Washington e Pechino cercano di spezzare la forte interconnessione dei loro sistemi produttivi. Perché implica una dipendenza che va oltre le semplici relazioni commerciali. Difficile in un quadro di guerra fredda disegnare il futuro del multilateralismo.
L’interdipendenza di due giganti
A quasi due anni dall’inizio della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, le relazioni tra i due principali paesi del mondo sono sempre tese. E sebbene tutti a parole la scongiurino, molti segnali suggeriscono invece che è iniziata una nuova guerra fredda.
Le frizioni tra i due grandi sono infatti profonde e di lunga data. Se negli ultimi tre decenni sono rimaste sopite per interesse reciproco, o sono state affrontate con stili e strategie diverse, oggi sono esplose su tre fronti intrecciati tra loro: quello economico, quello tecnologico, quello ideologico.
Sul fronte economico, i due principali protagonisti della globalizzazione della produzione sono oggi ai ferri corti. La pandemia ha reso evidente una forte dipendenza che Donald Trump aveva già iniziato a scardinare con i dazi, nel tentativo di raggiungere un vero e proprio decoupling, cioè una rottura delle filiere transnazionali che rendono uniti i due paesi, insieme a molti altri, in molti processi produttivi. Entrambi si sono resi conto che il loro rapporto simbiotico, che ha segnato l’economia globale dall’inizio del XXI secolo, non può essere ridotto alle semplici relazioni commerciali, ma porta con sé conseguenze più ampie, tecnologiche e politiche. Infatti, l’interdipendenza non è simmetrica: la Cina è lontana dalla frontiera della tecnologia in molti settori e cerca a sua volta, e da molto tempo, di rendersi meno dipendente, se non del tutto indipendente, dagli input americani ed esteri in generale. Magari continuando a fare affidamento sulle aziende taiwanesi, come per esempio Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation (Tsmc), che rifornisce ambedue i lati del Pacifico o almeno lo faceva fino a qualche mese fa, prima che si ritrovasse costretta a ottemperare al divieto di export verso la Cina emesso dall’amministrazione Trump. Tutto ciò non fa altro che rendere ancor più difficile la posizione di Taiwan, che oggi si trova nel bel mezzo della disputa tra Stati Uniti e Cina, geograficamente, economicamente e politicamente. Infatti, Pechino considera l’isola appartenente alla Repubblica popolare cinese e intende riannetterla ufficialmente entro il 2049. E a questo punto è chiaro che a giustificare l’obiettivo di una Cina unita non saranno soltanto motivi di orgoglio nazionale, ma anche la necessità di acquisire competenze tecnologiche per tener testa agli Stati Uniti.
La riforma impossibile
In tutto questo, l’affondo di Trump sul sistema multilaterale, in particolare sulla World Trade Organization, ha finito per rendere improbabile una sua riforma, necessaria perché torni a essere un forum di negoziazione e dialogo e non solo un tribunale commerciale internazionale. Il recente e prevedibile verdetto della Wto che oggi, dopo quasi due anni, condanna i dazi statunitensi sulla Cina come ingiustificati suona purtroppo come campana a morto più per l’Organizzazione stessa che per il nuovo stile dell’amministrazione americana, che infatti continua imperterrita a impedire alle proprie aziende di fornire componenti high-tech ad aziende cinesi, come nel caso più recente del divieto di export al più grande produttore cinese di semiconduttori, Smic (Semiconductor Manufacturing International Corporation), che dipende pesantemente dalle forniture americane di importanti componenti elettroniche.
Se la continua alzata di scudi tra Stati Uniti e Cina a colpi di divieti e dazi continuerà senza sanzioni, il mondo si ritroverà sprovvisto di un’istituzione dove disegnare il futuro del multilateralismo. A quel punto, il fronte più insidioso diventerà quello ideologico. All’ultima Assemblea generale annuale dell’Onu a New York, in occasione del 75° anniversario dell’organismo, i toni non sono stati particolarmente edificanti.
Trump ha accusato la Cina di aver diffuso il coronavirus e ha chiesto che Pechino sia ritenuta “responsabile” della pandemia. Xi Jinping ha detto candidamente che il suo paese “non ha intenzione di entrare in una guerra fredda con nessun paese, né tanto meno calda”, però continua a perseguire l’obiettivo di “riunificare la Cina”, come se fosse una sua faccenda interna e non mettesse giustamente in allerta il resto del mondo.
Che cosa significhi oggi una nuova guerra fredda e un disaccoppiamento economico non è affatto chiaro. Non lo è per Washington e Pechino, che perseguono entrambe l’esito per varie strade, con l’ambizione di mantenere un duopolio nelle proprie sfere di influenza. Quale che sia il nuovo presidente americano, l’esito sulle relazioni tra i due paesi potrà aprire la strada a un nuovo stile, ma non sarà molto diverso nella sostanza: tutto il Congresso ormai considera la Cina come un rivale sistemico, non solo come un feroce concorrente sui mercati manifatturieri. Non è chiaro soprattutto per il resto del mondo, che ora si chiede se e quando si debba davvero arrivare al dilemma di dover scegliere “da che parte stare”.
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mauro zannarini
Complimenti Proff. bell’articolo, esemplifica le contraddizioni economiche base del conflitto commerciale USA-CINA.
Forse non c’è la necessità di scegliere da quale parte stare: in Europa Unita abbiamo le competenze per crescere e proporci come alternativa sostenibile.
Alessia Amighini
Grazie del commento. Concordo sulle grandi potenzialità di un’Europa unita, e ritengo inopportuno far prevalere interessi puramente economici ad alleanze strategiche. Non è l’Europa a voler scegliere, ma gli altri due a cercare di strattonarci.
Giuseppe Gattullo
Il Presidente USA Trump sarà quel che sarà ma su una cosa ha ragione, non c’era nessuna necessità per il Paese Italia a sottoscrivere accordi bilaterali Internazionali con la Cina, un regime che insegue unicamente un’egemonia di potere , con tempi e metodi completamente incompatibili con quelli di un mercato e commercio democratico, e regole civili e democratiche di produzione.
Un potere quello Cinese a volte arrogante, che autorizza il presidente di Huawei Italia Luigi De Vecchis, a dichiarare che “non lascerà l’Italia nonostante il governo italiano”, mi sembra che si stia esagerando, Huawei non può fregarsene del Paese Italia.
“La Cina di Xi Jinping dichiara all’ONU che raggiungerà la carbon neutrality entro il 2060”, praticamente in un’altra vita. Bene anche qui vorrei ricordare ai smart-green di questo governo che fanno accordi Internazionali, che la Cina produce il 25% dell’inquinamento mondiale, mentre l’Italia incide per lo 0,000000001% ma grazie all’inquinamento Cinese, i costi della svolta green sono stati pagati dai cittadini Italiani, con un costo sociale altissimo in termini di posti di lavoro e perdita di redditività, invece di fare accordi meglio incalzarli a inquinare meno.
Alessia Amighini
Grazie del commento, le molte contraddizioni che lei solleva sono proprio il centro della questione.