Dopo un ping pong durato trent’anni, nel 2020 i due ministeri sono tornati a essere separati. Ma come funzionano meglio? E a quale dei due conviene maggiormente l’accorpamento? Senza dimenticare i costi di transizone e ritardi amministrativi.

Una storia tormentata

Lo spacchettamento dell’allora ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur) nel ministero dell’Istruzione (Mi) e in quello dell’Università e della Ricerca (Mur) introdotto dal governo Conte II nel gennaio del 2020 rappresenta l’ultimo episodio di una storia tormentata. Mentre il ministero dell’Istruzione è esistito sin dall’Unità d’Italia come uno dei più importanti, data la dimensione del corpo insegnante e per la funzione sociale svolta dalle scuole, un ministero per l’Università e la Ricerca è stato istituito molto più di recente, nel 1989, per essere poi velocemente accorpato a quello dell’Istruzione con la creazione, nel 1999, del Murst (ministero della Pubblica Istruzione, Università, Ricerca Scientifica e Tecnologica), successivamente ribattezzato appunto Miur nel 2001. Ridivisi nel 2006, i due ministeri sono stati poi riunificati nel 2008 e infine – come detto -nuovamente separati nel 2020.

Viene quindi da domandarsi quali fattori sottostiano a queste oscillazioni, quali potenzialità si sia provato a cogliere e quali siano stati i fallimenti cui rimediare. La nostra sarà di necessità un’analisi indiziaria, non essendo a nostra conoscenza disponibili studi e analisi sul tema.

Le criticità…

Innanzitutto creare/sopprimere un ministero aggiunge/toglie una poltrona nel governo e nei governi di coalizione che si sono succeduti nella storia repubblicana le cariche di questo tipo hanno rappresentato una risorsa più volte sfruttata per riconoscere un ruolo ai partiti minori. Per contro, un ministero come quello dell’Università richiede un portafoglio, e quindi la logica delle riforme di fine anni ’90 (tra cui il Dl 30/7/1999 n.300 “Riforma dell’organizzazione del governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59”) è stata quella di porre un tetto al numero dei ministeri esistenti per poter meglio governare la spesa pubblica e beneficiare di economie di scala nell’esercizio dell’attività amministrativa.

Il problema è però che la creazione/soppressione di un ministero ha dei costi di transizione non trascurabili, perché un neo-ministero (sia che esso nasca dall’accorpamento di ministeri preesistenti sia che nasca per separazione dal precedente) richiede l’approvazione di un regolamento organizzativo, che a propria volta definisce l’organigramma e di conseguenza le posizioni apicali disponibili. Di per se stesso il turnover delle posizioni apicali non è un principio organizzativo sbagliato, perché evita il consolidamento di posizioni di potere, che possono ostacolare l’esercizio della funzione di indirizzo del politico.

Tuttavia, un conto è se l’esercizio dello spoil system avviene a cadenze certe e prevedibili (ogni 4 anni al cambio di governo, secondo lo spirito originario della riforma), con la dirigenza dotata di un intervallo di tempo congruo per dimostrare le proprie capacità per poi essere eventualmente rimossa al termine del mandato per inadeguatezza; un altro è invece se ciò accade in modo erratico e imprevedibile, creando un clima di incertezza che induce i dirigenti ad investire tempo e risorse relazionali per assicurarsi la prosecuzione del proprio mandato. Il processo poi si riversa a cascata sull’intera struttura sottostante, dal momento che a ogni cambio di dirigente si accompagna la possibilità di revisione delle posizioni organizzative e delle relative indennità.

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Tutti coloro che si sono stati coinvolti nella riorganizzazione di un ministero non avranno difficoltà a concordare con l’affermazione che una riorganizzazione ministeriale comporta la paralisi dell’attività ordinaria per un periodo di almeno un anno, a causa del fatto che il riassetto organizzativo porta frequentemente con sé il ridisegno delle procedure, derivante dalla redistribuzione delle responsabilità amministrative.

