Nel breve periodo gli effetti degli aumenti dei prezzi energetici su famiglie e imprese si possono contenere con trasferimenti e interventi sulle accise. Ma nel lungo periodo bisogna pensare a soluzioni strutturali che non aggravino l’indebitamento.
Perché è tornata l’inflazione
Le ultime stime dell’Istat registrano un aumento dei prezzi dello 0,2 per cento su base mensile, e del 6,2 per cento su base annuale. Prende quindi consistenza e, anzi, si rafforza la tendenza alla crescita dei prezzi trainata dall’aumento dei prezzi dei beni energetici, ma anche dei beni alimentari e delle materie prime. Guardando a quello che succede altrove – negli Stati Uniti l’inflazione ha raggiunto l’8,5 per cento annuo, in aumento dell’1,2 per cento rispetto al mese precedente -, l’impressione è che la corsa dei prezzi non abbia ancora raggiunto il picco e che ulteriori aumenti possano materializzarsi nei prossimi trimestri.
Il perché quell’inflazione che fino a pochi mesi fa molti analisti ritenevano un fenomeno temporaneo sia sfuggita di mano è spiegato da una serie di circostanze inedite, e per gran parte imprevedibili. Le banche centrali sono subito corse ai ripari, invertendo in modo abbastanza repentino le politiche di bassi tassi nel tentativo di raffreddare le tensioni sui mercati. La convinzione che la crescita globale dei prezzi fosse principalmente dovuta a una fiammata in relazione alla ripresa post-pandemia e alle strozzature nella riorganizzazione delle catene globali del valore ha presto lasciato il campo a una versione più strutturale, a mano a mano che i dati sull’andamento dell’occupazione negli Stati Uniti, e in parte anche in Europa, mostravano un’economia in forte surriscaldamento e tassi di disoccupazione prossimi al livello naturale.
Alle tensioni sui prezzi dal lato della domanda, da febbraio in poi, con il conflitto in Ucraina si sono aggiunti i fattori di offerta: da un lato, la riduzione delle importazioni di materie prime da Russia e Ucraina; dall’altro, le sanzioni che l’Europa ha introdotto sulle fonti di approvvigionamento energetico. Il risultato dell’azione combinata dei due fattori ha determinato un vincolo alla produzione interna, soprattutto in alcuni settori, e l’aumento dei prezzi dell’energia, che vede l’Italia particolarmente esposta a causa della dipendenza dal gas russo.
Il risultato è che dopo due anni di emergenza legata alla pandemia, la ripresa economica è stata compromessa prima dalla ripresa dell’inflazione e poi dalle ricadute economiche del conflitto, lasciando intravedere i rischi di una nuova stagflazione come negli anni Ottanta.
I riflessi su occupazione e salari
Senza provvedimenti tempestivi, occupazione e salari rischiano di risentire profondamente di questa situazione. Le questioni che dovranno essere affrontate sono diverse. In primo luogo, bisogna capire come governare l’inflazione, in particolar modo quella importata dall’aumento dei prezzi dei beni energetici. In secondo luogo, bisogna capire come tutelare le fasce più deboli della popolazione, i cui redditi sono erosi dalla crescita dei prezzi dell’energia e di molti beni di prima necessità. Infine, occorre capire come impostare le relazioni industriali e il rinnovo dei contratti collettivi scaduti per proteggere il potere di acquisto dei lavoratori in un contesto di inflazione crescente.
Sul primo punto, le banche centrali hanno già annunciato un progressivo aumento dei tassi d’interesse, mentre il governo italiano ha varato una serie di provvedimenti finalizzati a sterilizzare, almeno in parte, l’aumento dei prezzi dei beni energetici attraverso il taglio delle accise sul carburante e sul gas.
Sul secondo punto, il decreto “aiuti” appena varato dal governo interviene con l’erogazione di bonus modulati sulla situazione economica delle famiglie, per sostenere quelle più bisognose e più esposte all’aumento del costo dell’energia, e con un credito d’imposta per le imprese energivore e gli operatori dei trasporti.
Sul terzo punto c’è ancora grande incertezza e un po’ di confusione. In alcuni casi è stata (prematuramente) decretata la fine dell’accordo quadro con cui è stato definito il meccanismo di aggiustamento delle retribuzioni all’Ipca (depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati) nei contratti collettivi (qui) e invocato un ritorno alla “scala mobile”, cioè un meccanismo automatico di adeguamento dei livelli salariali all’inflazione. In altri casi, è stata proposta una ripresa dei “patti sociali”, con un meccanismo di concertazione tripartita, con il governo impegnato in una politica dei redditi tesa a fiscalizzare gli aumenti dell’inflazione con il taglio delle tasse (o del cuneo fiscale).
Ciascuna proposta ha vantaggi e svantaggi, ma in alcuni casi, nel lungo periodo, questi ultimi superano di gran lunga i benefici.
Gli interventi promossi dal governo con gli ultimi decreti vanno senz’altro nella direzione giusta per contenere gli effetti degli aumenti del costo dei beni energetici sulle famiglie e sulle imprese più esposte. Nel breve periodo, il meglio che si possa fare è ammortizzare l’impatto dello shock attraverso trasferimenti a favore dei redditi più bassi. Tuttavia, è chiaro che gli interventi devono avere natura temporanea e non possono gravare eccessivamente sull’indebitamento. Il prelievo sugli extra-profitti delle imprese del settore energetico rappresenta un segnale di attenzione per una redistribuzione che non gravi eccessivamente sull’indebitamento, tuttavia, anch’esso serve a far fronte all’emergenza e non pare sostenibile nel lungo periodo. In altre parole, gli interventi su accise e trasferimenti, molto utili in questa fase congiunturale, non sembrano sostenibili nel lungo periodo se vengono fatti in deficit, in quanto nascondono i rischi associati all’aumento dell’indebitamento.
