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Quo vadis, Bce?

È difficile criticare la scelta della Bce sul recente aumento dei tassi d’interesse. Più arduo è capire quale strategia si intende percorrere nel futuro, cosa si intenda per tasso neutrale e come e quando verrà ridotto il bilancio della banca centrale.

Il rialzo dei tassi

Con un’inflazione che ad agosto ha raggiunto il 9,1 per cento e il cambio dell’euro sul dollaro che nell’ultimo anno si è svalutato del 18 per cento, poteva la Banca centrale europea tenere i tassi d’interesse sui depositi allo 0,0 per cento? Forse si sarebbe dovuto intervenire prima prevedendo il carattere non temporaneo dell’inflazione, ma oggi chi critica la Bce per aver alzato i tassi dello 0,75 per cento dovrebbe mettersi nei panni di Christine Lagarde. 

Anche se oltre un terzo dell’inflazione europea è imputabile all’aumento del costo dell’energia e i vincoli all’offerta continuano a rallentare molte produzioni, è importante evitare una spirale inflazionistica e domare le aspettative degli operatori. Anche se tutti i centri di ricerca, inclusa la Bce, prevedono una riduzione della crescita economica in Europa, se non una vera e propria recessione. In altri termini, come ha ammesso la stessa Lagarde: “l’aumento dei tassi farà ben poco per convincere i grandi attori del mondo a ridurre i prezzi del gas” ma “darà un forte segnale che la Bce contribuirà seriamente alla riduzione dell’inflazione (…) smorzando la domanda ed evitando il rischio di un persistente spostamento al rialzo delle aspettative di inflazione”.

È certo che nei prossimi mesi la manovra di aumento dei tassi proseguirà, anche perché esplicitamente annunciato dalla Bce, ma per quanto tempo e fino a dove?  Qui la risposta della banca centrale è più ambigua e discutibile: “La Bce deciderà sulla base dei dati, meeting dopo meeting”.  Certo, viviamo in un clima di grande incertezza e le previsioni sul futuro dell’economia mondiale ed europea sono soggette ad una forte alea, ma allora perché annunciare che gli economisti della Bce prevedono nell’Eurozona un’inflazione rispettivamente del 5,5 per cento e del 2,3 per cento, nel 2023 e 2024, mentre la crescita economica è stimata allo 0,9 per cento e 1,9 per cento? Sepolta senza neppure un degno funerale, la forward guidance, che negli anni scorsi ha aiutato la banca centrale a indirizzare le aspettative e fornito agli operatori una valida guida per prevedere la politica monetaria, si è passati ad un regime ancora inesplorato. La guerra in Ucraina e l’incertezza delle forniture di gas dalla Russia sono certamente davanti agli occhi di tutti e rendono molto difficile fornire agli operatori una traiettoria di marcia.

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Il mantra del tasso neutrale

Oggi, il nuovo mantra sembra essere diventato il “tasso neutrale o naturale o d’equilibrio” dove l’inflazione è sotto controllo e la crescita vicina a quella di lungo periodo. In questo contesto se la banca centrale vuole raffreddare l’economia deve portare i suoi tassi di riferimento sopra il tasso neutrale, viceversa se la vuole stimolare deve abbassarli sotto.  Peccato, tuttavia, che, come ha ammesso la stessa Christine Lagarde, nessuno ha qualche idea di quale sia oggi il valore del tasso neutrale, se non che “non è zero”.  Quando l’inflazione era vicina al 2 per cento, gli economisti della Fed stimavano che il tasso neutrale fosse il 2,5 per cento. Oggi, tuttavia, con un’inflazione ai massimi da quattro decenni, è opinione diffusa che debba essere molto più alto. Tuttavia, la Fed stessa ha sospeso le pubblicazioni del suo tasso neutrale nel novembre del 2020, vista la straordinaria aleatorietà della crisi pandemica. Più in generale il tasso neutrale nasce da modelli e stime econometriche che oggi vengono ritenute troppo incerte per fornire una bussola affidabile o prevedere il futuro. 

Quando e come la riduzione del bilancio Bce

Rimane poi il tema del ridimensionamento del bilancio della Bce, cresciuto negli ultimi sette anni di 5 mila miliardi di euro, grazie al massiccio acquisto di titoli privati e soprattutto pubblici, al fine di contrastare la bassa inflazione e sostenere l’economia, prima durante la crisi finanziaria e poi in quella pandemica. Se gli acquisti di titoli sono terminati lo scorso luglio, il problema oggi è cosa fare dei titoli in scadenza. Ufficialmente, la posizione annunciata è che la Bce “continuerà a reinvestire, integralmente il capitale rimborsato sui titoli in scadenza nel quadro del Paa (Programma di acquisto di attività) per un prolungato periodo di tempo successivo alla data in cui è iniziato il rialzo dei  tassi di interesse di riferimento”, mentre, per quanto riguarda il Pepp (Programma di acquisto per l’emergenza pandemica), si intende “reinvestire il capitale rimborsato sui titoli in scadenza almeno sino alla fine del 2024”. Tuttavia, le trattative su come ridimensionare il bilancio della Bce sono già in corso, mentre gli operatori temono che le promesse fatte possano infrangersi di fronte a una dura realtà come è avvenuto nel caso dei tassi d’interesse.

