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Perché non funziona il candidato-star

Salvo poche eccezioni, alle ultime elezioni i personaggi noti non sembrano essere stati in grado di attrarre un grande consenso, soprattutto quando sono stati paracadutati in collegi dove non risiedono. Per i partiti è un fatto su cui riflettere.

Un caso esemplare

Dopo il clamore per le presunte irregolarità di suocera e moglie nella gestione di alcune cooperative, il deputato Aboubakar Soumahoro torna ora a fare notizia per il suo passaggio al gruppo Misto della Camera. Alle elezioni del 25 settembre Soumahoro era stato eletto con Sinistra italiana-Europa verde, dopo essere stato candidato in quattro collegi plurinominali, distribuiti tra Nord e Sud, e in uno uninominale (dove non fu eletto). Evidentemente, la speranza era che la sua notorietà contribuisse a fare raggiungere a quell’alleanza elettorale la soglia del 3 per cento dei voti.

Sinistra italiana-Europa verde non sono stati il solo gruppo a candidare personalità conosciute dal largo pubblico, in uno o più collegi, ritenendo che proprio la loro notorietà potesse rendere anche sul piano elettorale. Le elaborazioni sui risultati delle elezioni dello scorso 25 settembre, di cui ci si è già occupati qui, non forniscono, tuttavia, un’indicazione univoca sulla rilevanza personale dei candidati nell’attrarre voti ai partiti o alle coalizioni che li hanno proposti agli elettori.

Pochi voti personali

Nei collegi plurinominali si vota su liste bloccate, senza poter esprimere preferenze. Dal risultato ottenuto da un partito in un collegio plurinominale non è, pertanto, possibile isolare il contributo personale di ogni candidato. Nei collegi uninominali è possibile distinguere i voti dati al solo candidato dai voti ricevuti dal partito (o coalizione) che lo esprime, di cui i voti personali sono parte. Sulla scheda gli elettori hanno trovato, per ogni partito o coalizione di partiti, un rettangolo con il nome e il cognome del candidato nel collegio uninominale e sotto un altro rettangolo con il contrassegno della lista o delle liste (in caso di coalizione) del collegio plurinominale, cui quel candidato era collegato. Votando una lista si votava automaticamente anche il candidato nel collegio uninominale a essa collegata. Si poteva però votare anche solo quest’ultimo e in qual caso il voto veniva attribuito anche alla lista cui era collegato (in caso di coalizione il voto era ripartito in base al peso dei voti raccolti da ognuno dei partiti che la formavano). Il numero totale di voti raccolti dal candidato nel collegio uninominale era, quindi, dato dalla somma dei voti di “stima” ricevuti dal candidato e dai voti di lista ricevuti dal partito (in caso di coalizione, dalla somma dei voti di lista dei partiti che ne fanno parte). Il rapporto tra il numero di voti al solo candidato e il numero totale dei voti raccolti dal partito può essere considerato un indicatore della capacità di attrazione soggettiva del concorrente alla gara elettorale.

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Considerando i circa 600 candidati nei collegi uninominali delle coalizioni di centrodestra e di centrosinistra e dei due partiti che hanno eletto deputati alla Camera (anche se non in collegi uninominali), si riscontra che poche volte la quota dei voti data solo ai candidati ha un certo peso. È irrisorio il numero di candidati il cui consenso personale ha portato ai loro partiti un numero di voti superiore al 15 per cento di quello totale. Per oltre un quarto di tutti i candidati, i voti ricevuti sui loro nomi costituiscono al massimo il 3 per cento del totale delle preferenze accordate ai loro partiti nei diversi collegi. Più di 200 candidati hanno raccolto meno di mille voti personali, una ventina più di quattromila. In via generale, i dati sui voti raccolti dai soli candidati mostrano che quelli presentati dalle due coalizioni di partiti (soprattutto quella di centrodestra) hanno una minore forza di attrarre consensi personali rispetto ai candidati dei singoli partiti. Non ci sono però elementi per stabilire se le differenze tra partiti e coalizioni riflettano una diversa propensione dei rispettivi elettorati alla personalizzazione del voto oppure se devono essere attribuite a una differente abilità dei partiti nella selezione dei candidati. La distribuzione dell’incidenza dei voti personali sul totale dei voti dei singoli candidati mostra una concentrazione degli eletti sulle percentuali più basse maggiore di quella che si registra per la totalità dei candidati.

Più della star poté il notabile

Un esame della rilevanza dei voti personali raccolti dai candidati mostra che, salvo poche eccezioni, quelli che godono di una più o meno diffusa notorietà a livello nazionale non sembrano essere in grado di attrarre un grande consenso elettorale sui loro nomi; tanto meno quando sono stati paracadutati in collegi dove non risiedono. La più elevata capacità di attrazione risulta esercitata da candidati non noti su scala nazionale, ma più radicati e presenti nel territorio e nei partiti locali, e che perciò raccolgono voti di stima o di notabilato.

Solo in tre collegi i voti personali sono stati determinanti per l’attribuzione del seggio (Genova municipio I centro-est, Roma municipio VII, Cosenza); in un altro paio hanno portato il candidato miglior perdente a ridosso del vincitore (collegi di Ravenna e Torre del Greco). Dove questo si è verificato, ciò non è stato dovuto però a un rilevante scarto tra i voti di stima ricevuti dai candidati, bensì alla pressoché uguale forza di attrazione dei loro partiti in quei collegi. Nei restanti collegi gli eletti non devono l’elezione all’avere raccolto più voti personali di quelli che sono risultati i loro concorrenti più diretti e, viceversa, la sconfitta dei migliori perdenti non è stata dovuta all’avere mobilitato un elettorato personale meno numeroso dei vincitori. Quando i voti di differenza tra il vincitore e il suo più prossimo inseguitore sono più di 10 mila (come è successo in più di otto collegi su dieci) e la differenza di voti personali non va oltre il 10 per cento, è molto probabile che, in ognuno di quei collegi, anche con un altro candidato il partito vincitore e quelli perdenti sarebbero stati gli stessi.

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In linea generale, non sembra essere stata la capacità di attrazione soggettiva dei candidati a decidere il vincitore e i perdenti nei singoli collegi. Poiché, nella maggioranza dei casi, la differenza dei voti personali tra chi vince e chi perde ė solo una piccola frazione della differenza di voti tra i rispettivi partiti, è stato quest’ultimo scarto a decidere l’esito della competizione tra i candidati.

Ciò si conferma anche nelle competizioni con la partecipazione di candidati ritenuti di prestigio dai gruppi dirigenti nazionali dei partiti. Nei collegi considerati “blindati” da ogni partito, o con elevate probabilità di vittoria, non di rado sono stati catapultati candidati che con quei territori nulla avevano a che fare, e che alla conta dei voti personali risultano accolti con una certa indifferenza dagli elettori locali. In prospettiva, per i partiti dovrebbe essere motivo di riflessione il fatto che i candidati locali, radicati nei territori dei collegi, hanno raccolto un consenso personale relativamente più consistente rispetto a quello dei candidati con grande notorietà, vera o presunta. Più che sui personaggi, ai partiti converrebbe, allora, puntare sulle persone.

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  1. Savino

    Non funzionano questi partiti che rappresentano intrecci trasversali di tanti micro interessi particolari i quali vengono racchiusi nel ridicolo di liste civiche insipide. Ma mi permetto di dire che, a monte, prima del 1992, non funzionavano neanche i partiti di massa di allora che erano più propriamente dei partiti di gregge.

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