…e i vantaggi

Ma ci sono per fortuna anche dei vantaggi. Chi ha frequentato sia Istruzione (viale Trastevere) sia Università (via Carcani) si è reso sicuramente conto che la cultura organizzativa dei due ministeri (o delle due divisioni dello stesso) è completamente diversa, non fosse altro per le dimensioni da gestire: più di un milione di persone (tra insegnanti e personale tecnico-amministrativo) l’organico dell’Istruzione, gestito con le procedure centralizzate dei concorsi nazionali; poco meno di 100mila persone (tra professori, ricercatori e personale non docente) l’organico del settore universitario, con autonomia di reclutamento e di determinazione dell’organico sulla base dei budget disponibili.

Una missione centrale (la copertura dei contenuti indicati nelle linee guida ministeriali) per il primo, una missione tripartita (ricerca, didattica, trasferimento tecnologico e public engagement) per il secondo. Un finanziamento prevalentemente a pioggia (sostanzialmente per studente, via assegnazione del personale) delle autonomie scolastiche contro un finanziamento premiale per la ricerca e per le carriere degli studenti delle autonomie universitarie. Una rete territoriale (direzioni regionali e provveditorati) per l’attuazione del governo per il primo, una relazione diretta tra rettori e direttori ministeriali nel caso del secondo. Date queste specificità la separazione dei due ministeri può rappresentare una scelta razionale.

È inoltre evidente che l’incorporazione del dipartimento Università e Ricerca nel ministero dell’Istruzione si rivela un abbraccio mortale, quando si va a discutere di ripartizione del bilancio. Nonostante l’azione di indirizzo delle diverse leggi di bilancio (che definiscono entità del Fondo di finanziamento ordinario per il comparto universitario), l’Università italiana è stata costantemente sottofinanziata, a beneficio del comparto Istruzione. Ne sono riprova i dati aggregati: prendendo l’ultima edizione di Education at a Glance 2020 (tavola C1.1), il nostro paese spende mediamente 9.160 dollari (convertiti in parità di poteri d’acquisto) per uno studente della primaria, 10.574 per uno studente della secondaria e 12.226 per uno studente nell’istruzione terziaria (dati al 2017); i corrispondenti valori per l’area Ue sono 9.269, 10.786 e 16.688 dollari. È quindi evidente che il gap di investimento nelle risorse investite penalizza nettamente il settore dell’università e della ricerca (per non parlare di Afam, l’alta formazione artistica e musicale e/o l’istruzione post-secondaria non universitaria, che è rimasta di competenza del Ministero dell’Istruzione).

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Luci e ombre

Ci sono quindi luci e ombre nelle alterne vicende ministeriali relative all’istruzione. Da un lato una gestione separata permette un miglior adattamento alle specificità dei due sistemi, permettendo all’Università una maggior flessibilità e velocità nella risposta. In prospettiva, la stessa separazione dei destini potrebbe permettere, in circostanze straordinarie come il Pnrr, al Mur di recuperare terreno finanziariamente rispetto al Mi. Dall’altro lato, una gestione coordinata sotto un unico ministero permetterebbe una più razionale gestione delle risorse (basti pensare che fino a poco tempo fa le banche dati dei due ministeri erano gestite da due fornitori distinti, e le stesse non erano comunicanti tra loro) e forse una maggior capacità di pressione congiunta sui tavoli ministeriali. Non ultimo, date le caratteristiche del processo formativo e le forti interconnessioni tra le problematiche affrontate dal mondo della scuola e quello dell’università, un unico ministero può essere più adatto a perseguire una strategia unitaria.

Ci sentiamo di affermare che fino ad oggi i vantaggi della separazione non sembrano essersi manifestati, mentre sono tangibili i ritardi amministrativi connessi alla stessa (certamente in concomitanza con la pandemia da Covid-19). Ci auguriamo che nei prossimi mesi/anni il ministero dell’Università e della Ricerca ottenga finanziamenti più consistenti, che gli permettano una risposta più tempestiva e mirata ai diversificati bisogni territoriali di istruzione terziaria.

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