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Deindicizzazione delle pensioni tra paradossi e iniquità

La proposta di deindicizzazione delle pensioni non tiene conto del reddito complessivo, ma solo di quello pensionistico. È una scelta che produce disparità ed è sempre meno giustificata col crescere del numero di pensioni calcolate col metodo contributivo.

Gli interventi sulle pensioni

Il disegno di legge di bilancio ripropone una deindicizzazione delle pensioni: non è una novità, in varie forme è stata adottata sin dal 2011.

Anche in considerazione delle argomentazioni in tema di durata, distinzione per le pensioni contributive, adeguatezza e ragionevolezza delle riduzioni da sentenza costituzionale, la versione in vigore per il 2022 era costituita da deindicizzazioni parziali e crescenti dei trattamenti pensionistici “per scaglioni” o “per quote”: i trattamenti fino a quattro volte il minimo (oggi a 524 euro mensili, 6800 euro annui) erano rivalutati al 100 per cento dell’inflazione fino a importi lordi annui di 26.810 euro, al 90 per cento per la quota eccedente fino a cinque volte il minimo, al 75 per cento per l’ulteriore quota eccedente. 

Si superava così il meccanismo preesistente “per classi”: al superamento di ogni soglia fissata, il minore adeguamento ai prezzi (cioè la riduzione del potere di acquisto) si applicava non alla sola quota eccedente, ma all’intero importo. Ne derivava anche un paradosso: chi prima dell’adeguamento percepiva una pensione di poco più bassa rispetto a una soglia, ne otteneva una maggiore rispetto a chi stava appena sopra la stessa soglia.

Con la manovra per il 2023 viene ripristinata e rafforzata la deindicizzazione per classi, cioè con adeguamento all’inflazione sugli interi importi lordi al 100 per cento fino a quattro volte il minimo, 80 per cento fino a 5 volte, 55 per cento fino a 6 volte, 50 per cento fino a 8 volte, 40 per cento fino a 10 volte, 35 per cento oltre. Sugli importi netti, data la progressività dell’Irpef, la riduzione del potere di acquisto sarà più forte.

I punti critici

In primo luogo, va sottolineato che nel governo del bilancio pubblico sussistono molteplici obiettivi di politica economica, ma non esiste un collegamento doveroso – da taluni delineato – tra finanziamenti e spese interni a una macro-voce di spesa come quella previdenziale e assistenziale. A riprova, nell’Italia repubblicana i notevoli deficit della gestione previdenziale e assistenziale sono stati coperti con la fiscalità generale, cioè con un mix di provvedimenti di spesa e di entrata, oltre che con indebitamento.

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Con quest’ultimo intervento, tuttavia, si mette in atto un’azione redistributiva che anziché colpire redditi personali globalmente elevati (o, meglio sarebbe, un elevato “reddito equivalente” identificato in ambito familiare) per intervenire a favore delle pensioni integrate al minimo, si colpisce invece una specifica fattispecie, il reddito pensionistico individuale, ignorando ogni altro reddito e dunque anche quello globale personale.

La priorità di reperire risorse influenza poi anche il livello minimo di reddito, penalizzato, in misura crescente, a partire da circa 1.600 euro mensili netti: non certo “pensioni d’oro”. Questo aspetto, la concatenazione pluriennale delle riduzioni (che pare prospettare una deindicizzazione ormai strutturale) e il coinvolgimento delle pensioni interamente contributive precedentemente escluse sembrano delineare ragioni di illegittimità costituzionale, per una misura volta a fare cassa: circa 4 miliardi nel 2023, meno nel 2024 se l’inflazione scenderà dall’attuale 10 per cento per la “spesa familiare”.

Una seconda perplessità, strettamente collegata, riguarda la progressiva attenuazione della motivazione per un prelievo sulle sole pensioni, in quanto contenenti una quota attuarialmente “regalata” in caso di calcolo in tutto o in parte col metodo retributivo. Quel metodo prescindeva infatti sia dal volume dei contributi versati, sia dagli anni residui per i quali mediamente si sarebbe fruito del trattamento pensionistico.

