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Più papà a casa per avere più mamme al lavoro

L’Italia è intrappolata da anni in una situazione di bassa fecondità e bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro. Per aumentare il numero delle madri al lavoro, serve un cambio di passo. Che inizia dai congedi di paternità e parentali.

Nascite e occupazione femminile

L’Italia è intrappolata da anni in un equilibrio di bassa fecondità e bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro. Nascono pochi bambini (nel 2019 ci sono state 435 mila nascite) e poche donne (soprattutto poche madri – il 54,5 per cento nella fascia di età 25-64) hanno un’occupazione.

La figura 1 mostra come l’Italia, insieme alla Grecia e, in minor misura, alla Spagna, sia completamente distaccata dal folto gruppo dei paesi Ocse che riescono a combinare tassi di fecondità e di occupazione femminile elevati. Anche all’interno del nostro paese, le aree in cui l’occupazione femminile è più elevata registrano i più alti tassi di fecondità (figura 2).

Figura 1 – Tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità, paesi Ocse, 2018.

Fonte: Ocse.

Figura 2 – Tasso di occupazione femminile (20-64) e tasso di fecondità per regione, Italia, 2018.

Fonte: Istat. 

La nascita di un figlio è sicuramente un momento cruciale per la vita delle donne in generale, e per quella lavorativa in particolare, e pone le madri su un sentiero diverso rispetto ai padri (o alle donne senza figli). Diminuisce la partecipazione al mercato del lavoro, diminuiscono le ore lavorate, anche per un maggior ricorso al part-time, diminuiscono i redditi e non solo nell’immediatezza della nascita, ma anche a distanza di anni.

I dati appena pubblicati da Eige sul Gender Equality Index indicano che nell’ultimo decennio l’Italia ha fatto passi avanti sul fronte dell’uguaglianza di genere, grazie in particolare ai progressi nella presenza nei luoghi decisionali (imprese e politica). Tuttavia, differenziali salariali, bassa partecipazione al mercato del lavoro e asimmetria nella divisione del lavoro di cura rimangono questioni irrisolte, con riflessi negativi sia sulla fecondità che sull’occupazione femminile.

Il ruolo dei padri

Non è un caso se a maggiore occupazione corrisponde in Europa maggiore fecondità. E non è un caso che l’Italia sia ben lontana dagli altri paesi. Il contesto culturale e istituzionale in cui si prendono entrambe le decisioni conta. Così come il ruolo dei padri, il cui maggiore coinvolgimento è irrinunciabile per provare ad agganciare gli altri paesi.

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Cosa è cambiato nel comportamento dei padri sul fronte della cura dei figli? I dati sui congedi di paternità e parentali pubblicati nella Relazione annuale dell’Inps ci consentono di fare il punto della situazione.

I congedi di paternità, introdotti con la legge Fornero del 2012, sono destinati ai padri lavoratori dipendenti. Originariamente della durata di un giorno, sono stati estesi in seguito fino ad arrivare a sette giorni di astensione obbligatoria, retribuita al 100 per cento (l’Unione europea ne chiede dieci dal 2022). I congedi parentali sono invece facoltativi: dopo la riforma del 2015 all’interno del Jobs act, consentono ai genitori (non solo lavoratori dipendenti) di assistere i figli nei primi 12 anni della loro vita. Hanno una durata massima di 10 mesi retribuiti al 30 per cento. I mesi di congedo possono diventare 11 se il papà si assenta dal lavoro per almeno tre mesi. C’è quindi un esplicito incentivo per le famiglie affinché sia il padre a usufruire di una parte del congedo.

La figura 3 mostra il confronto tra i benefici erogati per le mamme e i papà. Nel tempo si è ridotto il numero di congedi di maternità, a causa del calo nel tasso di fecondità. Il numero dei congedi di paternità è invece cresciuto, più di quanto sia aumentato il numero di lavoratori dipendenti e in controtendenza rispetto al tasso di fecondità. Anche se il beneficio nasce come obbligatorio, non vi sono sanzioni specifiche associate alla sua mancata fruizione. Il trend in crescita potrebbe quindi denotare un maggior rispetto delle regole da parte dei lavoratori e delle imprese, anche grazie al numero più elevato di giorni assicurati in via esclusiva ai papà. I congedi di paternità sono comunque poco più di un terzo dei congedi di maternità.

