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Dall’Afghanistan all’Ucraina: investire nel futuro con l’integrazione

I cittadini ucraini scappano dalla guerra. L’Unione europea è pronta ad accoglierli? La risposta alla crisi dei profughi afgani fa sorgere qualche dubbio. L’Europa deve investire di più nell’accoglienza e in politiche di asilo comuni.

Le crisi umanitarie dal 2015 a oggi

La guerra in Ucraina riporta drammaticamente l’Unione europea e gli stati membri a fare i conti con una emergenza umanitaria che arriva fino al cuore dell’Europa, con l’esodo forzato di milioni di profughi e sfollati che si muovono in massa verso i paesi più vicini. Già più di due milioni di ucraini sono arrivati soprattutto in Polonia, Ungheria, Romania e Moldavia, paesi notoriamente contrari all’immigrazione, ma che in questo caso hanno tenuto i confini aperti.

Quella di oggi richiama alla memoria le precedenti crisi di rifugiati vissute in Europa, in particolare le due più recenti: quella del 2015, dovuta al conflitto siriano, e quella dell’anno scorso, con il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan.

Nel 2015 l’Ue era stata presa “alla sprovvista” dall’arrivo di un milione di rifugiati in un anno, ma con la crisi afghana l’Europa non ha di fatto evitato che si ripetesse lo stesso scenario. In tema di ‘esternalizzazione’ e difesa dei confini, Ylva Johansson, commissaria per gli Affari interni dell’Ue, alla fine dell’estate 2021 dichiarava che l’obiettivo era quello di prevenire l’arrivo dei flussi fino ai confini dell’Europa rafforzando i rapporti con i paesi terzi, e così è stato. In termini di politiche interne, invece, i paesi europei si dimostrano ancora poco attrezzati per gestire adeguatamente l’accoglienza dei rifugiati.

L’accoglienza dei profughi Afgani

In Francia, i cittadini afgani giunti la scorsa estate sono stati accolti in modo diverso a seconda della rotta che hanno percorso: mentre i circa 2600 afgani arrivati tramite le operazioni di salvataggio hanno ricevuto subito un alloggio e le loro richieste di asilo sono state accelerate, quelli che sono arrivati via terra fanno fatica a trovare un luogo adeguato dove vivere, anche solo temporaneamente. Il presidente Macron ha dichiarato che bisogna proteggere le persone più a rischio, ma al tempo stesso, tra Natale e i primi dieci giorni di gennaio, la polizia francese ha eseguito circa 150 sfratti nella zona di Calais, e la lista di luoghi dove è vietato distribuire cibo e vestiti si è allungata.

A inizio febbraio, i rifugiati afgani alloggiati negli alberghi inglesi hanno ricevuto una lettera dal Ministero degli Interni che annunciava il blocco della fornitura di carta igienica e medicinali. Secondo Priti Patel, Ministro degli Interni, il paese non ha le infrastrutture sufficienti per garantire sistemazioni adeguate e permanenti per gli afgani.

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L’Italia non è da meno. Secondo i dati raccolti dal Post, quasi l’80 per cento degli afgani che sono stati portati nel nostro paese tramite il ponte aereo sono ancora ospitati nei centri straordinari (Cas), inizialmente concepiti come sistema di accoglienza di emergenza, poi diventati la norma. I Cas, a differenza delle strutture che fanno parte della rete Sai (Sistema accoglienza integrazione), sono attrezzati con il minimo necessario per la sussistenza dei propri ospiti, e non garantiscono i servizi fondamentali per avviare un percorso di integrazione. Nonostante gli sforzi iniziali e l’elevato numero di persone portate in salvo ad agosto, quindi, anche il nostro sistema di accoglienza si sta rivelando insufficiente.

Inoltre, la lentezza del sistema burocratico italiano mette in pericolo chi non è ancora riuscito ad arrivare. Un caso eclatante è quello delle donne afgane, assistite dalle organizzazioni Pangea e Nove onlus, bloccate in Pakistan in attesa di un visto per l’Italia che potrebbe non arrivare prima che vengano rimpatriate, per via dei tempi richiesti dai controlli di sicurezza. Le procedure per i ricongiungimenti familiari, poi, sono quasi ferme, mentre a più di metà dei migranti arrivati in aereo è stato riconosciuto lo status di rifugiati.

