Il Pnrr destina 3,84 miliardi a interventi sul sistema portuale. Sono soldi ben spesi, vista l’importanza del commercio marittimo per il nostro Pil? Uno sguardo a quanto accaduto in passato solleva più di un dubbio. Serve una pianificazione selettiva.
La portualità italiana
Il commercio estero è un elemento molto importante nella determinazione del Pil di un paese. Ma qual è il ruolo della modalità di trasporto marittima rispetto al commercio estero dell’Italia?
Da una analisi del traffico internazionale italiano degli ultimi 20-25 anni emerge come la movimentazione complessiva sia passata dai 434 milioni di tonnellate (Mt) del 1997 ai 508 milioni del 2019 (+17 per cento). Nello stesso periodo, il traffico di cabotaggio è passato da 150 a 191 milioni di tonnellate (+27 per cento).
Il movimento portuale da solo, tuttavia, anche se depurato dalla componente del cabotaggio, non è in grado di rappresentare adeguatamente l’importanza del trasporto marittimo internazionale per un paese. Si veda ad esempio il computo dei contenitori in transhipment a Gioia Tauro e della pipeline di Trieste (per complessivi 57 Mt nel 2019) o il mancato inserimento delle merci che utilizzano porti stranieri per arrivare/partire in/dall’Italia.
Il traffico internazionale nei porti italiani è cresciuto quasi ogni anno dal 1995 al 2008 (con un picco di 367 Mt), per poi scendere fino a 265 Mt nel 2014 e risalire a 315 Mt nel 2019.
Il trasporto marittimo dell’Italia
Anche il peso delle merci deve essere tenuto in considerazione perché è un elemento fondamentale per il processo di pianificazione (ad esempio, per quanto riguarda le infrastrutture di trasporto necessarie).
La tabella 1 mostra i risultati della “Indagine sui trasporti internazionali di merci”, condotta annualmente dalla Banca d’Italia, che analizza il peso e il valore nominale delle merci importate ed esportate a seconda della modalità di trasporto utilizzata.
Il commercio estero via mare dell’Italia e il Pil
Nel periodo 1995-2020 il traffico marittimo internazionale è cresciuto con un Cagr (compound annual growth rate – tasso composto di crescita annuale) dell’1,5 per cento in import e del 2,7 per cento in export. Il traffico container rappresenta il 56 per cento del totale in valore nel 2020. Era il 47 per cento nel 2010 e il 52 per cento nel 2000.
La “ratio-traffici-Pil” è frequentemente usata in letteratura come indicatore dell’importanza che gli scambi internazionali hanno per l’economia di un paese. Spesso si utilizza il rapporto come indice di “apertura ai traffici”.
Per l’Italia il valore della “ratio-traffici-Pil” nel periodo 1996-2020 è passato dal 39 al 58 per cento in terminali reali (dal 43 al 55 per cento in termini nominali). Il rapporto tra trasporto via mare e traffico internazionale (cioè import + export) si è ridotto nel medesimo arco temporale passando dal 33 per cento del 1996 al 24 per cento del 2020. Il rapporto tra traffico marittimo internazionale e Pil è più stabile nel tempo, con valori compresi tra il 12 e il 16 per cento.
I porti nel Pnrr
Il trasporto marittimo è dunque una componente importante del commercio estero e, più in generale, dell’economia dell’Italia, sia che venga misurato in peso che in valore. Ciò nonostante, dopo la crisi economica mondiale del 2008, il suo andamento è peggiorato, così come ha fatto l’economia dell’Italia in generale.
A ciò si aggiunga lo shock causato dalla pandemia dovuta al Covid-19 che nel 2020 ha fatto crollare il Pil dell’Italia dell’8,9 per cento, il commercio estero dell’11 per cento e quello internazionale via mare del 15 per cento (-21 per cento in import e –9 per cento in export).
Le scelte compiute dal governo italiano nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza e delle risorse aggiuntive a esso correlate, di destinare 3,84 miliardi di euro per interventi riguardanti la portualità, a un primo sguardo potrebbero apparire congrue con l’importanza che il settore marittimo riveste nell’economia italiana.
Le risorse riguardano: a) l’aumento dell’accessibilità marittima e della capacità portuale per 1,7 miliardi di euro; b) l’elettrificazione delle banchine e l’efficientamento energetico per 1,1 miliardi; c) le infrastrutture per le Zes (zone economiche speciali) per 0,6 miliardi; d) altri interventi per 0,44 miliardi. A tali cifre si aggiungeranno anche altri finanziamenti precedentemente assegnati.
Tuttavia, diversi dubbi potrebbero sorgere se si considera l’efficacia degli interventi infrastrutturali nei porti italiani e nei collegamenti di “ultimo miglio”, effettuati a partire dal 1999 al costo di svariati miliardi di euro, finanziati tramite leggi speciali o capitoli specifici di leggi finanziarie, finanziamenti dedicati e co-finanziamenti Ue. Sull’efficacia degli investimenti portuali è intervenuta la Corte dei conti europea con un giudizio molto negativo. Nel periodo 2002-2018 le Autorità portuali italiane hanno messo a bilancio circa 9,2 miliardi di euro per investimenti, anche se non è dato sapere quanti di essi siano stati effettivamente spesi. Certamente però non hanno prodotto i risultati auspicati e dichiarati, che riguardavano il consistente aumento delle quantità di merce movimentate nei porti, l’accresciuta centralità del ruolo dell’Italia come porta di accesso da Sud all’Ue, l’incremento della componente internazionale dei traffici.
I più recenti interventi programmati suggeriscono dunque prudenza, a partire da una considerazione generale: sarebbe indispensabile terminare il periodo degli investimenti generalizzati (“a pioggia”), che hanno il solo risultato di duplicare l’offerta nei porti e di diminuire l’efficienza portuale e retro-portuale, contendendosi lo stesso mercato.
Le parole d’ordine per la portualità italiana per il futuro a breve o medio termine potrebbero quindi essere: pianificazione selettiva e continenza (nel senso di moderazione dei desiderata da parte delle Autorità di sistema portuale e della classe politica a loro collegata).
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Simonetta Zaccarini
L’articolo mi sembra che metta in luce un elemento sicuramente condivisibile e cioè la necessità di selezionare adeguatamente gli investimenti infrastrutturali. La cifra destinata ai porti, di per sè stessa, non è molto elevata, soprattutto se confrontata con quanto previsto per le ferrovie. Ma, a mio modesto avviso, è lo “spirito” con cui sono stati selezionati gli interventi del PNRR (a dire il vero a volte poco comprensibili) che riflette una visione salvifica del Piano stesso. E ciò senza la dovuta attenzione all’enorme debito pubblico che grava sull’Italia ma con la convinzione che l’aumento del PIL possa essere superiore (di poco o di tanto) alla crescita di tale debito.
A me preoccupano non solo le spese infrastrutturali ma anche altri tipi di spesa previsti dal PNRR, che hanno l’obiettivo di migliorare i livelli di servizio di determinati settori, ma che sono altresì destinate a generare ulteriori spese correnti di funzionamento. Però mi auguro vivamente di sbagliare!