Sul fronte dei congedi parentali, la loro fruizione è cresciuta dal 2012 di più per i padri che per le madri, ma il rapporto è tuttora di 1 a 5.

Quando confrontiamo le due tipologie di congedi erogati ai padri, notiamo come i congedi obbligatori retribuiti al 100 per cento siano quasi il doppio rispetto ai congedi parentali facoltativi, che sono associati a una più lunga astensione dal lavoro con una retribuzione ridotta al 30 per cento. Questo nonostante la platea dei potenziali beneficiari del congedo parentale sia maggiore di quella dei congedi di paternità, per il momento riservati ai soli lavoratori dipendenti.

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Dove lavorano i papà che utilizzano il congedo di paternità obbligatorio e il congedo parentale facoltativo? I dati contenuti nella Relazione annuale dell’Inps rivelano differenze geografiche nella fruizione dei due tipi di congedi. Quelli obbligatori sono più concentrati al Nord e riflettono i livelli e le dinamiche occupazionali dei padri lavoratori dipendenti (figura 4). Al contrario, il maggior numero dei congedi parentali è fruito dai papà del Mezzogiorno, i quali nel periodo tra il 2012 e il 2018 hanno raddoppiato il ricorso al beneficio. I congedi parentali erogati ai papà rispetto alle mamme sono il 27 per cento nelle regioni del Sud, contro il 15 per cento nel Nord Ovest nel 2018. Il primato può denotare un segno di modernità nell’approccio ai ruoli di genere all’interno delle famiglie, ma più probabilmente riflette la struttura del mercato del lavoro al Sud. Il tasso di occupazione maschile è 1,7 volte quello femminile; la precarietà nel lavoro femminile è maggiore, per cui i pochi contributi versati dalle donne del Sud possono costituire un formale impedimento al loro accesso al congedo.

L’utilizzo dei congedi da parte dei padri è dunque in crescita, ma quelli facoltativi sono tuttora in larghissima parte usufruiti dalle madri e i congedi di paternità obbligatori sono sfruttati meno di quanto si potrebbe. Occorre dunque allungarne la durata a dieci giorni, come prevede l’Europa, e contemporaneamente occorre diffondere tra lavoratori e imprese una più ampia informazione sulla presenza del beneficio. Sarebbe anche utile considerare l’allargamento delle misure oltre il bacino dei lavoratori dipendenti, così come già accade per i congedi parentali, perché la maggior presenza a casa del papà fa bene ai bambini.

Servono più papà “a casa” per avere più mamme “al lavoro”.

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Per la disuguaglianza non tutte le pandemie sono uguali*

  1. Filos Oppos

    Questo tipo di analisi mette spesso in relazione il tasso di occupazione femminile con il tasso di fencondità, ma molto meno spesso si prendono in considerazione tavole di analisi che mettano in relazione il tasso di fecondità con, ad esempio, l’incidenza delle interruzioni di gravidanza, gli incentivi fiscali, la nazionalità, il livello di istruzione e altri fattori – alcuni politicamente scorretti forse. Intendo dire che sarebbe interessante analizzare i risultati anche sulla base di correlazioni multiple e di elementi che a volte vengono meno utilizzati. Seconda considerazione: c’è un mantra sull’aumento dell’occupazione femminile che ha più dell’ideologico che dello scientifico. In un mondo in cui il lavoro va diminuendo per la maggioranza della popolazione mondiale, e aumentando solo per una ristretta elite economico-culturale, avrebbe più senso pensare ad un modello di sviluppo in cui vi sia un “reddito familiare” di base per incentivare le nascite e offire più tempo libero a papà e anche a mamma. Se non cavalchiamo noi questo modello per addomesticarlo alle nostre esigenze, lo farà il tempo. ma in maniera selvaggia. Un po’ come sta accadendo con i tagli alla sanità, alla ricerca medica e al numero chiuso a medicina, per poi trovarci con il Coronavirus (sorpresa? Non tanto…). Cordialmente

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