Nel suo lungo cancellierato, Merkel ha preso decisioni importanti, che hanno segnato il corso dell’integrazione europea. Progressivamente si sono spostate verso l’interesse dell’Unione. Il risultato di una evoluzione dell’intero sistema politico tedesco?
Gli episodi emblematici
Narra la leggenda che, nel giugno 2012, alla vigilia di un importante Consiglio europeo con all’ordine del giorno il tema della creazione dell’Unione bancaria, la cancelliera Angela Merkel incontrando a Berlino alcuni suoi parlamentari avrebbe assicurato loro che non ci sarebbe mai stata la mutualizzazione del debito in Europa “almeno finché vivo”. E che i parlamentari avrebbero prontamente risposto augurandole una lunga vita. Per la cronaca, quel Consiglio europeo approvò la possibilità per il Meccanismo europeo di stabilità di ricapitalizzare direttamente le banche in difficoltà, ma di debito comune europeo non si parlò più.
Non è dato sapere se la cancelliera intendesse dire “finché vivo politicamente”, o se invece, da persona intelligente e non affezionata alle proprie idee, si è poi semplicemente convinta che le circostanze siano cambiate. Fatto sta che l’Europa dal luglio di quest’anno ha iniziato a emettere titoli comuni di debito, per un valore che già a dicembre arriverà a circa 80 miliardi di euro, fino a coprire i 750 miliardi di euro del programma Next Generation EU (Ngeu) da erogare da qui al 2026.
Indubbiamente, la decisione di aprire politicamente al programma Ngeu, con le due storiche disposizioni di usare il debito comune europeo come forma di finanziamento, e di prevedere esplicitamente trasferimenti (sia pur temporanei) di risorse tra stati membri per far fronte ai problemi congiunturali (dunque non strutturali) indotti dalla pandemia, rappresenta il “gioiello della corona” nei sedici anni di cancellierato di Angela Merkel, un percorso costellato da luci e ombre rispetto ai temi dell’integrazione europea.
Un’altra fondamentale, e per certi versi meno nota, decisione venne presa durante la crisi russo-ucraina. Nel febbraio 2015 la cancelliera volò in quattro giorni tra Mosca, Washington, Ottawa, Berlino, Kiev e Minsk per negoziare gli accordi di pace con il presidente Putin, direttamente in russo, lingua che parla fluentemente. Gli accordi, oltre al cessate il fuoco sul terreno, prevedevano da un lato il mantenimento delle sanzioni europee alla Russia (cosa alla quale la cancelliera si è sempre rigorosamente attenuta, nonostante le pressioni del suo sistema industriale), ma anche il non coinvolgimento dei paesi occidentali nel finanziamento dell’esercito ucraino (nonostante il Pentagono fosse di avviso diverso), tema che avrebbe potuto creare una pericolosissima escalation militare con la Russia, alle porte dei confini europei.
In entrambe le occasioni la cancelliera superò quello che i suoi critici considerano un suo limite politico, ossia l’eccessiva tendenza a procrastinare le decisioni e a prendere posizione (su parte della stampa anglosassone durante la crisi Merkel era nota con il nomignolo “the procrastinator”), e l’Europa ne ebbe un grande beneficio.
In due altre occasioni la sua determinazione portò a prese di posizione importanti, ma nell’interesse tedesco, non necessariamente continentale. Quando decise nel 2011, dopo l’episodio della centrale di Fukushima in Giappone, di abbandonare il nucleare in Germania, obbligando il paese (e dunque l’Europa) a legarsi a doppio filo al gas russo tramite il gasdotto Nord Stream. E quando, di nuovo unilateralmente, nel 2015 aprì le porte della Germania a un milione di profughi siriani, cui venne concesso asilo, senza che, tuttavia, la decisione venisse accompagnata da una risoluzione nell’annosa vicenda della politica comune di immigrazione europea. Anzi, a partire da quella decisione gli stati della frontiera sud dell’Europa, a cominciare dall’Italia, vennero lasciati sostanzialmente a sé stessi nella gestione dei crescenti flussi migratori, almeno fino al cambio di orientamento progressivamente determinatosi nel 2020 con il Nuovo patto sulla migrazione e sull’asilo, che ha avviato il processo di riforma del regolamento di Dublino.
Decisamente negativa fu invece la gestione della crisi finanziaria: il continuo rinvio di soluzioni strutturali a livello di Unione europea indebolì progressivamente la fiducia nei mercati sulla tenuta della moneta unica, fino alla sciagurata decisione, nel corso del vertice franco-tedesco di Deauville, nell’ottobre 2010, di non assumersi in toto le responsabilità statali per i programmi di salvataggio degli Stati membri, una sorta di anti “Hamilton moment” per l’Ue, che di fatto precipitò la crisi del debito nel Vecchio Continente.
Un percorso personale o dell’intero sistema?
Analizzando a ritroso questa piccola cronistoria, dunque, si può notare come la salienza delle decisioni prese dalla Merkel nell’interesse dell’Unione sia aumentata nel tempo, virando in positivo. La speranza è che questo sia il risultato della evoluzione di un processo non solo personale, ma anche del sistema politico tedesco. Mai come oggi, infatti, l’Unione europea ha bisogno di sviluppare una “autonomia strategica” su temi cruciali, sia geopolitici che economici, perché diversi iniziano a essere i suoi interessi rispetto al tradizionale alleato americano, anche in ragione della Brexit.
Più alta sarà la consapevolezza della nuova domanda di autonomi beni pubblici europei da parte del sistema politico che raccoglierà l’eredita della cancelliera, migliori le prospettive dell’Europa nella “nuova normalità” post-pandemica. E post-merkeliana.
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