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La spirale negativa di denatalità e bassa occupazione femminile

Bassa natalità e scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro caratterizzano da anni il nostro paese, mentre in altre nazioni europee a un’alta fecondità corrisponde un’alta occupazione delle donne. Per l’Italia il problema è anche culturale.

La denatalità, un fenomeno tutt’altro che nuovo

L’Italia è un paese caratterizzato da bassa natalità e scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro. Mentre in altri paesi europei, come per esempio la vicina Francia, ad alta fecondità corrisponde alta occupazione per le donne, l’Italia rimane ancorata nell’equilibrio non virtuoso di bassa natalità e poche donne occupate.

Il fenomeno della denatalità in Italia è tutt’altro che nuovo. Secondo i dati del XXI Rapporto annuale dell’Inps, il calo delle nascite registrato nel nostro paese dal 1964 a oggi somiglia molto, per intensità, a quello osservato nel periodo della prima e della seconda guerra mondiale, con una diminuzione del 64 per cento, da 1.035.207 nati nel 1964 a 399.431 nel 2021. Guardando ai dati Inps e Istat, l’unica fase di crescita si è registrata tra il 2000 e il 2008, quando le nascite sono aumentate del 13 per cento rispetto al periodo precedente. Dal 2008, però, il loro numero ha ripreso a calare costantemente (figura 1).

La sempre maggiore incertezza delle nuove generazioni sul mercato del lavoro e la difficoltà di raggiungere buone retribuzioni se non in una fase più tardiva della vita lavorativa sono solo alcune delle ragioni alla base del fenomeno.

Ci sono altri due elementi che è imprescindibile analizzare: l’offerta di servizi educativi per l’infanzia e l’utilizzo dei congedi.

I servizi educativi per l’infanzia: non sufficienti e mal distribuiti

Secondo i dati Istat, nell’anno scolastico 2019-2020 erano presenti sul territorio italiano oltre 13 mila servizi per la prima infanzia, per un totale di oltre 361 mila posti disponibili. Di questi, il 50 per cento si trova in strutture pubbliche. Questi dati si traducono in una percentuale di copertura dei posti rispetto ai residenti sotto i 3 anni del 26,9 per cento, inferiore al target del 33 per cento stabilito dall’Unione europea. La percentuale media di copertura dei posti è in aumento rispetto all’anno precedente, ma va tenuto conto che sono diminuiti i bambini sotto i 3 anni a causa della denatalità.

A livello territoriale, la distribuzione dei servizi è disomogenea e il divario Nord-Sud è molto ampio (figura 2). Nelle regioni del Mezzogiorno anche il tasso di occupazione femminile è molto più basso: nel 2021 tra i 15 e i 64 anni era del 49,4 per cento a livello nazionale, oscillava tra il 55,1 del Centro e il 59,3 del Nord e calava al 33 per cento nelle regioni del Sud.

Un recente articolo dell’Economist evidenzia l’effetto dell’elevato costo dei servizi per la cura dell’infanzia sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro. In Italia questi costi rappresentano il 28 per cento del reddito netto di una famiglia con due percettori che complessivamente guadagnano un reddito pari a quello medio. La media nei paesi Ocse è il 16 per cento.

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Potenziare l’offerta di servizi per la cura dell’infanzia, in termini sia di diffusione che di costo, è condizione necessaria per avere più bambini e più lavoro femminile.

I congedi, in aumento ma ancora non abbastanza

L’altro elemento da considerare sono i congedi. Congedi parentali e congedi per il padre permettono una maggiore condivisione della cura dei figli, con effetti positivi sull’occupazione femminile.

Il legislatore italiano ha introdotto dieci anni fa il congedo obbligatorio per il padre, inizialmente in via sperimentale per un solo giorno. Il congedo obbligatorio, aumentato a dieci giorni nel 2021 (dopo essere stato fissato a due nel 2017, quattro nel 2018, cinque nel 2019 e sette nel 2020) è affiancato da uno facoltativo, in base al quale il padre ha diritto a richiedere un congedo di massimo un giorno in sostituzione della madre.

Se guardiamo ai congedi di maternità e di paternità, l’analisi dei dati dell’Inps contenuti nel Rapporto 2022 restituisce un andamento negativo per i primi, proprio a causa della denatalità, e – al contrario – un andamento positivo per i congedi di paternità obbligatori. Nel 2019 i lavoratori dipendenti del settore privato che hanno beneficiato del congedo di paternità obbligatorio erano 135.693. Nel 2020 il dato è rimasto più o meno costante (135.215), per poi aumentare, nel 2021, a 155.713. Nonostante ciò, occorre sottolineare come la richiesta resti molto bassa (poco più della metà dei beneficiari potenziali lo ha utilizzato), concentrata tra i lavoratori dipendenti di aziende di grandi dimensioni e al Nord. Inoltre, solo il 37 per cento dei genitori è a conoscenza dell’obbligatorietà del congedo di paternità, a riprova che su questo fronte è necessaria anche una maggiore informazione.

Un esempio viene dalla riforma attuata in Spagna nel 2021, in base alla quale i congedi di paternità sono diventati equivalenti a quelli di maternità: donne e uomini hanno lo stesso permesso per la nascita di un bambino (16 settimane, pagate al 100 per cento), con effetti significativi sulla cura dei figli e la divisione dei carichi familiari.

