L’accordo con il Fmi per la ristrutturazione del debito è una buona notizia per l’Argentina, che però difficilmente riuscirà a mantenere gli impegni presi. Pesano la cronicità dei problemi, le resistenze politiche e anche il contesto internazionale.

Le difficoltà degli ultimi anni

L’accordo per la ristrutturazione del debito dell’Argentina con il Fondo monetario internazionale rappresenta una buona notizia per il paese, ma difficilmente Buenos Aires riuscirà a mantenere fede agli impegni. La cronicità dei problemi del paese, le resistenze politiche e l’evoluzione del contesto internazionale rendono fragile l’accordo.

Il debito con il Fmi era stato sottoscritto dal presidente Mauricio Macri. Arrivato al governo nel 2015, scelse di consolidare gradualmente la spesa pubblica e, nel frattempo, di finanziare il deficit sui mercati internazionali e non attraverso il mercato interno e l’emissione monetaria. Nel 2016 l’Argentina tornava a emettere debito sui mercati internazionali per la prima volta dal 2001. Nel 2018 la difficoltà nel limitare la spesa e una crisi di fiducia dei mercati obbligarono l’Argentina a chiedere un aiuto finanziario al Fondo. In poco più di un mese, il Fmi, guidato dall’allora direttrice Christine Lagarde, concesse un prestito di 50 miliardi di dollari, il più grande mai concesso dall’istituto. Dei 50 miliardi, rinegoziati poi a 57, solo 45 vennero sborsati.

L’ampio sostegno finanziario del Fondo mirava a ripristinare la fiducia dei mercati, accompagnare le riforme strutturali e spingere il governo argentino ad arrivare al saldo primario zero nel 2019 (dal 4,2 per cento del 2017) e a un tasso di inflazione a una cifra sola nei tre anni successivi (dal 24,8 per cento del 2017).

L’accordo si basava però su previsioni economiche ottimistiche, non considerava la struttura del debito preesistente e sottovalutava l’incertezza politica. Nel giro di poco più di un anno tre eventi sancirono il fallimento del programma.

Prima la siccità del 2018, considerata la peggiore degli ultimi cinquanta anni, causò una caduta della produzione agricola del 32 per cento e, di conseguenza, una diminuzione del Pil del 2,5 per cento e delle esportazioni dell’8 per cento. Le minori entrate di divise estere misero sotto pressione il peso argentino. In più, nonostante il prestito ricevuto dal Fmi, l’Argentina si finanziava ancora in parte sui mercati e rinnovava il proprio debito (rollover) a tassi di interessi più alti.

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Nell’agosto 2019, il candidato dell’opposizione Alberto Fernández vinse con un margine sorprendentemente ampio le elezioni primarie nazionali. Da quel momento il mercato ritenne più che probabile un ritorno al governo dei peronisti e dell’ex presidente Cristina Kirchner, candidata alla presidenza come vice di Fernández. Il peso argentino si svalutò, l’Argentina perse l’accesso ai mercati internazionali e il governo fu costretto a reintrodurre controlli di capitale e un tasso di cambio fisso.

Il paese che Fernandez ereditava a fine 2019 aveva un debito pubblico al 90 per cento del Pil, un saldo primario in linea con gli impegni con il Fondo (0,4 per cento del Pil), ma un’inflazione al 53,8 per cento. Durante la pandemia, l’economia si è prima contratta del 9,9 per cento nel 2020 per poi tornare a crescere del 10,3 per cento nel 2021, trainata soprattutto rialzi dei prezzi delle materie prime agricole (soia, grano e mais) di cui l’Argentina è tra i principali esportatori mondiali.

L’attività economica è tornata così ai livelli pre-pandemia, mentre il debito pubblico è stato finanziato attraverso la monetizzazione del deficit. Il deficit fiscale del 2020 (8,6 per cento) è stato assorbito principalmente dalla banca centrale e il finanziamento monetario è arrivato al 7,4 per cento del Pil. Nel frattempo, nel 2020 il governo ha raggiunto l’accordo per la ristrutturazione del debito di 66 miliardi di dollari dovuti a creditori privati. Adesso, l’accordo con il Fmi è stato approvato grazie ai voti dell’opposizione, ma senza l’appoggio della vicepresidente, aprendo così di fatto una crisi politica.

Gli impegni presi dall’Argentina

Nell’accordo, l’Argentina si impegna a ridurre la spesa in pensioni e sussidi, soprattutto quelli all’energia che rappresentano il 2 per cento del Pil. Non sarà semplice realizzarlo, considerando l’aumento dei prezzi e la crisi energetica che spinge i paesi verso la direzione opposta. Non verranno invece rivisti i programmi sociali per le famiglie con minori perché il tasso di povertà infantile è al di sopra del 50 per cento.

Il saldo primario dovrebbe ridursi gradualmente fino allo zero per cento nel 2025 e dovrà essere finanziato attraverso il mercato domestico in pesos. Un obiettivo poco realistico visto che l’elevato tasso di inflazione (50,9 per cento nel 2021) scoraggia gli investimenti in valuta locale.

Infine, la restituzione del capitale viene spalmata in più anni a partire dal 2026 (Eff, Extended Fund Facility) rispetto al precedente accordo (Sba, Stand-By Arrangement). In più, per ripristinare le riserve della banca centrale (attualmente 2,3 miliardi di dollari) e per catalizzare il supporto di altri creditori, il Fondo fornisce 10 miliardi di dollari all’Argentina.

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Figura 4 – Riacquisti di fondi, 2018 Sba vs. Richiesti Eff 2021-34 (in miliardi di dollari)

Fonte: calcoli Fmi e staff del Fondo

L’accordo, negoziato per quasi due anni e concluso a ridosso di un rimborso di capitale di 10 miliardi previsto per fine marzo, permette all’Argentina di guadagnare tempo e al Fondo di non presentare il prestito del 2018 come un azzardo. In molti però dubitano della sua riuscita, ancor di più con il governo argentino in crisi. Lo stesso Fmi segnala “rischi per il programma eccezionalmente elevati e di ricadute della guerra in Ucraina che stanno già materializzandosi”. L’aumento sui mercati mondiali dei prezzi dell’energia, di cui l’Argentina è importatrice netta, sarà compensato solo in parte dall’aumento dei prezzi delle materie prime agricole. Non è un caso che il Fmi già parli di ricalibrazione del programma.

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