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Così la riforma Fornero fa crescere il lavoro delle donne*

Gli effetti dell’innalzamento dei requisiti minimi di pensionamento non toccano solo i lavoratori più anziani. Riguardano l’intero arco di vita. E interessano soprattutto le donne, innescando cambiamenti anche nelle scelte occupazionali dei loro partner.

Il doppio dividendo della riforma

L’invecchiamento della popolazione comporta un calo della popolazione attiva e al contempo un aumento di quella dipendente dai trasferimenti pubblici. È una delle principali sfide alla sostenibilità dei sistemi pensionistici che i governi, soprattutto dei paesi avanzati, sono chiamati da tempo ad affrontare.

L’innalzamento dei requisiti minimi di pensionamento, che ha l’obiettivo di trattenere più a lungo gli occupati sul mercato del lavoro, è stata una delle politiche più diffusamente adottate. A titolo esemplificativo, subito dopo la “grande recessione”, in 28 dei 34 paesi dell’Ocse si programmavano o erano già state realizzate riforme di questo tipo. La popolarità di tale linea di riforma è legata al fatto che comporterebbe un doppio vantaggio: da un lato, diminuendo il numero di pensionati, riduce la spesa pensionistica; dall’altro, favorendo la maggiore permanenza nel mercato del lavoro, aumenta la base imponibile. Affinché si realizzi il “doppio dividendo”, è cruciale quantificare gli effetti dell’inasprimento dei requisiti pensionistici sulla partecipazione al mercato del lavoro e sull’occupazione.

La letteratura economica si concentra tipicamente sulla risposta in termini di partecipazione al mercato del lavoro e di occupazione da parte dei lavoratori più anziani, che prima della riforma avrebbero avuto accesso all’assegno pensionistico, ma che, a seguito dell’innalzamento dei requisiti, vedono posticipata la propria data di pensionamento. Per questi individui il venire meno del reddito pensionistico comporta generalmente un aumento della partecipazione e dell’occupazione; l’entità dell’effetto dipende dal contesto istituzionale, per esempio dalla possibilità di accedere a fondi pensione privati o ad altri strumenti di welfare come le pensioni di disabilità.

Questo tipo di riforme però cambia l’età di pensionamento per tutti e può influenzare le scelte lavorative anche delle persone più giovani; un più lungo orizzonte lavorativo e una mutata ricchezza pensionistica possono infatti indurre gli individui a modificare la propria offerta di lavoro lungo l’intero arco della propria vita. Nel valutare gli effetti complessivi sull’offerta di lavoro di politiche che inaspriscono i requisiti per accedere alla pensione è dunque importante tenere in considerazione anche questa seconda dimensione: in termini aggregati gli effetti sulla popolazione più giovane potrebbero essere più rilevanti di quelli stimati in riferimento alle fasce più anziane, poiché coinvolgerebbero un numero più alto di persone.

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In un recente lavoro ci concentriamo proprio sulla risposta di individui più giovani al posticipo dell’età di pensionamento. Inoltre, poiché le scelte individuali sono compiute in un contesto familiare e possono influenzare i comportamenti dei partner, valutiamo se l’impatto è amplificato o ridotto dalle interazioni familiari.

L’analisi

Il nostro lavoro studia l’aumento dell’età di pensionamento indotto dalla riforma Fornero del 2011 che, insieme alla precedente riforma Sacconi del 2010, ha comportato un innalzamento dell’età di pensionamento fino a un massimo di sette anni per alcune categorie di lavoratori (ad esempio, le donne con pochi anni di contributi). Si è trattato di un’importante revisione del sistema pensionistico italiano, che si è inserita nel solco di un lungo processo di riforma realizzato a partire dagli anni Novanta.

L’analisi empirica è basata sui dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia per il periodo che va dal 2004 al 2016. Per stimare gli effetti sull’offerta di lavoro sfruttiamo l’eterogeneità nell’aumento dell’età di pensionamento generato dall’effetto combinato delle riforme Fornero e Sacconi, che hanno agito in maniera differenziata per genere, età e numero di anni di contributi versati. In particolare, compariamo la dinamica della partecipazione al mercato del lavoro osservata dopo il 2011 per gruppi di individui con caratteristiche simili, ma esposti in modo differente alle riforme.

I risultati

I nostri risultati mostrano che, sebbene la riposta sia maggiore tra gli individui più anziani, una più elevata età di pensionamento induce un aumento della partecipazione al mercato del lavoro anche tra i soggetti più giovani. Mentre l’effetto sulle persone più anziane è positivo sia per gli uomini che per le donne, l’impatto sulla partecipazione degli individui relativamente più giovani è concentrato interamente tra le donne. Avendo tassi di attività molto inferiori rispetto agli uomini, le donne hanno maggiori margini di miglioramento e tendono a rispondere di più a cambiamenti negli incentivi a partecipare al mercato del lavoro.