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Le altre banche centrali, come la Bank of England e la Fed, hanno già iniziato a ridurre i loro portafogli obbligazionari per contrastare l’aumento dell’inflazione. Un rapido allineamento a questo indirizzo ovviamente si scontra da un lato con la necessità dei governi europei di alleviare i costi dell’energia a imprese e famiglie incrementando i già enormi debiti pubblici, dall’altra con la promessa della Bce di reinvestire in maniera flessibile i titoli in scadenza al fine di contrastare i rischi che la politica monetaria possa essere trasmessa in modo disomogeneo fra i diversi paesi dell’Eurozona. In altri termini, una prematura riduzione dei reinvestimenti dei titoli in scadenza potrebbe mettere in difficoltà un importante supporto al Tpi (Transmission Protection Instrument) approvato dal Consiglio della Bce lo scorso luglio e di cui paesi come l’Italia potrebbero avere particolare bisogno.

Più in generale, le banche centrali, e la Bce in particolare, non sanno più quanto credere al principio enunciato da Friedman secondo cui “l’inflazione è sempre un fenomeno monetario” o continuare ad usare la politica monetaria in maniera eterodossa per assecondare una congiuntura quanto mai difficile, come hanno fatto nell’ultimo decennio.

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  1. Maurizio Cortesi

    La Bce dovrebbe pensare anche al suo bilancio perché l’aumento dei tassi riduce il prezzo dei titoli in portafoglio creando potenziali perdite. Una strategia equilibrata potrebbe essere quella di dismettere il Pepp, visto che la sua ratio -la pandemia- è venuta meno, e anche i titoli privati del Paa, e contemporaneamente riprendere in misura inferiore -50% ad esempio – gli acquisti di titoli pubblici del Papa utilizzando la stessa flessibilità del Pepp, che è oggi la vera ragione del suo mantenimento. Si combinerebbe così la riduzione complessiva del portafoglio, che aumentando i tassi di mercato riduce ma non certo annulla la necessità di aumentare i tassi di riferimento, mantenendo ed anzi rinforzando la protezione anti spread. E acquistando titoli a più basso prezzo si abbasserebbe il prezzo di carico complessivo del portafoglio riducendo i rischi di perdite per la Bce. O no? Troppo scolastico?

  2. Conoscendo la natura dell’inflazione, la BCE aumenta il costo del denaro; va controcorrente, essendo un’inflazione da costi, in questo modo alimenta ancora di più l’inflazione; il recupero sul dollaro è un falso problema, dobbiamo considerare che all’inizio dell’euro il dollaro era sotto la parità, quindi non vedo oggi il problema, tuttalpiù cresceranno le esportazioni verso gli USA.
    Solo i tedeschi hanno paura dell’inflazione, Lagarde è in sintonia con la loro politica. Lagarde vuole riassorbire l’attuale liquidità non rinnovando i titoli, è solamente impossibile.

  3. Savino

    Appropriato l’intervento dei banchieri centrali, inappropriato il mancato intervento dei Governi sulla perdita di potere d’acquisto dei salari e sulla spirale speculativa. Il mercato lo fa la domanda, oggi indebolita dall’inflazione e dall’ingiustificata speculazione sui prezzi. Persino le vicende belliche hanno oggi un orientamento ben preciso da non giustificare più un effetto guerra per l’aumento dei prezzi.

  4. Stefano La Porta

    Prima dell’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia che è iniziato sul finire del 2021, l’inflazione in Europa era intorno all’1%, segno che la nostra è un’inflazione da costi, si dice importata, e non causata dalla domanda. In questo contesto l’aumento dei tassi della BCE ha scarso impatto sull’inflazione, anzi se reiterato può fare danni all’economia. L’aumento dei tassi infatti rende più onerosi gli investimenti per le imprese che di conseguenza, nel tempo, tendono a ridursi. Diventano più cari anche i finanziamenti ai privati, i mutui casa a tasso variabile per esempio, che erodono il reddito spendibile delle famiglie. Se poi consideriamo che l’inflazione al 9% comporta un’altrettanta perdita del potere di acquisto, ecco che la domanda aggregata del sistema economico si riduce sia dal lato imprese, sia dal lato famiglie.
    Una minor domanda aggregata riduce la produzione (in termini economici, davanti a un grafico, si dice che la curva IS si sposta verso sinistra) e una minor produzione porta ad una minore occupazione. E’ evidente che si rischia una grave recessione e una delle armi principali per stimolare gli investimenti e l’economia in genere è la riduzione dei tassi, proprio il contrario di quanto sta avvenendo.
    L’errore della BCE non è alzare i tassi ma averli tenuti a zero troppo a lungo ed ora per poterli abbassare per fronteggiare una recessione alle porte, deve prima alzarli, rischiando di fare danni difficilmente riparabili.

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