Nel nuovo mandato, Lula sembra aver abbandonato il percorso di responsabilità fiscale che ha contraddistinto la sua prima presidenza. Aumento della spesa corrente, alta inflazione e crescita bassa possono diventare una miscela pericolosa per il Brasile.

Speranze tradite, illusioni perdute

Un mese dopo l’insediamento del nuovo presidente, Luiz Inácio Lula da Silva, inizia a essere più chiara la direzione della politica economica del Brasile per i prossimi quattro anni. È una traiettoria che amplifica il pessimismo sui mercati registrato alla vigilia delle elezioni dello scorso ottobre. Il rischio percepito è che il terzo mandato di Lula non riprenda il percorso di responsabilità fiscale che ha contrassegnato la sua prima presidenza (2003-2006), ritornando invece alla cosiddetta “Nuova matrice economica” attuata durante gli anni di governo della sua delfina, Dilma Rousseff (2011-2016): un mix di aumento massiccio di spesa pubblica e abbandono del “treppiedi macroeconomico” (ampi avanzi primari, regime di inflation targeting e cambio flessibile) creato durante l’amministrazione di Fernando Henrique Cardoso per stabilizzare l’economia brasiliana, e che aveva portato a ottimi risultati.

La candidatura di Lula ha raccolto una certa simpatia negli ambienti del mercato finanziario brasiliano. Soprattutto tra le grandi famiglie di banchieri, che lo hanno appoggiato con dichiarazioni pubbliche e generose donazioni. A chi chiedeva se non fossero preoccupati per la tenuta dei conti pubblici – viste le munifiche promesse fatte dal candidato del Partito dei lavoratori (Pt) – veniva risposto che “Lula avrebbe moderato i toni”, avrebbe “accennato al centro per conquistare gli indecisi” e che ci sarebbe stata una nuova “Lettera ai brasiliani”. Una riedizione del famoso documento pubblicato dal presidente pochi mesi dopo la sua prima elezione, nel 2002, per tranquillizzare i mercati, nel quale garantiva che non ci sarebbero stati scossoni fiscali o cambiamenti economici radicali.

L’atteso pragmatismo, tuttavia, non si è materializzato. Al contrario, poco prima del voto Lula ha pubblicato una “Lettera al mercato” annunciando che, tra le altre cose, avrebbe eliminato il tetto massimo costituzionale di spesa pubblica (che limita l’incremento delle uscite al tasso di inflazione dell’anno precedente), aumentato il salario minimo in termini reali e potenziato le banche statali come vettori per la creazione di “campioni nazionali”. Il paese, poi, avrebbe dovuto trovare un nuovo modello di sviluppo, riducendo gli acquisti dall’estero di beni e servizi. Un ritorno al classico modello di sostituzione delle importazioni che portò il Brasile al disastro del “decennio perduto” degli anni Ottanta, con azzeramento della crescita economica, perdita di competitività internazionale, dissesto della finanza pubblica e iperinflazione.

A chi ancora dubitava delle intenzioni del nuovo governo è bastato attendere qualche giorno dalla vittoria elettorale. A novembre, infatti, il Pt ha presentato una proposta di emendamento alla Costituzione per violare il tetto massimo di spesa pubblica e ottenere 200 miliardi di real addizionali (circa 40 miliardi di euro) addizionali, pari a circa il 4 per cento del Pil. Una “bomba fiscale” presentata ancor prima dell’insediamento del nuovo governo, provocando nervosismo tra gli operatori economici. Non a caso, negli ultimi giorni il rendimento dei titoli pubblici legati all’inflazione è arrivato a livelli record e la loro maturazione media si è ridotta.

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Populismo fiscale e inquietudine dei mercati

Se le promesse venissero realizzate, si tratterebbe del maggior aumento di spesa pubblica della storia del paese, al netto di guerre e pandemie. E ciò in un momento in cui l’inflazione, sebbene in rallentamento, continua a essere elevata e la Banca centrale del Brasile (Bcb) – formalmente indipendente dal governo – porta avanti una politica monetaria restrittiva. La Bcb è stata infatti la prima banca centrale ad avviare la stretta monetaria già nel marzo 2021 aumentando i tassi ufficiali di 1,175 punti base in poco più di un anno, fino al 13,75 per cento dallo scorso agosto. Uno sforzo deliberato da parte del governatore Roberto Campos Neto per contrastare l’inflazione, anticipando di quasi un anno Federal Reserve e Banca centrale europea.