Ma già con la riforma Dini si era fissato il meccanismo di calcolo contributivo (para attuariale) pro-rata a partire dal 1° gennaio 1996 per i contribuenti con meno di 18 anni di contribuzione. Successivamente, erano stati rimossi alcuni aspetti che indebolivano il meccanismo di calcolo attuariale (quali un’aliquota di contribuzione del 32,7 per cento per i dipendenti contro un’aliquota di computo del 33 per cento, oppure le troppo differenziate aliquote per tipo di reddito da lavoro in presenza di quote rilevanti di calcolo retributivo). Infine, con la riforma Fornero, dal 2012 tutte le residue quote pensionistiche ancora soggette al calcolo retributivo sono state trasformate pro-rata in calcolo contributivo. Cosicché negli anni è cresciuta notevolmente la quota di pensione frutto attuariale del proprio “accantonamento previdenziale”.

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Oltre a ciò, crescono le pensioni interamente calcolate col metodo contributivo, quali ad esempio quelle da “opzione donna” o dai transitati nella gestione separata. Per tutti costoro, dall’idea di ignorare gli altri redditi e subire un prelievo di solidarietà solo sul proprio reddito pensionistico, anche quando di entità modesta, risulta un’ancor più evidente disparità, con tratti di iniquità.

La terza e non meno importante causa di perplessità è collegata alla natura e condizione di pensionato, specie in un sistema a ripartizione, ma ormai palesemente ispirato ai principi attuariali. Quando si va in pensione cambia profondamente, e in misura crescente col tempo, la capacità di reagire agli eventi economici avversi, come l’inflazione. Il pensionato non ha la possibilità di variare i prezzi dei propri servizi, come può accadere agli autonomi, o contrattare i recuperi dell’inflazione, come può accadere ai dipendenti. Nella decisione sul pensionamento (quando consentito) entra dunque anche la valutazione del potere di acquisto, atteso come costante fino alla morte, proprio in virtù dell’indicizzazione.

Intervenire sui già pensionati riducendone il potere di acquisto, oltre che una disparità di trattamento rispetto agli altri redditi, è anche uno spiazzamento economico profondo, tanto più pesante quanto più alta è l’inflazione, quanto più si abbassano le percentuali di adeguamento al crescere del reddito (oggi fino al 35 per cento, cioè con perdita di potere di acquisto vicina ai due terzi dell’inflazione) e quanto peggio viene progettato il decalage.

Su quest’ultimo punto – la progressività per classi comunque denominata – è auspicabile che si arrivi a condividere l’obiettivo di eliminarla da ogni aspetto del nostro sistema di imposte e benefici.

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14 commenti

  1. Aldo Piperno

    Mi sembra che le disposioni in materia si applichino solo ai pensionati inps. E così? Che ne consegue?

  2. amadeus

    Intervento assai opinabile che confonde il taglio delle indicizzazioni con il prelievo fiscale, partendo dall’assunto che l’indicizzazione completa delle pensioni all’andamento dei prezzi al consumo sia un fatto inconfutabile (un diritto acquisito ?). Non lo è. Infatti non è ben chiaro perchè, mentre i salari non recuperano la perdita di potere d’acquisto, questo privilegio vada garantito alle pensioni. L’intervento poi non affronta minimamente il tema dello squilibrio crescente tra contributi incassati dall’INPS e prestazioni erogate. Tra l’altro giova ricordare che anche nel calcolo contributivo gli attuali coefficienti di trasformazione uniti alla presenza della reversibilità a favore dei superstiti sono tutt’altro che sostenibili dal punto di vista attuariale, oltre al fatto che si tratta di coefficienti che precontano un tasso di rendimento implicito. Tutti a ballare sul ponte mentre la nave affonda.