Chi invece pensa di contrastare la perdita del potere di acquisto dei salari attraverso meccanismi automatici di adeguamento all’aumento dei prezzi ed eliminando la sterilizzazione dell’inflazione importata dall’incremento dei costi energetici non fa che peggiorare il rischio di una spirale salari-prezzi e di stagflazione, soprattutto in questa fase in cui sono ancora forti i vincoli all’offerta. Di fatto, cercare di stimolare a tutti i costi il potere d’acquisto finirebbe per riattivare l’inflazione, riducendo ulteriormente, nel lungo periodo, i redditi disponibili delle famiglie.
Sembra più utile invece puntare sulla contrattazione collettiva per il rinnovo dei Ccnl scaduti, senza lasciare che trascorrano anni prima che si arrivi a un accordo. La questione del salario minimo e della misurazione della rappresentatività delle parti sociali, che da troppo tempo occupa il dibattito pubblico senza alcun esito, contribuisce al clima di incertezza e al proliferare di Ccnl “pirata”, che derogano ai minimi retributivi e alle tutele dei lavoratori fissati nei contratti comparativamente più rappresentativi (qui). Sarebbe utile anche considerare l’accorciamento della durata dei contratti, ripristinando di fatto il vecchio regime 2 + 2, per la parte economica e quella normativa. La tutela dei salari per mezzo della contrattazione collettiva, anche a livello decentrato, rappresenta senza dubbio il metodo migliore per far crescere le retribuzioni assieme alla produttività senza creare tensioni sul costo del lavoro.
Se nel breve periodo è inevitabile che i costi di una crisi energetica senza precedenti, nonostante gli interventi del governo, ricadano un po’ su tutti, appare più interessante interrogarsi su cosa fare nel medio-lungo periodo.
La risposta passa necessariamente per l’Europa e dal dividendo atteso dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Da un lato, l’Unione europea, attraverso l’azione concertata sui prezzi dell’energia importata (il “price cap”), potrebbe consentire di calmierare la dinamica dei prezzi dell’energia importata. Dall’altro, una decisa accelerazione sull’energia prodotta da fonti rinnovabili grazie agli investimenti del Pnrr consentirebbe di ridurre la dipendenza energetica e quindi l’inflazione importata. Entrambe le strategie, nonostante l’incertezza che grava su di esse, rappresentano la sfida da combattere.
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paolo
Ormai si parla di tetto al prezzo del gas in ogni dove, perfino quando la discussione riguarda tutt’altro argomento. Dopo innumerevoli letture di articoli, ancora non sono riuscito a capire come dovrebbe funzionare.
Supponiamo di aver bisogno di 100 unità di gas, di porre un price cap pari a X (40 o 50 o 100 €/MWh poco cambia, il concetto è lo stesso), e di riuscire a reperirne in borsa 90 unità (perchè ovviamente chi prima incassava molto di più non è detto che con il cap sia disposto a vendere).
a questo punto che succede? pare che nessuno sappia la risposta, ma è un’eventualità che si dovrà pure considerare, se si vuole mettere un tetto.
In realtà, a quanto sembra l’idea è che se in borsa si forma un prezzo Y>X, la differenza Y-X la metteranno le istituzioni: ovvero questo sedicente price cap è tutt’altro che un tetto, bensì un sussidio senza limiti destinato a sfasciare qualsiasi bilancio pubblico.
ecco perchè draghi vuole che ci pensi la UE, e la UE che mediamente consuma la metà del gas italiano in percentuale lascia liberi di farlo i singoli stati.
Savino
La politica dei redditi concertata negli ultimi 30-35 anni si è rivelata un disastro, poichè la produttività cui si sono legati i salari è risultata essere una produttività fasulla e volutamente spostata verso il basso, sicchè questo è stato un modo come un altro per tenere bassi i salari da parte datoriale con la complicità sindacale. Bisogna uscire da questo che è un imbroglio verso i lavoratori e i consumatori, da porre, invece, al centro del sistema contro le speculazioni che profittano dei momenti storici (crisi, guerre, pandemie, la stessa introduzione dell’Euro), come è da considerare che il mercato lo fa la domanda e non l’offerta. Ne deriva che, contrariamente a quanto presente nell’articolo, se avessimo avuto i tanto vetuperati meccanismi automatici di adeguamento all’inflazione reale (e no programmata, altra presa in giro) avremmo un istituto di sicurezza per momenti storici come questo senza ricorrere ai pannicelli caldi degli una tantum. E’ evidente che se l’obiettivo dello Stato non è quello di proteggere e mettere a riparo il consumatore, ma è tutelare i privilegi della rendita e gli orticelli del sindacato (come è stato nei primi anni ’90) ci ritroviamo le politiche dei redditi sconclusionate che abbiamo.
Emanuele
Sottoscrivo ogni parola del suo intervento.
Ormai l’attenzione pubblica è fortemente sbilanciata verso la preservazione delle rendite di capitale piuttosto che incentivare lavoro e innovazione.
Si continua a disquisire di ipotetiche spirali prezzi-salari, ignorando bellamente la documentata esistente spirale prezzi-profitti (illuminante l’ultimo caso riguardante Starbucks, che ha ammesso di avere aumentato i prezzi solo per preservare i profitti in presenza di aumenti nelle materie prime).