Sia la Bce sia la Fed proseguono sulla strada di una politica meno espansiva, nonostante la guerra in corso. Ma le ragioni della “normalizzazione” sembrano meno solide nell’Eurozona che negli Usa.
La guerra in Ucraina non sembra spostare di una virgola la linea, intrapresa da diverse banche centrali, di “normalizzazione” della politica monetaria, dopo le misure eccezionalmente espansive prese nei due anni scorsi in risposta alla crisi pandemica. La vigorosa ripresa dell’inflazione ha posto le banche centrali di fronte ad un dilemma. Da un lato, la necessità di evitare che la crescita dei prezzi venisse incorporata nelle aspettative, dando luogo ad una spirale prezzi-salari. Dall’altro, evitare una stretta monetaria poco giustificabile, in una fase in cui l’inflazione è largamente importata e dovuta all’aumento del costo dell’energia e delle materie prime: il classico shock da offerta che provoca allo stesso tempo maggiore inflazione e minore crescita (stagflation). La prima motivazione sembra avere prevalso sulla seconda, almeno a giudicare dalla politica di comunicazione (forward guidance) adottata di recente dalla Banca centrale europea e dalla Federal Reserve Bank statunitense. Il ritorno a una politica monetaria meno espansiva sembra più giustificato negli Usa che nell’Eurozona. L’economia statunitense è più vicina al pieno impiego ed è più esposta al rischio di una spirale inflazionistica. Al contrario, quella europea è più esposta al rischio di stagflazione.
La Bce accelera l’uscita dal QE
Al termine della sua riunione del 10 marzo, il Consiglio direttivo della Bce ha annunciato una accelerazione del ritmo con cui il programma di acquisto di titoli Asset Purchase Programme (App) verrà portato a termine nei prossimi mesi. Come si vede nella figura qui sotto, la riduzione degli acquisti netti sarà più marcata rispetto a quanto annunciato nella riunione precedente del Consiglio: nello scenario di base, il programma App verrà terminato nel corso dell’estate anziché verso la fine dell’anno. Come noto, l’altro programma di acquisto di titoli (Pandemic Emergency Purchase Programme – Pepp) giunge al termine nel corrente mese di marzo. La forward guidance sulla politica di rinnovo dei titoli in portafoglio è rimasta invariata: i titoli acquistati con il Pepp verranno rinnovati almeno fino alle fine del 2024, quelli acquistati con l’App verranno rinnovati “per un lungo periodo di tempo” successivo all’aumento dei tassi di policy.
Anche la forward guidance sui tassi di interesse non è sostanzialmente cambiata. È vero che in precedenza si prevedeva che l’aumento dei tassi di policy sarebbe avvenuto subito dopo la fine degli acquisti netti effettuati con l’App, mentre ora esso è collocato un certo periodo (“some time after”, quantificato in qualche settimana o mese dalla Presidente Largarde) dopo la fine dell’App. Ma è anche vero che la fine dell’App è stata anticipata, come abbiamo appena visto. Quindi non è affatto detto che la stretta sui tassi sia rinviata (contrariamente a quanto sostenuto in diversi commenti). È vero invece che la forward guidance sulla politica di tasso è divenuta più ambigua.
Nel complesso, la strategia di uscita della Bce dal quantitative easing appare più aggressiva dal 10 marzo. I mercati finanziari hanno immediatamente preso atto di questa maggiore aggressività: nello stesso giorno, il rendimento del Btp decennale è aumentato di un quarto di punto percentuale (da 1,67 per cento a 1,91 per cento), portando lo spread con il Bund tedesco da 148 a 163 punti base. È evidente che i partecipanti al mercato hanno letto nel comunicato del Consiglio la prevalenza dei “falchi”, preoccupati di “perdere il controllo sull’inflazione”, sulle “colombe”, preoccupate di infliggere una stretta monetaria prematura ad una economia europea colpita da un shock recessivo oltreché inflazionistico.
La Fed prosegue la sua exit strategy
Nel suo discorso del 2 marzo al Congresso, il Presidente della Fed Jerome Powell ha confermato la strategia di uscita dalla politica ultra-espansiva degli ultimi anni, secondo le fasi già note e sperimentate in passato. Dopo la fine degli acquisti netti di attività finanziarie, questa settimana la Fed aumenta i suoi tassi di policy: la “forchetta” che indica l’obiettivo sul tasso interbancario (Federal funds target range). Solo dopo avrà inizio la fase di riduzione della dimensione del bilancio della banca centrale, attraverso un graduale aggiustamento dei rinnovi dei titoli in scadenza, in cui è prevista una più rapida riduzione del portafoglio di titoli privati (mortgage-backed securities) rispetto a quelli del debito pubblico.
Questa svolta nella politica monetaria statunitense corrisponde alle attese dei mercati finanziari. La normalizzazione della politica monetaria americana non può più essere rinviata, in presenza di un tasso di inflazione che sfiora l’8 per cento e di una economia che viaggia a ritmi da piena occupazione: crescita del 5,5 per cento del PIL e tasso di disoccupazione al 4 per cento, con salari che crescono a ritmi che non si vedevano da anni (“wages are rising at their fastest pace in many years”, secondo le parole dello stesso Powell). Il rischio di “perdere il controllo” del processo inflazionistico e delle aspettative appare reale. Inoltre, l’economia americana è assai meno esposta di quella europea allo shock da offerta proveniente dalla invasione dell’Ucraina, essendo molto meno dipendente dall’importazione di energia (gas e petrolio) dalla Russia.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Savino
Mi pare inevitabile questo atteggiamento della FED e, a ruota, della BCE in presenza di una incontrollabile impennata inflattiva (in Italia ed Europa galoppante al 5%, con prospettiva fino all’8%, negli USA già stimata al 7%) e della stentata crescita; i prezzi crescono, si spera i salari pure, quindi cresce anche il costo del danaro. Semmai ciò che manca sono i meccanismi negli Stati di controllo dei prezzi e di riallineamento salariale. In Italia, se avessimo avuto ancora la scala mobile, nonchè delle Autority con concreto potere regolatorio del mercato per il ripristino concorrenziale avremmo sicuramente attutito le sofferenze.