Il successo del Recovery plan italiano dipende dalle scelte sulle priorità di investimento. Una di queste è la ricapitalizzazione delle Pmi, necessaria per ridurre i rischi di un’espansione del loro debito. E lo strumento è un fondo pubblico-privato.
Perché ricapitalizzare le Pmi
A settembre il governo ha approvato le Linee guida del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr): sarà la base per la negoziazione con le istituzioni europee sull’utilizzo del Recovery Fund.
Il successo del piano italiano dipende dalle scelte su come investire le ingenti risorse in arrivo. Per migliorare le prospettive di crescita dell’Italia, una priorità assoluta è un intervento straordinario e consistente di ricapitalizzazione delle imprese, che in primo luogo punti a sostenere le piccole e medie imprese colpite duramente dalla crisi pandemica.
Nei primi mesi del 2020, per fronteggiare l’emergenza, il governo ha favorito l’afflusso di liquidità dalle banche alle imprese attraverso un esteso programma di garanzie pubbliche. Nel breve periodo, non c’erano alternative. Tuttavia, nel medio e lungo termine, un intervento esclusivo sulla liquidità comporterà un’inevitabile crescita dell’indebitamento delle imprese con tre conseguenze: 1) riduzione della capacità d’investimento delle imprese; 2) riproposizione del problema dei crediti deteriorati e delle sofferenze bancarie; 3) accelerazione del declino della produttività totale dei fattori delle imprese italiane (cfr. qui e qui).
Un recente contributo di Elena Carletti, Tommaso Oliviero, Marco Pagano, Loriana Pelizzon e Marti G. Subrahmanyam solleva un tema cruciale: la contrazione dei ricavi comporta non solo problemi di liquidità, ma anche ingenti perdite ed erosione patrimoniale. A partire da quel lavoro abbiamo esteso l’analisi a un campione di 376.580 imprese – per le quali sono disponibili i dati di bilancio dell’esercizio 2019 (al 30 settembre 2020) – che ben rappresenta la struttura settoriale ed economico-patrimoniale delle società italiane. Partendo dai bilanci 2019, utilizziamo la variazione degli utili medi di settore riportati dalle società quotate nel primo semestre di quest’anno per stimare l’impatto della crisi Covid-19 sui conti delle imprese nel 2020. In linea con l’analisi di Fabiano Schivardi (2020), consideriamo uno scenario negativo (adverse), nel quale l’utile di ciascuna azienda segue l’andamento settoriale rilevato nel primo semestre per tutto il 2020, e uno scenario moderato (mild), in cui la contrazione dell’utile si limita al primo semestre 2020, mentre la redditività aziendale torna ai livelli del 2019 già a partire dal secondo semestre.
Alla fine del 2020, nello scenario mild (adverse), per effetto della caduta dei ricavi e delle perdite conseguenti, le imprese con patrimonio netto negativo salgono dal 6 per cento di fine 2019 al 9 per cento (12 per cento) e l’esposizione debitoria supera i 6,7 (13,7) miliardi, considerando solo le imprese del campione. Si tratta, in entrambi gli scenari, di una situazione esplosiva, considerato il contagio determinato dalle relazioni di debito-credito tra imprese.
Per effetto delle misure introdotte dal governo, una parte cospicua della maggiore esposizione debitoria verso le banche è garantita dallo stato. Quindi, nei prossimi mesi e anni, una quota significativa dell’onere del default delle imprese sarà a carico della finanza pubblica.
Tuttavia, le misure adottate non saranno in grado di sterilizzare la formazione di nuovi crediti bancari deteriorati.
Per ridurre i rischi e gli effetti dell’espansione del debito delle imprese, prevenendo la formazione di nuovi crediti deteriorati e la trasmissione della crisi al settore bancario e alla finanza pubblica, sarebbe opportuno prevedere tra le misure del Pnrr un intervento straordinario di ricapitalizzazione e riequilibrio patrimoniale delle imprese, che innescherebbe i processi di ristrutturazione e aggregazione auspicati da anni e oggi ancora più urgenti.
