Sul tema del turismo, manca ancora nel Pnrr il senso del presente. Fa ben sperare, però, il quadro generale. Anche alla luce della nuova ricostituzione del Ministero, per il momento solo enunciata, ma su cui si concentrano sia le aspettative sia gli ostacoli di sempre.
Il turismo nel Pnrr
Nel 2012, il Piano Gnudi – figlio del governo tecnico Monti – suonava inguaribilmente retro, tra ministero del Turismo da ripristinare e cemento da colare, nostalgia di una Costa Smeralda iniziata 50 anni prima. Nel maggio del 2020, anche il Piano Colao non aveva chiaramente inquadrato il proprio tempo, spaziando in un orizzonte ben più vasto.
Lo stesso Piano nazionale di ripresa e resilienza nell’ambito del Next Generation EU, nella sua versione del 12 gennaio 2021, non sfugge alla trappola della contemporaneità e fatica a collocarsi chiaramente nel tempo presente, e da qui guardare avanti.
Intanto, i temi della cultura e del turismo appaiono fortemente intrecciati, quasi mixati ad arte, forse per non rendere possibile una risposta chiara alla fatidica domanda “quanti soldi per il turismo?”. E magari anche per far passare sottotraccia argomenti come la sicurezza antisismica dei luoghi di culto, certamente fondamentali, ma difficilmente classificabili tra i fattori di propulsione di uno sviluppo basato sul turismo.
Stupisce che anche qui non si faccia un riferimento chiaro al Pst 2017-2022, il Piano strategico di sviluppo del turismo, di cui l’Italia si è dotata con un lavoro imponente e con una concertazione molto efficace. Un Piano cui invece fanno esplicito riferimento tutte le regioni, titolari della competenza in materia.
Molti dei riferimenti del Pnrr erano sì contenuti nel Pst, ma si ritrovano qui come annacquati, ovattati, pronunciati sottovoce; alcuni, poi, appaiono anche inguaribilmente datati: così l’albergo diffuso, di cui si parla dal 1982, i cammini che nella loro forma moderna compiono vent’anni proprio nel 2021, i borghi che hanno la stessa età, e così via.
Tutte cose giuste, ma per un’altra generazione; è tutto ciò che avrebbe dovuto essere già fatto, niente o quasi di quello che ci aspetta.
La pandemia ha cambiato il contesto
Se il terribile 2020 ci ha insegnato qualcosa, è che il turismo del futuro non sarà più quello del passato, ma uscirà dalle concentrazioni come il “turisdotto Roma-Firenze-Venezia”, dagli albergoni e dai voli charter e cercherà spazi aperti, sempre nuove esperienze, e quindi un mondo di servizi connettivi che le rendano possibili. Persone, non solo immobili; relazioni, non solo informazioni; autenticità, non tanto finzione.
Per quanto alla fin fine gli investimenti previsti siano imponenti, nel Pnrr si ha l’impressione che le risorse si sbriciolino in tante piccole azioni che non fanno riferimento a competenze e responsabilità precise: rimangono così appesi alcuni slogan suggestivi come “turismo delle radici”, “progetto Cinecittà”, “Caput Mundi”, “percorsi nella storia”. Una buona norma, forse, ma che senza decreti attuativi rimane carta straccia.
Di questi lanci comunicativi, e della loro effimera parabola, ne abbiamo già visti tanti, dai fari alle case cantoniere, per non parlare dei percorsi ferroviari: idee brillanti, ma senza fattibilità economica, con costi di realizzazione e gestione ingiustificabili sia da un punto di vista economico che sociale.
Proprio l’economicità della gestione sembra essere il punto più debole di un Programma che elenca sostanzialmente solo investimenti, rinvia a cantieri di difficile inaugurazione, definisce il quadro ma non gli strumenti applicativi. Un quadro che continua ad accrescere l’offerta (di beni culturali, siti archeologici, posti letto, spazi e luoghi identitari) senza preoccuparsi della loro economicità, forse sperando che l’offerta crei sempre la propria domanda come diceva la “legge di Say”, che però nel turismo non ha mai trovato riscontro.
Tutto questo mentre si insegue ancora un chimerico ideale di formazione, attraverso la creazione di una struttura nazionale per l’alta formazione del personale addetto, che riecheggia il successo della scuola alberghiera di Losanna, fondata nel 1893, proprio nel momento in cui le strutture ricettive tradizionali stanno lasciando ovunque il posto a formule più rispondenti alle esigenze del mercato.
Ma a leggere tutto il Pnrr viene la fondata speranza che il turismo italiano possa trarre maggiori vantaggi dalle azioni generali e di sistema invece che da quelle specificamente riservate al settore.
Le grandi infrastrutture per una mobilità sostenibile, l’innovazione digitale della pubblica amministrazione e del sistema produttivo, il green deal, le nuove competenze forse non produrranno turismo, ma senza queste precondizioni il turismo, una volta ripartito, andrà certamente poco lontano.
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Gianni Masoni
Condivido le considerazioni di Landi. Vorrei aggiungere che il turismo è il risultato di una complessa filiera di offerta che richiede la stretta collaborazione fra imprese private e servizi pubblici. Buona parte dell’attrattività del turismo italiano dipende poi dalla diffusione, dalla originale specificità dei servizi, in larghissima parte offerti da micro imprese. La sfida consiste quindi, oltre che nello sviluppo di infrastrutture efficienti, nell’aiutare le micro imprese ad integrarsi con i servizi pubblici in destinazioni turistiche competitive. Solo così valorizzeremo la nostra identità e le MPMI potranno crescere e competere nella dimensione globale, tipica del turismo, evitando la pericolosa tendenza all’omologazione e standardizzazione