L’espansione fiscale prevista dal governo per i prossimi anni sarà concentrata in spese correnti, principalmente in programmi sociali, e non in investimenti. Obiettivo nobile, ma perseguito a discapito del possibile aumento del Pil potenziale e con strumenti di efficacia quantomeno contestabile. Ad esempio, con il programma di redistribuzione diretta di reddito “Auxílio Brasil”, creato dall’ex presidente Jair Bolsonaro durante la fase più acuta della pandemia di Covid-19, che ha dato benefici a oltre 20 milioni di famiglie (circa il 25 per cento della popolazione totale in Brasile) erogando mensilmente tra i 600 e i 1.200 real (circa 120 – 240 euro). Un valore equivalente a quasi il 90 per cento del reddito medio del lavoratore brasiliano, nettamente superiore a quanto pagato dal “Bolsa Família” lanciato da Lula nel 2003, che era arrivato fino a un massimo di 390 real.

Ora, il nuovo presidente ha deciso di rendere permanente l’“Auxílio Brasil”, con un costo di circa 60 miliardi di real, pari all’1,5 per cento del Pil, ma senza adottare misure correttive che possano contenere le numerose frodi che lo contraddistinguono, come ad esempio nel caso delle famiglie che si separano fittiziamente, creando nuclei indipendenti solo poter ricevere maggiori quantità di denaro pubblico. I progetti di riforma delle politiche di welfare attualmente all’esame del Congresso nazionale permetterebbero di contrastare la povertà con una spesa molto minore. Ma ciò avrebbe un prezzo elettorale che Lula non ha intenzione di pagare, visto il suo già basso consenso.

Il Tesoro accelera, la Banca centrale frena

Una politica fiscale espansiva di questa magnitudine condurrà nel breve periodo a un’accelerazione della domanda aggregata, rendendo ulteriormente difficile il lavoro della Bcb per riportare le aspettative di inflazione in linea con l’obiettivo. La discussione su un possibile aumento dell’obiettivo di inflazione contribuisce a rendere tutto più complesso. La Banca centrale potrebbe essere costretta ad aumentare ancora i tassi o, quantomeno, ad aspettare più tempo per iniziare la riduzione, con un costo elevato in termini di minore crescita, disoccupazione e incremento dell’indebitamento pubblico.

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In sostanza, se il Tesoro brasiliano preme sull’acceleratore per cercare di mantenere la crescita del Pil nonostante i complicati segnali domestici e internazionali, la Banca centrale preme sul freno. Con il rischio di un testacoda per tutta l’economia brasiliana. 

Con una prospettiva del genere, i mercati hanno iniziato a dare segnali di inquietudine. La curva dei tassi di interesse è diventata una retta, con una previsione attorno al 13,75 per cento l’anno almeno fino al 2030. È un aspetto preoccupante, dato che con un’inflazione prevista attorno al 5 per cento, il tasso di interesse reale, e quindi anche l’aumento del debito pubblico, sarà dell’8 per cento all’anno. Con l’attuale rapporto debito-Pil del 74,5 per cento e con una bassa crescita, stimata allo 0,80 per cento nel 2023, esiste un pericolo concreto di sostenibilità delle finanze pubbliche.

L’unica buona notizia – o forse un’ultima speranza – viene dall’estero. L’opinione diffusa sulla Avenida Faria Lima, la Wall Street di San Paolo, è che lo scenario geopolitico sia momentaneamente favorevole al Brasile. Principalmente a causa dell’attesa ripresa cinese del 2023, che potrebbe portare a un aumento delle quotazioni delle principali materie prime esportate dal paese sudamericano. La Cina rappresenta oltre il 30 per cento della bilancia commerciale brasiliana e durante i suoi primi due mandati Lula ha approfittato di un inedito boom delle commodities, che ha fornito le risorse necessarie a finanziare i suoi programmi sociali. Molti fondi americani, che non possono investire direttamente in Cina per contabilità, compliance e guerra commerciale, guardano a Brasilia per posizionarsi indirettamente sulla crescita di Pechino. Anche per questo motivo, gli investimenti stranieri alla borsa di San Paolo sono arrivati al record storico di 100 miliardi di reais nel 2022. Ma se gli stranieri comprano azioni locali, i brasiliani – sempre più preoccupati – vendono. Ecco spiegato perché l’Ibovespa è rimasto sostanzialmente invariato nelle ultime settimane. Mentre per quanto riguarda il cambio, il real rimane stabile grazie alla bilancia commerciale, che ha chiuso il 2022 con un surplus record di 62,3 miliardi di dollari, nonostante l’inedito numero di brasiliani che iniziano a portare i loro risparmi fuori dal paese.

Il rischio di stagflazione per la maggiore economia latino-americana è molto concreto. Con possibili ripercussioni politiche, dato che, storicamente, in Brasile i presidenti cadono per due motivi: inflazione e corruzione.

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