In Germania, paese che accoglie la più grande comunità afgana in Europa, sembra che la situazione sia stata affrontata lievemente meglio: a dicembre, il governo ha promesso di ospitare 25 mila cittadini dell’Afghanistan a rischio, contro i 3.100 promessi dai Paesi Bassi, i 2.500 di Francia e Spagna. A inizio gennaio il Ministro dell’Interno Nancy Faeser ha poi annunciato che ai richiedenti asilo dall’Afghanistan sarà permesso di seguire corsi di lingua e di integrazione anche prima di una decisione sulle loro domande di asilo, e che ci sono buone probabilità che possano rimanere nel paese.

Diritti e sviluppo globale

Per quanto la comunità internazionale si sia impegnata molto l’estate scorsa per salvare il maggior numero di persone possibile, non sembra ci sia un grande impegno, ora, per proteggere chi è stato lasciato indietro. Le persone che sono state soccorse per prime sono principalmente quelle con un livello di istruzione e competenze che gli ha permesso di avere i contatti necessari per poter uscire dal paese, quelle che sarebbero state più a rischio sotto il governo dei talebani: per esempio, la maggior parte dei quasi 1900 afgani salvati dalla Spagna a fine agosto avevano lavorato con i paesi europei. La popolazione che è rimasta in Afghanistan, però, versa in condizioni gravissime, sia per le violenze dei talebani, che per la crisi economica in cui è sprofondato il paese.

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Le continue e ripetute violazioni dei diritti umani da parte del governo talebano in questi mesi sono state condannate dall’Europa e dalle Nazioni Unite, e hanno portato all’imposizione di pesanti sanzioni nei confronti dell’Afghanistan. Gli aiuti e i prestiti internazionali sono stati bloccati e le riserve internazionali del paese congelate. L’obiettivo è quello di impedire il finanziamento del governo Talebano, ma allo stesso tempo le sanzioni stanno portando a una delle più gravi crisi economiche e finanziarie nella storia del paese: gli aiuti internazionali rappresentavano il 40 per cento del Pil dell’Afghanistan. Oggi più della metà della popolazione afghana è in condizione di povertà estrema, che si traduce in alti tassi di malnutrizione, malattie e mortalità soprattutto infantile. Ad aggravare la drammatica crisi economica e umanitaria contribuisce l’assenza dei diritti umani e civili, che colpisce soprattutto le donne, alle quali è vietata l’istruzione secondaria (oltre alla libertà di espressione e di spostamento), ovvero la negazione di una qualsiasi crescita futura.

Al di là del riconoscimento da parte delle autorità europee delle condizioni tragiche in cui si trova la popolazione afgana in questo momento, ci deve essere un maggiore impegno per salvaguardarne i diritti e la sicurezza, anche e soprattutto investendo nell’accoglienza e in politiche di asilo comuni. Per sconfiggere la logica della guerra, dei conflitti e delle sanzioni (tutte cose che colpiscono le persone, prima di tutto), l’Europa deve mettere al centro della sua agenda misure strutturali di politica sociale che favoriscano l’integrazione, la valorizzazione delle diversità e la coesione sociale. Nel caso dei profughi dall’Ucraina, l’Europa ha deciso di applicare la direttiva 55 del 2001 (protezione automatica per tre anni), ma politiche di buona accoglienza per tutti i richiedenti asilo non rispondono solo a un’emergenza umanitaria, bensì favoriscono lo sviluppo economico e umano sia dei paesi di origine che di quelli di destinazione.

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Benefici per tutti se le donne scelgono con chi lavorare

  1. Stefano La Porta

    Un’osservazione sul DL n. 21 del 21 marzo 2022 e in particolare sull’art. 34 che prevede la possibilità di assumere medici ucraini in deroga alle norme vigenti. Bene la solidarietà.
    E’ possibile però che, se mal gestita, la novità potrà avere effetti nocivi sul costo del lavoro che non dovrebbero essere lo spirito della norma: assumere un medico ucraino con i contratti previsti dal decreto (incarichi libero professionali o co.co.co) vuol dire assumerli a partita iva o di fatto a retribuzioni inferiori a quelle previste dai contratti tradizionali. Nella complessità del mercato del lavoro italiano questa è una concorrenza al ribasso perché è presumibile che i medici ucraini, in mancanza di altro, accetteranno. Come conseguenza, i sanitari italiani dovranno fare i conti sempre più con questa concorrenza sulla precarietà spesso abbinata ad una retribuzione inferiore. Le teorie economiche ci dicono che in un mercato del lavoro caratterizzato da alta disoccupazione la compressione dei salari è molto probabile. A onor del vero non sappiamo oggi quanti medici ucraini verranno in Italia (per fare concorrenza occorre che siano in numero rilevante) ma questo decreto, pur nelle buone intenzioni, rischia di comprimere nel tempo il livello retributivo oggi esistente.

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