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Il multilateralismo che funziona

A più di due mesi dal termine del G20 di Roma, si possono cominciare a valutare i risultati conseguiti, con uno sguardo specifico a ciò che si era discusso in passato e a quello che ci aspetta in futuro. Gli accordi raggiunti, in particolare in ambito fiscale, sembrano dimostrare che il multilateralismo possa ancora dire la sua.

A due mesi di distanza dal vertice del G20, svoltosi a Roma il 30 e 31 ottobre, è più facile comprendere se si sia trattato di un successo. Bisogna, infatti, tenere conto che i vertici globali non vanno monitorati come isolati gli uni dagli altri, bensì come tappe nel corso di processi né brevi, né lineari. È importante, quindi, sia volgere lo sguardo all’indietro, sia considerare gli sviluppi più recenti.

I temi in agenda a Roma erano assai diversi: dal supporto ai paesi più colpiti dalla pandemia alla ripresa dell’economia globale, dalla sicurezza alimentare alla protezione dell’ambiente. Anche il saldo netto dei risultati conseguiti è differenziato. Mentre sul versante dell’accesso delle donne agli impieghi è stato solo ribadito l’impegno a promuovere l’uguaglianza, sul versante sanitario, il G20 ha fissato due obiettivi intermedi – la vaccinazione del 40% della popolazione mondiale entro la fine di quest’anno e del 70% entro la metà dell’anno prossimo – e ha preso posizione contro il protezionismo riguardante i prodotti sanitari.

Su un ulteriore versante, la tassazione internazionale delle imprese multinazionali, è stato raggiunto un risultato di grande rilievo. Che le imprese potessero pagare le imposte nel paese dove avevano la sede legale, con aliquote bassissime era intollerabile dal punto di vista dell’equità fiscale e della giustizia. Tuttavia, il precedente vertice del G-20, svoltosi in Arabia Saudita il 21 novembre del 2021, non aveva dato i risultati sperati: il comunicato finale si era limitato a enunciare la volontà dei leader politici di “continuare la loro cooperazione per un sistema internazionale di tassazione moderno, sostenibile e giusto a livello globale”, nonché a chiedere all’Ocse di promuovere la risoluzione delle questioni rimaste insolute. Proprio all’interno del ‘quadro inclusivo Ocse-G20’, ben 136 paesi su 140 (rappresentativi di circa il 90 del Pil mondiale) hanno raggiunto un’intesa sulla minimum tax, ossia su un’imposta del 15 per cento dei profitti realizzati nel luogo dove le attività commerciali si svolgono, anziché in quello dove le imprese hanno la propria sede legale. L’intesa è stata confermata dal G20 a Roma.

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Tre fattori sono alla base del successo ottenuto. Il primo è l’esistenza di interessi comuni: quasi tutti i paesi avrebbero tratto vantaggi dal passaggio alla tassazione dei profitti conseguiti dalle imprese sul proprio territorio, e quelli che si erano a lungo opposti hanno finito per accettarla, in cambio di alcune condizioni. Per esempio, l’Irlanda ha ottenuto che il prelievo sia fissato al 15 per cento, anziché “almeno al 15 per cento”, com’era stato proposto all’inizio. Ciò dimostra che l’accordo è convenuto a tutti. Il secondo fattore è la condivisione di parametri tecnici chiari, che consentono di confrontare le posizioni dei vari governi e, dopo l’accordo, di controllarne la condotta. Il terzo fattore è il consenso politico, che era mancato un anno prima. Probabilmente, è stato determinante il cambiamento di linea effettuato da Biden rispetto alle scelte di Trump, che aveva contrastato il multilateralismo in campo ambientale ed economico. Allo stesso modo, il consenso raggiunto all’interno dell’Ue rappresenta la condizione indispensabile per ulteriori passi in avanti. Così, nei giorni scorsi la Commissione ha perfezionato la proposta di direttiva volta ad assicurare che un’aliquota minima del 15 per cento sia imposta sulle imprese che hanno la società madre o una filiale nell’Ue aventi un fatturato annuo superiore a 750 milioni di euro.

L’analisi di questa specifica vicenda offre alcuni spunti – che vanno sottoposti a ulteriori, adeguate verifiche – per una migliore comprensione di quanto sta accadendo in altri ambiti. Innanzitutto, non è infondata una interpretazione degli eventi rilevanti sul piano globale più articolata, non strettamente legata al singolo vertice. In secondo luogo, è determinante il consolidarsi di una visione incentrata sugli interessi comuni, che è più facile in alcuni ambiti rispetto ad altri (per esempio, il controllo degli armamenti convenzionali). Infine, conta moltissimo il metodo – graduale – per comporre i diversi interessi e punti di vista: muoversi in questo modo è essenziale, più importante dello specifico risultato conseguito, con buona pace dei massimalisti.

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I vizi dell’obbligo vaccinale e le virtù delle terze dosi

  1. MIchael Lange

    Alcuni punti dell’articolo non mi sembrano condivisibili e meritano un approfondimento.
    L’idea che ora le “imprese possano pagare le imposte nel paese dove [hanno] la sede legale” è una semplificazione fuorviante: meno sbagliato sarebbe un riferimento al concetto di “tax residence”, che viene declinato in modo diverso nei diversi ordinamenti. Peraltro un esame di questi concetti non può prescindere dallo studio dell’art. 4 della OECD Model Tax Convention relativo, appunto, al concetto di residenza.
    Non si passerà (almeno nell’UE) da un sistema in cui le imposte si pagano nel paese in cui la società ha la sede legale a uno in cui le imposte si pagano nel paese in cui “le attività commerciali si svolgono”.
    Semmai si passerà da un sistema in cui le imposte di pagano nel paese in cui si trova il “place of effective management” a uno in cui le imposte (in realtà soltanto in piccola parte) sono pagate nel paese “where the customers and users are located”.
    Si tratta di concetti molto diversi e comunque questa discussione riguarda il c.d. “Pillar 1” e non il “Pillar 2” che è quello relativo alla minimum tax (https://www.oecd.org/tax/beps/brochure-two-pillar-solution-to-address-the-tax-challenges-arising-from-the-digitalisation-of-the-economy-october-2021.pdf).
    La minimum tax del Pillar 2 riguarda infatti la creazione di un’imposta minima del 15%. Tuttavia questa imposta non sarà pagata nel paese in cui “customers and users are located”, ma, salvo elusioni, come oggi nel paese in cui la società ha la sua tax residence. Ovvero, Amazon e Google pagheranno la minimum tax negli Stati Uniti.
    Quella che si pagherà nel paese in cui “customers and users are located” è l’imposta del “Pillar 1”, e sarà poca roba, dal momento che la base imponibile sarà soltanto il 25% del c.d. residual profit, ovvero “the profit in excess of 10% of revenue”.
    Ad esempio, se la società X ha un giro di affari di 10.000 e ha utili per 1.500, la base imponibile sarà il 25% di 500, ovvero 125. Se questa base imponibile fosse tassata al 20% l’imposta sarebbe soltanto di 25.
    E’ questo il multilateralismo che funziona? Forse per gli Stati Uniti, per noi non so.

  2. Emilio Frasson

    Non avevo capito, anzi meglio: non sapevo. Si dimostra che leggere La Voce.Info è utile.

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