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I contratti brevi non sono il problema

Secondo i dati Istat gli occupati con contratti temporanei sono a livelli record. Ma gli accordi per periodi molto brevi riguardano solo poche specifiche professioni. Come nell’ultimo decennio, la durata media prevista per il 2021 è di circa 4 mesi.

Tornano i contratti temporanei

Con la ripresa del mercato del lavoro e con il forte recupero dei contratti temporanei, è tornato anche in Italia il dibattito su questo tipo di rapporto di lavoro: non solo si è raggiunto un livello record di occupati temporanei (secondo i dati Istat), ma in più, a detta di alcuni, i contratti sarebbero sempre più brevi. Effettivamente, le note trimestrali Istat-Inps-Ministero del Lavoro mostrano da qualche tempo un aumento dei contratti di breve durata nel 2021 rispetto al 2020, in particolare in alcuni specifici settori. Per capire se e come sia necessario intervenire per arginare la crescita dei contratti di brevissima durata è utile andare un po’ più in profondità, non limitandoci al confronto con un anno “spurio” come il 2020.

I dati sulle comunicazioni obbligatorie che Veneto Lavoro mette a disposizione dei ricercatori (il public use file Mercurio) e di tutta la collettività (le varie pubblicazioni periodiche, tra cui il Sestante di Veneto Lavoro) ci consentono di evidenziare, con riferimento al Veneto (ma le tendenze nazionali, in queste questioni, sono analoghe), quattro dati empirici.

I contratti di breve durata caratterizzano alcune professioni molto specifiche

Come già emerge nella Nota trimestrale rispetto ai settori di attività, tra i cinque gruppi professionali con più del 15 per cento di assunti con contratti di un giorno (Figura 1) troviamo professioni molto specifiche: i lavoratori dello spettacolo (il 45 per cento degli assunti a tempo determinato), i tecnici della produzione tra cui fotografi e tecnici audio-video (il 35 per cento), i lavoratori del turismo, qualificati e non tra cui baristi, camerieri, cuochi (tra il 20 e il 25 per cento) e, infine, gli “specialisti della formazione”, cioè formatori, insegnanti e ricercatori (il 18 per cento). Oltre a spettacolo e turismo, anche la pubblica amministrazione e, in particolare, la scuola usa questi contratti. Invece, tra gli operai, gli impiegati o i tecnici, l’incidenza dei contratti brevi è molto spesso inferiore all’1 per cento.

Nel medio periodo non ci sono segnali di crescita dei contratti di brevissima durata

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Analizzando i dati dal 2008 in poi, osserviamo che le assunzioni con contratti di brevissima durata (un giorno o una settimana) rispetto al totale dei nuovi contratti a tempo determinato (inclusi quelli stagionali) sono sì in aumento nel 2021 rispetto al 2020, ma ancora significativamente sotto i livelli pre-pandemia (Figura 2).

La durata media prevista dei contratti a tempo determinato è sostanzialmente stabile

Se si prende l’insieme dei contratti a tempo determinato, la durata media prevista anche per il 2021 è in linea con il trend dell’ultimo decennio, poco sotto i 120 giorni, circa 4 mesi, nonostante le varie riforme intercorse dal 2008 a oggi e in particolare il decreto Dignità che ha ridotto la durata massima di un contratto a tempo determinato da 3 anni a 2 (Figura 3).

A partire dal 2014, inoltre, è disponibile la distinzione tra contratti stagionali e non. I primi rappresentano circa un quarto del totale. Nel 2020-2021, la durata media prevista dei contratti di lavoro stagionali è stata largamente inferiore a quella degli anni precedenti a causa soprattutto dei ritardi nell’avvio della stagione balneare dovuti alla pandemia. Ciononostante, per l’insieme dei contratti a tempo determinato non si registrano variazioni significative della durata media.

La quantità di lavoro (misurata in giornate) generata dai rapporti brevissimi è del tutto marginale

Infine, le assunzioni a tempo determinato con contratti fino a 30 giorni generano un ammontare complessivo di giornate a tempo determinato attorno al 3 per cento del totale (Figura 4). Sono le durate tra sei e dodici mesi che danno luogo al 50 per cento delle giornate lavorate con contratti a tempo determinato. Seguono, con quasi il 30 per cento, le durate tra tre e sei mesi. Interventi restrittivi sui contratti molto brevi non avrebbero, quindi, un grande impatto sulla consistenza complessiva del tempo determinato.

Non è un problema di leggi

In conclusione, questi carotaggi statistici sono sufficienti a suggerire cautela nell’affrontare un tema ad alta infiammabilità politica utilizzando con poca avvertenza numeri sulle assunzioni di breve durata mal contestualizzati e non “pesati”.

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Dai dati non emerge nulla di eclatante nelle tendenze recenti del fenomeno. Una parte rilevante dei rapporti di lavoro di breve durata riflette una reale esigenza puntuale (un cameriere nel weekend o a un matrimonio, un tecnico per uno spettacolo) più che una taylorizzazione estrema del processo produttivo. Infatti, a pensarci bene, non è per nulla scontato che le imprese decidano di abusare dei contratti a tempo determinato di breve durata visto che esistono alternative anche più semplici in termini di procedure (il ricorso al lavoro interinale, per esempio, o a prestazioni di lavoro occasionale). Il turnover per un’impresa ha sempre un costo: anche nelle occupazioni più “semplici” c’è un costo di entrata oltre a quelli burocratici di attivazione dei singoli contratti. Pertanto, non è affatto scontato che i contratti di durata brevissima siano attribuibili a norme (troppo lasche) sul loro uso.

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  1. Claudio Treves

    Beh mi pare decisamente “ottimistica” la visione proposta; che la preponderanza dei contratti giornalieri sia tipica di alcuni settori/professioni non significa che non si possa intervenire sull’organizzazione del lavoro nel senso di favore una maggiore stabilità (es. ricorrendo al part-time verticale e/o ciclico), ma se rimane la facoltà di ricorrere a forme “semplici ma ultra precarie” non ci si riuscirà mai

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