Uno schema pubblico-privato di ricapitalizzazione delle imprese
Un simile intervento rientra tra le priorità e le missioni identificati dalle Linee guida del Pnrr.
Alcune misure introdotte dal governo italiano vanno in questa direzione (per esempio, il “patrimonio destinato” di Cassa depositi e prestiti per sostenere la ricapitalizzazione di società con ricavi annui superiori a 50 milioni). Tuttavia, gli strumenti introdotti sono difficilmente adattabili alle Pmi e, più in generale, i numerosi interventi a favore del loro rafforzamento patrimoniale appaiono finanziariamente insufficienti e rischiano di essere poco efficaci.
La difficoltà di disegnare un intervento incisivo dello stato nel capitale di un’ampia fetta delle imprese è riassumibile in un dilemma. Da un lato, una “ricapitalizzazione a pioggia” – cioè, l’investimento senza alcun controllo a garanzia degli obiettivi di interesse pubblico (per esempio, salvaguardia dei posti di lavoro, riconversione industriale, accrescimento del potenziale innovativo) – rischierebbe di tradursi in uno sperpero di denaro pubblico, perché sosterrebbe imprese che non realizzerebbero investimenti e piani di ristrutturazione delle proprie attività. Al contrario, un “controllo attivo” da parte dello stato delle partecipazioni in centinaia di migliaia di imprese potrebbe favorire, nel medio termine, pericolose commistioni tra politica e affari, compromettendo del tutto il raggiungimento dell’obiettivo della maggiore produttività.
Per bilanciare i rischi e i benefici di una ricapitalizzazione delle Pmi con risorse pubbliche, proponiamo un meccanismo basato sulla creazione di un Fondo per la ricapitalizzazione e la ristrutturazione delle imprese (Fondo 2Ri), costituito da stato, banche e altri investitori istituzionali (per esempio, Cassa depositi e prestiti, Banca europea degli investimenti, fondazioni ex bancarie, fondi pensione, fondi d’investimento). Gli asset attribuiti al Fondo 2Ri sono di due tipi: A) le banche conferiscono crediti verso imprese italiane, sia garantiti (in tutto o in parte) dallo stato che non garantiti; B) lo stato e altri investitori istituzionali conferiscono risorse finanziarie.
Costituzione del Fondo e gestione delle partecipazioni
Il conferimento dei crediti bancari al Fondo richiede una procedura articolata, da definirsi con un provvedimento legislativo organico, che possiamo sintetizzare così: 1) ogni istituto del sistema bancario italiano identifica i crediti da cedere al Fondo 2Ri, sulla base di criteri standard finalizzati a migliorare i bilanci bancari e, al contempo, limitare i rischi di comportamenti opportunistici; 2) le imprese debitrici coinvolte dall’ipotesi di cessione dei crediti deliberano attraverso i propri organi (per esempio, l’assemblea straordinaria nel caso di società), entro una finestra temporale definita (per esempio, un anno), se aderire alla procedura straordinaria di ricapitalizzazione e ristrutturazione (Procedura 2R); 3) le imprese introducono, contestualmente alla decisione di adesione, tutti gli adeguamenti del proprio assetto giuridico eventualmente necessari per garantire il corretto funzionamento della Procedura 2R (per esempio, la sterilizzazione delle norme sul gradimento dei soci, l’eventuale trasformazione della forma giuridica e altro); 4) la banca cede al Fondo i crediti verso le imprese che hanno aderito alla Procedura 2R, ricevendo in cambio quote del Fondo stesso il cui valore andrà definito con criteri tali da generare effetti positivi sull’assetto patrimoniale del sistema bancario (in analogia con quanto accadrebbe con una bad bank); 5) al momento del conferimento al Fondo 2Ri, i crediti bancari vengono convertiti in quote di partecipazione del Fondo stesso nel capitale di rischio delle imprese (ex debitrici).