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Per quanto riguarda i congedi parentali, fruibili da entrambi i genitori, tra i lavoratori dipendenti del settore privato il numero di quelli richiesti dagli uomini è aumentato durante la crisi pandemica, passando da 68.048 su 327.068 totali (20,8 per cento) nel 2019 a 97.949 su 439.506 totali (22,3 per cento) nel 2020, per poi tornare, nel 2021, al livello pre-pandemico (61.162 su 292.219, ossia il 20,9 per cento). Sebbene i dati siano da rapportare anche alla crisi Covid-19, sembra che qualcosa si stia muovendo, seppur molto lentamente. Ma è sufficiente?

Nelle parole di Camille Landais al Festival Internazionale dell’Economia di Torino, servizi per l’infanzia e congedi parentali riducono marginalmente il costo che la maternità ha sul lavoro femminile. Ma non sfidano la norma radicata secondo cui il lavoro di cura spetta quasi esclusivamente alle mamme. Abbiamo bisogno di politiche che smontino questa norma. Il congedo di paternità –se di maggiore durata- è una carta da giocare. Se il Piano nazionale di ripresa e resilienza contiene proposte interessanti sull’ampliamento del numero dei nidi (almeno fino a coprire al 33 per cento dei bambini che ne avrebbero diritto), niente dice sui congedi di paternità, che avrebbero la potenzialità di favorire un cambiamento culturale.

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Reddito di cittadinanza e lavoro: dove cambiare

  1. Savino

    La generazione dei baby boomers, nati negli anni ’50 e ’60, non se la può cavare a chiacchiere, ma deve compiere concreti gesti di solidarietà intergenerazionale, forme redistributive di opportunità e di welfare fra generazioni senza dannarci l’anima per spendere tutto in pensioni e sussidi ad una fascia di popolazione allo stesso tempo anziana per il mercato del lavoro e benestante.

    • Luca Neri

      La relazione causale tra servizi alla maternità, tutela della maternità e occupazione femminile è tutta da dimostrare. Negli USA, dove esiste una minimale tutela della maternità limitata essenzialmente ad un congedo non retribuito di 12 settimane e non esistono servizi pubblici per l’infanzia, si registra il maggior tasso di partecipazione e occupazione femminile dell’occidente. In particolare il numero di donne che ricoprono posizioni dirigenziali in azienda è il più elevato dei paesi occidentali al pari della Svezia, che raggiunge lo stesso risultato però tramite un sistema di quote di genere in un’economia di dimensioni infinitamente inferiori a quella americana. I risultati in termini di produttività (i.e. sostenibilità) delle quote di genere, sono per lo meno dubbi. Trovo inoltre del tutto controproducente ed eticamente sbagliato forzare le famiglie ad allocare il tempo di lavoro domestico/lavoro retribuito tra marito e moglie secondo criteri ritenuti ottimali da un qualche comitato centrale. Già oggi il concedo di maternità facoltativo è suddivisibile secondo un rapporto 45 (donna)/55 (padre). Eppure, nella quasi totalità dei casi viene interamente usufruito dalle madri? Perchè? Ritengono le gentili autrici che sia compito dello Stato “educare” il popolo come negli Stati etici e autoritari secondo i criteri stabiliti dai “Migliori” o lo Stato deve semplicemente offrire il framework legale che consenta ai cittadini di compiere libere scelte su come gestire la propria vita?

      • Savino

        Solo chi vive di una lauta rendita pensionistica può parlare in questi termini, fregandosene dei problemi del prossimo. L’egoismo è il primo male da abbattere per affrontare queste tematiche.

        • Luca Neri

          Savino, non si capisce il suo argomento. Se si riferisce a me, sappia che lavoro una decina di ore ogni giorno, circa il 60% del mio stipendio è trattenuto dallo Stato e molto probabilmente percepirò una pensione che coprirà si è no il 40% del mio ultimo salario tra circa 25 anni. Ed è proprio per questo che mal tollero richieste di ulteriore spesa pubblica se non sono rigorosamente motivate.

  2. Alberto Lusiani

    Non vedo un dato che invece sarebbe utile per capire meglio la situazione: i livelli di natalita’ disaggregati tra Nord Centro Sud e Isole.

  3. Firmin

    Il tasso di disoccupazione femminile è molto più alto di quello maschile, quindi è difficile sostenere che la minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro dipenda da una carenza di offerta (di origine culturale, sociale o altro). Se è così, è controproducente incoraggiare le donne a lavorare invece di incentivare le imprese ad assumerle. L’unico risultato sarebbe un ulteriore abbassamento delle retribuzioni delle donne rispetto agli uomini. A loro volta, disoccupazione e bassi salari riducono il desiderio di maternità molto più di altri fattori. Servizi sociali migliori ed una distribuzione più equa degli impegni familiari possono essere utili, ma occorre soprattutto convincere le imprese ad assumere più donne, rimuovendo pregiudizi misogini e problemi strutturali.

  4. Adriano Stabile

    Buongiorno.

    Mi piacerebbe conoscere la % di posti nei nidi pubblici sul totale dei posti nei nidi, in Italia e negli altri paesi europei.

    Vorrei capire se il gap è relativo al settore pubblico, a quello privato, o entrambi.

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