    • Autore

      L’ndicizzazione e la reversibilità sono già computate nel meccanismo di calcolo “attuariale” del sistema contributivo, sin dalla riforma Dini. E la Corte Costituzionale ha ricordato che incursioni sull’indicizzazione si possono accettare solo se sporadiche e non strutturali. Mentre sono ormai diventate un tratto del sistema.
      Sulla sostenibilità dei coefficienti di trasformazione, impensabile applicare incerte tabelle di mortalità attese per il futuro. Se la nave affonda, forse si dovrebbe cercare nei mille regali erogati in passato, in maniera molto differenziata e quasi casuale.
      Infine ho tentato di sottolineare che mentre il pensionato è fuori dal mercato del lavoro e dei price maker, dipendenti e autonomi possono reagire all’inflazione coi contratti e con i prezzi dei servizi resi.

      • GLi attuali coefficienti di trasformazione per pensioni integralmente contributive,anche tenendo conto della reversibilita’, sono del tuto allineati a quelli applicati da assicurazioni private in sede di trasformazione di un capitale in rendita. non e’ quindi assolutamente condivisibile l’affermazione che il trattamento pensionistico contributivo non sia sostenibile. anzi se si considera che il montante contributivo e’ costruito con indicizzazione al pil e non ad un tasso finanziario e neanche alla inflazione sembra molto difficile sostenere che una gestione con erogazioni così come calcolate con sistema contributivo non possa stare in piedi….anzi se ben gestita generebbe utili !

        Non parliamo poi di cosa succede ora con la non indicizzazione delle pensioni più alte…..se si facessero correttamente i conti l utile per il gestore sarebbe assai significativo !!!

    • Giorgio Lu

      Intanto da oltre dieci anni, con le indicizzazioni applicate, i pensionati non hanno mai recuperato la perdita progressiva del potere d’acquisto, rispetto alla quale non hanno altri strumenti a disposizione. Inoltre, se non lo sa, gli autonomi hanno la flat tax al 15%,i dipendenti possono difendersi con il rinnovo dei contratti di lavoro e con vari altri istituti (vedi riduzione% del cuneo fiscale, solo per loro). Pensi inoltre che un tempo le pensioni erano agganciate automaticamente al rinnovo dei contratti delle varie categorie di lavoratori attivi. Ancora non si prende mai in considerazione il fatto che un conto è una pensione di 1600 o 1700 netta a Milano e un altro la stessa cifra in molte località dove il costo (assoluto) della vita è ben più basso. Ora si prende di mira una categoria solo per garantire altri benefici (probabilmente) incostituzionali ad altre categorie di cittadini…e si passa per privilegiati.

    • Xchè non iniziano da loro ,tutti i parlamentari, devono adeguarsi alle pensioni di tutti gli italiani,e fare cumolo come tutti gli italiani, che il loro stipendio può essere trattenuto in caso di morosità di chicchessia, è quant’altro.togliere tutti i privilegi, portarli a livello di tutti gli italiani, come recita uno degli articoli della costituzione,ed eliminare gli articoli che li preservano

  3. Vincenzo Iaia

    Insieme con la disparità di trattamento dovuta al non tener
    conto di altri redditi oltre quello pensionistico, vorrei che si sottolineasse la non distinzione tra nucleo monoreddito e nucleo plurireddito. Insomma: due coniugi pensionati che dispongono di un solo assegno di pensione possono permettersi un tenore di vita uguale a quello di due coniugi titolari di una pensione a testa?

  4. Firmin

    È singolare che un governo che aveva promesso una flat tax per tutti ora tassi gli incrementi delle sole pensioni pubbliche con ben 8 aliquote. Il provvedimento non riguarda la previdenza complementare privata e altri redditi da capitale vengono addirittura detassati. Si noti anche che l’applicazione strutturale di questa forma di indicizzazione decrescente produce, dopo un certo numero di anni, l’appiattimento di tutte le pensioni attorno ad un unico valore. Così un governo di destra realizzerà i progetti del più ortodosso regime comunista. Vedremo cosa ne penserà la corte costituzionale (con i soliti tempi bibblici) e, prima di lei, i pensionati che votano.