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A seguito della riforma, l’offerta di lavoro è cresciuta rispettivamente di 3,3 punti percentuali per le donne di età compresa tra 55 e 59 anni, di 1,5 punti per quelle tra i 50 e i 54 anni e di 1 punto per quelle relativamente più giovani, tra i 45 e i 50 anni. Nell’aggregato, gli effetti sono rilevanti: secondo le nostre elaborazioni il numero di donne nella fascia di età 45-59 attivatosi a seguito dell’inasprimento dei requisiti di pensionamento è stato pari a circa 200 mila; questo effetto spiega un terzo del marcato aumento dell’offerta di lavoro femminile osservato in Italia tra il 2010 e il 2014.

L’accresciuta partecipazione femminile ha avuto effetti anche sull’offerta di lavoro della controparte maschile che, in media, ha posticipato il pensionamento. Il risultato è in linea con un’ampia letteratura che mostra come i partner tendono a coordinare le loro scelte così da raggiungere il pensionamento in momenti ravvicinati.

I nostri risultati suggeriscono che, per massimizzare l’effetto sulla partecipazione, è importante realizzare riforme pensionistiche che modifichino in modo chiaro e certo le regole previdenziali. Questo tipo di politiche può avere effetti marcati e molto diffusi sull’offerta di lavoro perché muta le aspettative individuali sul futuro pensionistico e induce gli individui a modificare le proprie scelte lavorative lungo l’intero arco della propria vita.

* Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire esclusivamente alle autrici e non coinvolgono la responsabilità dell’Istituto di appartenenza.

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A Wall Street ora volano le Spac

  1. Savino

    Ma gli italiani adulti dov’erano prima della pandemia, quando pensavano solo a sottrarre lavoro ai giovani? Il sistema previdenziale può funzionare se i giovani lavorano. Siccome fino ad ora il problema era dare lavoro nei posti ambiziosi ai 60enni e 70enni ingordi, è chiaro che i conti difficilmente tornano con tali condizioni. Se cominciamo ad avere professori universitari o manager o dirigenti poubblici o magistrati o consulenti o medici primari di 30-40 anni il paradigma cambia.

  2. Alice

    Quante riforme pensionistiche sono state implementate negli ultimi 30 anni?

  3. Firmin

    Trovo sempre surreali i provvedimenti tesi ad aumentare l’offerta di lavoro in una situazione in cui questa eccede sistematicamente la domanda, lasciando a casa almeno il 5-15% degli aspiranti lavoratori. È come se si chiedesse ad un’impresa coi magazzini pieni di incrementare la produzione. Sarebbe intellettualmente più onesto ammettere che questi provvedimenti tendono solo ad abbassare i salari reali, con benefici per il PIL e l’occupazione che deriverebbero quasi esclusivamente dalla domanda estera (perché sul circuito interno il livello dei salari conta poco). In un mondo globalizzato questo significa spingere tutti i salari (e le condizioni di lavoro) sotto i livelli “invidiati” da un nostro ex premier in trasferta. Oltre tutto, trattenere al lavoro proprio i più anziani significa deprimere la produttività e l’innovazione, peggiorando la competitività delle imprese. Trovo ancora più surreale che un aumento dell’età pensionabile spinga i giovani e le donne a lavorare prima e di più per accumulare abbastanza contributi nei successivi 40 anni (non 5 o 10 e neppure 20). Nessuna impresa fa piani a così lungo termine. Invito gli autori a studiare le stesse ricette applicate alle banche, forzandole a prestare di più, a più lunga scadenza, con tassi più bassi, evitando di liberarsi dei npl.

  4. mauro zannarini

    A 67 anni ho chiuso lo studio in rimessa da vari anni, con versamenti IMPS da 4.000 euro annuali, alla richiesta di pensione mi hanno risposto: che sarebbe stata sotto il limite minimo legale, per cui non me la davano e devo attendere i 70 anni.
    Spero d’essere un caso unico, ma comunque pensateci.

  5. Cesare

    Il titolo più appropriato per questo articolo sarebbe “La riforma Fornero ha costretto le donne a lavorare fino a 68 anni e le conseguenze si vedono. Un esempio è ancora più significativa denatalità.”

  6. Nessuno comunque sembra aver pensato a chi, come me, da un certo punto in poi è andato a lavorare all’estero e quindi ha perso del tutto i contributi versati a suo tempo in Italia. Infatti ora ci vogliono ora almeno 20 anni di contributi per aver diritto ad una pensione, mentre prima del 2011 ce ne bastavano 5..

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