Per individuare chi nel 2023 percepirà il reddito di cittadinanza solo per sette mesi, il governo ha scelto un criterio che non ha niente a che vedere con l’occupabilità. Semmai è una misura mal concepita per proteggere alcune famiglie.
L’intervento transitorio per il 2023
La legge di bilancio prevede nel prossimo anno un intervento transitorio per il reddito di cittadinanza, in attesa della riforma complessiva fissata per il 2024. Nel 2023, dunque, alcune fasce di percettori del Rdc potranno ricevere al massimo sette mensilità rispetto alle abituali 12. Il governo ha dichiarato che la novità riguarda le persone con più alte probabilità di trovare un impiego, i cosiddetti occupabili, che saranno supportati mediante il potenziamento delle attuali attività di formazione e di accompagnamento al lavoro.
La logica dell’intervento, illustrata dagli esponenti dell’esecutivo, è lineare: si riduce il sostegno a coloro per i quali si ritiene realisticamente possibile il reperimento di un’occupazione in sette mesi. Gli interessati verranno specificamente formati e affiancati per poter conseguire il risultato in modo più efficace di quanto non sia avvenuto sinora: di conseguenza, trascorsi i fatidici otto mesi, non avranno più bisogno della misura. Il risparmio atteso dalla riduzione delle mensilità ammonta a 958 milioni di euro.
Il nuovo criterio di occupabilità
Stando così le cose, la definizione di occupabilità riveste la massima importanza perché costituisce lo spartiacque tra chi nel 2023 potrà ricevere tutte le mensilità e chi ne riceverà un numero ridotto.
L’Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro) definisce l’occupabilità come “la probabilità che un individuo in cerca di occupazione possa trovare lavoro in un determinato arco di tempo”. Il dibattito tecnico internazionale concorda nel ritenere occupabile colui per il quale questa probabilità è significativa; le applicazioni del concetto sono innumerevoli.
Nel reddito di cittadinanza, sin dalla sua introduzione (2019), si considera occupabile chi è senza lavoro da non più di due anni. Il grado di occupabilità è determinato dal centro per l’impiego attraverso la profilazione dell’utente, attraverso l’esame di precedenti esperienze lavorative, competenze professionali, istruzione, situazione familiare, contesto socio-economico e altro.
Secondo il testo attuale della legge di bilancio, invece, a essere occupabili – quindi interessate al limite dei sette mesi – sono le persone che vivono in famiglie senza componenti disabili, minori o ultrasessantenni. Pertanto, le caratteristiche personali di chi dovrebbe trovare un lavoro (competenze professionali, tasso di istruzione, esperienze pregresse e così via) non vengono prese minimamente in considerazione. Si è occupabili se in famiglia non c’è né un figlio minore, né una persona con disabilità né un over-60. Punto. Numericamente, il gruppo più coinvolto sono i nuclei con prole, che ricadono sotto un nuovo, singolare, dettame: chiunque abbia un figlio minore diventa automaticamente non occupabile.
Mentre a livello internazionale l’occupabilità viene sempre definita su base individuale – valutando anche le responsabilità familiari dell’interessato, ma insieme a numerosi altri aspetti e non come unica discriminante – l’esecutivo ne introduce un’inedita concezione su base familiare: qui tutto quello che conta è la composizione del nucleo. Si tratta di una novità assoluta per l’Europa, dove nessun paese adotta criteri simili.
Ecco, quindi, il nocciolo della questione. Il criterio di occupabilità previsto per il 2023 non riguarda affatto l’occupabilità, perché le persone soggette al limite dei sette mesi non sono state individuate in base alla loro maggior probabilità di trovare lavoro. Può invece essere considerato un mal concepito criterio di protezione di alcune famiglie, in particolare quelle con figli, alle quali si vogliono assicurare tutte le mensilità.
Le conseguenze delle regole 2023
Le conseguenze delle indicazioni per la suddivisione dell’utenza previste per il prossimo anno non sono di poco conto per almeno quattro motivi.
Primo, il governo dichiara un obiettivo, ma non compie le scelte necessarie per cercare di raggiungerlo. Infatti, la logica dell’intervento transitorio si basa sull’assunto che i beneficiari soggetti al limite degli otto mesi siano quelli potenzialmente inseribili al lavoro con più facilità e più rapidamente. Al contrario, è palese che la popolazione interessata non viene scelta in base a questa possibilità.
Secondo, ricade sotto la regola dei sette mesi anche chi versa in situazione di grande vulnerabilità. Per via dei particolari criteri individuati, infatti, tra chi non potrà ricevere il Rdc tutto l’anno rientrano anche persone assai fragili e senza alcuna possibilità occupazionale, che saranno però svantaggiate dal semplice fatto di non avere figli o un componente over-60 nel nucleo. Le analisi nel contributo di Massimo Baldini sono chiare in proposito.
Terzo, si introduce un principio di discriminazione nei confronti dei poveri senza figli. L’idea che i minori debbano essere sostenuti con continuità è sacrosanta, ma l’obiettivo di tutelarli si può declinare diversamente, in primo luogo favorendo efficaci pratiche di conciliazione. Non è chiaro, però, per quale ragione l’assenza di figli debba impedire a persone magari estremamente deboli di poter contare sulla misura per dodici mesi.
Quarto, si limitano le possibilità per le famiglie di uscire dalla povertà. Dove vi sono figli minori i genitori non sono soggetti ai percorsi d’inclusione occupazionale. In sintesi, chi ha figli non deve preoccuparsi di (ri)entrare nel mercato del lavoro. Ciò nell’immediato può risultare una forma di tutela, ma non permette di gettare le basi affinché – in prospettiva – questi nuclei possano superare la loro condizione di indigenza.
Il governo Meloni ha compiuto la scelta positiva di rinviare la riforma del Rdc al 2024, assicurandosi il tempo di idearla opportunamente. Per farlo, bisognerebbe, innanzitutto superare le criticità presenti nella misura transitoria del prossimo anno.
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Savino
Lo Stato italiano butta i soldi nel cestino perchè è incapace di identificare chi ha bisogno del Rdc e chi ha bisogno di un lavoro. Io non ci scherzerei sopra questo argomento che a me sembra gravissimo.
Pietro Della Casa
Quando leggo la parola “discriminazione” ormai mi si rizzano le antenne, presentendo l’arrivo di un ribaltamento della realtà. Qui leggo che se proteggi chi ha figli, disabili od anziani a carico discrimini chi non ne ha. QED.
Gianni
È frequentissimo il caso di donne sole, con uno o due figli minori, che lavorano tranquillamente. Perché mai, se invece in tale situazione non lavorassero dovrebbero esser considerate non occupabili?
Firmin
Ripropongo anche qui il commento lasciato al bel articolo di Baldini. Trovo surreale dare o togliere un sussidio in base ad una pura potenzialità. Seguendo la stessa logica, un domani potremmo essere tutti multati per eccesso di velocità solo perché tutte le auto in commercio sono in grado di superarli. Trovo ancora più surreale aumentare l’offerta di lavoro proprio in segmenti in cui i salari sono già talmente bassi da entrare in competizione con i 400-600 euro mensili del reddito di cittadinanza. Togliere il RdC agli “occupabili” significa dunque dare un incentivo implicito a settori a bassissima produttività, trasferendo i benfici dai lavoratori marginali agli imprenditori marginali. Non è così che si aumenta la produttività e il reddito di un paese. Meglio sarebbe offrire agli “occupabili” dei lavori socialmente utili come condizione per ricevere ancora il sussidio, senza oneri aggiuntivi per il bilancio pubblico e con grandi vantaggi per al società.