    • Aldo Piperno

      Giusto, si tratta di un regime comunista di destra !!

    • Ricardo_D

      L’ennesima assurdità italiana. Ho fatto il conto, se mio padre avesse avuto una pensione lorda nel 2012 di 30mila euro (in realtà ce l’ha nel 2022) in Italia si sarebbe ritrovato solo poco piu di 33mila euro nel 2022. In UK questa sarebbe già 42mila. Questa deindicizzazione aggiuntiva è l’ennesima tassa nascosta. Ah, poi aggiungo anche la soglia per ottenere il beneficio del 90% sulla ristrutturazione della villetta singola a 30mila euro… come impoverire quelli che hanno lavorato per più di 45anni. Complimenti!

  5. Maurizio Cortesi

    Nei “quattro volte il minimo” rientrano molte se non tutte le pensioni baby del pubblico impiego, quel mezzo milione di pensionati da 40 anni, o sbaglio? A proposito di diritti quesiti…. Che il sistema pensionistico sia da ristrutturare profondamente è palese anzi per me bisognerebbe pensare ad eliminarlo – nel senso di abolire i contributi obbligatori non di impedire forme di assicurazione vitalizia volontaria e quindi strettamente contributiva – ma interventi come questo non fanno che aggiungere iniquità: un altro esempio di “gratta e vinci” fiscale che è ormai il metodo di queste fatidiche manovre annuali. È che bisogna cambiare metodo anche sulla previdenza e il reddito di cittadinanza è proprio uno strumento che potrebbe diventare il nuovo pilastro del wellfare e al tempo stesso della spending review in materia.

  6. Marcello Luberti

    Concordo con Firmin. Occorre considerare, nell’ottica del singolo pensionato, che la mancata o parziale indicizzazione della pensione (es. nel 2023) comporta un minor importo dell’assegno che va proiettato sull’intera aspettativa di erogazione della pensione. Sulle pensioni elevate, che sono sempre più calcolate in base al sistema contributivo, si giunge a una “imposta” paragonabile a una patrimoniale, senza strepiti di sorta.
    Ad esempio, su pensioni di 20mila euro lordi mensili ed inflazione al 10%, la minor valutazione annua sarebbe pari a € 16.900, da proiettare per es. 20 anni di erogazioni. Anche se l’inflazione regredisse nel 2024.
    Strepiti che si sarebbero levati sino al cielo nel caso di una imposta patrimoniale deliberata dalla Sinistra.

  7. alberto perelli

    quindi se uno prende un lordo di 1 euro sotto sopra la soglia dopo la rivalutazione decurtata prenderà una pensione inferiore di chi ha un lordo di 1 euro sotto la soglia e una rivalutazione più alta… è assurdo e probabilmente incostituzionale.

    La corte dei conti approva ?

  8. Antonio Rutigliano

    Dopo aver prolungato l’attività lavorativa per oltre 46 anni di contributi, per ottenere una pensione meno “povera” , cioè meno di 2000 € netti al mese con moglie a carico, la parziale indicizzazione imposta da Giorgetti e dalla Premier, di fatto hanno vanificato almeno tre anni del mio lavoro.
    Alla luce dei fatti (per me) sarebbe stato meglio andare in pensione appena maturato i previsti contributi, con questo assurdo metodo di rivalutazione pensionistico è premiato chi lascia il lavoro appena può e non chi cerca di incentivare il proprio montante contributivo.
    La cosa che mi lascia l’amaro in bocca non è solo il fatto che la mia pensione sarà rivalutata solo del 53% dell’inflazione, con riflessi negativi anche per gli anni futuri, (per problemi di bilancio statale ci potrebbe anche stare) ma il fatto che delle persone, che per libera scelta, abbiano deciso di lasciare il lavoro e di conseguenza versare meno contributi di me riceveranno una rivalutazione doppia della mia. Alla faccia della giustizia sociale, l’anno prossimo sarò retrocesso di una fascia.

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