Il Fondo 2Ri è gestito da una Sgr (società di gestione del risparmio) con un mandato articolato ma preciso: 1) alienare il portafoglio delle partecipazioni derivanti dalla conversione dei crediti bancari in un arco di tempo congruo (per esempio, un decennio), massimizzando il valore di cessione delle stesse e, quindi, il rendimento per i sottoscrittori del Fondo; 2) utilizzare le risorse finanziarie conferite dallo Stato e dagli altri investitori istituzionali (asset di tipo B del Fondo 2Ri) per co-finanziare l’immissione di nuovo capitale di rischio nelle imprese aderenti alla Procedura 2R, per esempio acquisendo partecipazioni in fondi di investimento settoriali o territoriali e, comunque, senza estendere la partecipazione diretta del Fondo nelle imprese; 3) accrescere la capacità innovativa e competitiva e i livelli occupazionali del tessuto produttivo italiano.
Nel periodo che intercorre tra la conversione dei crediti bancari in partecipazioni e l’alienazione delle stesse, il Fondo 2Ri non gestisce direttamente le stesse, ma assegna – mediante una procedura competitiva – il mandato a gestire questi pacchetti di partecipazioni a investitori specializzati nella gestione delle partecipazioni di capitale e nella ristrutturazione d’impresa.
La “gestione indiretta” delle singole partecipazioni, attraverso più operatori qualificati in concorrenza tra loro, ha due vantaggi: limitare il rischio di indebita ingerenza della politica nei processi di ristrutturazione delle imprese; sfruttare competenze specialistiche diffuse nell’economia e nella finanza per accelerare i processi di ricapitalizzazione e ristrutturazione e, quindi, dismissione da parte del Fondo 2Ri.
L’obiettivo di medio e lungo periodo dell’intervento straordinario qui delineato è di fornire l’opportunità, le risorse e le regole per irrobustire e strutturare il mercato del capitale di rischio delle Pmi nel nostro paese, conseguendo un riequilibrio strutturale del rapporto tra equity e debito delle imprese italiane. In particolare, lo stesso Fondo 2Ri utilizzerà le risorse finanziarie conferite dallo Stato e da altri investitori istituzionali (asset B) per favorire, nell’orizzonte temporale di un decennio, la nascita di fondi di investimento settoriali o territoriali finalizzati all’acquisizione delle partecipazioni nelle imprese oggetto della Procedura 2R e alla loro ricapitalizzazione e ristrutturazione.
Il meccanismo consentirebbe di svolgere importanti interventi di politica industriale e di sviluppo attraverso un co-finanziamento pubblico (non a fondo perduto), che è definito nel suo ammontare e può essere distribuito secondo logiche trasparenti di intervento (per esempio, agevolazione di investimenti in imprese in aree svantaggiate, supporto al trasferimento tecnologico tra università e imprese e all’innovazione), garantendo al contempo l’immissione di capitale privato nei processi di ricostruzione del tessuto produttivo italiano secondo logiche di mercato.
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Alessandro Pescari
L’intervento è condivisibile e certamente va nel solco auspicato da più parti (Governatore Banca d’Italia, Consiglio nazionale dei commercialisti e altri).
Tuttavia occorre ricordare che il tessuto imprenditoriale del nostro Paese è largamente rappresentato da micro e piccole imprese, storicamente sottocapitalizzate (ancorché con una inversione di tendenza – Rapporto PMI Cerved 2019) e con una organizzazione ridotta. Di conseguenza, è da ritenere quanto mai opportuno che tra i diversi strumenti vi sia anche una forma di accesso “semplificata” in modo tale da rendere estesa quella necessaria ricapitalizzazione che appare di giorno in giorno sempre più incipiente almeno per quelle realtà che avranno la forza di continuare ad operare.
Sul punto si segnala un contributo interessante presentato proprio oggi in audizione presso la Commissione Finanze del Senato dal titolo un Superbonus capitalizzazione per le imprese da parte del Cndcec, già anticipato sulle pagine del Sole 24 ore del 5.11.2020.