarebbe stato meglio produrre più mascherine e meno champagne o borsette in pelle.
Gianluca Grandi
Buonasera a tutti, io invece preferivo uscire dall’Euro, in quanto credo che con la deflazione presente anche un picco di inflazione che seguirebbe a stampare moneta propria sarebbe assorbito e inoltre perchè, essendo l’Italia fondata sull’export (made in italy) e turismo, con una moneta più svalutata saremmo più convenienti e appetibili per clienti e turisti con balzo del nostro PIL immediato. Detto ciò l’Olanda francamente tra rebates e dumping fiscale ha poco da parlare o pretendere, nell’accordo metterei un bel “politica fiscale uniforme, sennò fuori dall’UE” allora vedreste come abbasserebbero la cresta, drenano liquidità da anni dai governi nazionali. Infine, giustamente, mi si fa notare come però l’italiano medio i fondi UE negli anni passati li abbia, ogni tanto, sperperati: qua signori facciamo a capirci, se crediamo di non essere in grado di gestirci da soli allora gliela diamo vinta a Bruxelles e gli chiediamo di metterci in casa un amministratore giudiziario perchè non siamo in grado di gestirci, ma vorrei evitarlo e piuttosto dimostrare che non siamo dei burattini, ma fare delle riforme non perchè chi ci presta i soldi le vuole, ma per NOI, perchè servono all’Italia.
Giorgio De Prosperis
Aumenterebbero i prezzi moltissimo, mi avvisi quando usciamo così ritiro quel po’ di soldi dal contocorrente
italiano
Domanda: qual è il progetto di paese uscendo dall’euro? L’idea è quella di far concorrenza alla Cina o ai developing countries sulle produzioni a basso valore aggiunto? Continuare ad avere la stessa idea di turismo sgangherato che abbiamo portato avanti finora? Ammesso di avere il balzo del PIL immediato, poi bisogna capire come ci organizziamo. Perchè non conteremo più niente sullo scacchiere globale. Certo potremo continuare a mangiare i panzerotti ma forse non basta.
Jorge
A proposito di rebates, continuo a non capire perché l’Italia sia ampiamente un contributore netto nella UE nonostante che da anni il nostro PIL pro capite sia inferiore alla media dell’Unione. In base a quale logica un paese più povero della media deve trasferire risorse ad altri paesi?