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Autore: Massimo Bordignon Pagina 21 di 24

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Si è laureato in Filosofia a Firenze e ha svolto studi di economia nel Regno Unito (MA, Essex; PhD, Warwick). Si occupa prevalentemente di temi di economia pubblica. Ha insegnato nelle Università di Birmingham, Bergamo, Brescia, Venezia e come visiting professor negli USA, in Svezia, Germania e Cina. Attualmente è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l'università Cattolica di Milano, dove ha diretto anche il Dipartimento di Economia e Finanza e la Doctoral School in Public Economics. Ha svolto e svolge tuttora attività di consulenza per enti pubblici nazionali e internazionali ed è stato membro di numerose commissioni governative, compresa la Commissione sulla Finanza Pubblica presso il Ministero del Tesoro nel 2007-8. È attualmente membro dell'European Fiscal Board, un comitato di consulenza del Presidente della Commissione Europea e Vicepresidente esecutivo dell'Osservatorio sui conti pubblici dell'Università Cattolica.

Legge elettorale: davvero così importante?

Ma davvero, con tutti i problemi che ha l’Italia, la riforma della legge elettorale è una questione così rilevante? Se ci sono tanti partiti, non sarà semplicemente perché è la frammentazione della società italiana a richiederlo? E comunque, che c’entra la legge elettorale con la qualità della politica e in particolare della politica economica? Qualche dato per discuterne. E anche per orientarsi nel dibattito in corso.

Rebus italico

Le dimissioni del governo Prodi hanno riportato in primo piano il problema della governabilità del paese. E riproposto la vera questione: il bicamerilasismo perfetto. Tuttavia, se a parole tutti vogliono trasformare il Senato in una camera regionale con compiti limitati, non sembrano esserci né le condizioni politiche né i tempi per una riforma costituzionale di questa portata. Mentre si profila una revisione della legge elettorale incapace di incidere sui difetti fondamentali del sistema. Anche perché nessuno sembra volere un ritorno al maggioritario.

Quando la redistribuzione passa per l’addizionale

La Finanziaria 2007 consente agli enti locali di incrementare le addizionali Irpef e Irap. Che interessano anche i redditi più bassi. Chi le adotta, dunque, minerebbe l’azione redistributiva decisa dal governo. Non è così. Perché l’Irpef come strumento redistributivo ha molti limiti. E perché non è solo con il prelievo che si attua la redistribuzione. Buona parte della spesa comunale ha finalità dichiaratamente sociali. Bisogna quindi considerare come i comuni utilizzano le risorse aggiuntive e le possibili alternative per reperirle.

Il Patto in Comune (scheda d’approfondimento)

La distribuzione dei sacrifici tra comuni

Ma come viene distribuito l’onere tra comuni? Per discuterne, è necessario entrare nei dettagli. Concentriamoci per semplicità sul solo 2007 (1). Il riequilibrio per ciascun comune è la somma algebrica di due elementi. In primo luogo, si chiede ai comuni di ridurre del 50% nel 2007 il disavanzo di cassa medio registrato nel triennio 2003-2005 (2). Ciò significa che ciascun comune deve ridurre le spese o aumentare le entrate in modo tale da garantire un miglioramento nel saldo di bilancio (sia per la cassa che per la competenza) pari al 50% del disavanzo annuale medio nel periodo 2003-05. Per definizione, questa correzione non riguarda i comuni in avanzo nel periodo considerato. Il secondo elemento è invece universale, e richiede a tutti i comuni di migliorare il saldo di bilancio in misura pari al 3,4% dei pagamenti correnti effettuati in media nel periodo 2003-05. A sua volta, questa percentuale viene determinata in modo da garantire per il complesso dei comuni una riduzione pari alla metà del disavanzo di cassa registrato in media dai comuni nel 2003-05. In altri termini, la manovra si propone di eliminare del tutto il disavanzo di cassa registrato dal complesso dei comuni già nel 2007; metà di quest’aggiustamento è attribuito agli stessi comuni in disavanzo; l’altra metà a tutti i comuni (compresi dunque sia quelli in avanzo che in disavanzo), in una misura direttamente proporzionale alla propria spesa corrente.

Le ragioni del Patto

La ragione di questo complicato meccanismo è probabilmente duplice. Da un lato si vuole evitare di pesare eccessivamente sui soli comuni in disavanzo, ma garantendo al contempo l’obiettivo di un’eliminazione completa dei disavanzi già nel 2007. Dall’altro, si vuole coinvolgere tutti i comuni, compresi quelli "virtuosi", nel processo di aggiustamento. E’ chiaro inoltre che l’uso alla spesa corrente come indicatore per la distribuzione (di metà) dell’aggiustamento è una scelta puramente discrezionale del legislatore. Deciso l’onere dell’aggiustamento da attribuire alla totalità dei comuni, questo avrebbe potuto essere diviso in qualunque modo tra quest’ultimi, per esempio, in base al pro capite o al reddito pro capite di ciascun comune (per fasce dimensionali) o a una qualunque combinazione di questi due. La scelta della spesa corrente riflette probabilmente un intento paternalistico da parte del governo; la spesa in conto capitale è meritoria e va incentivata (o per lo meno non disincentivata), quella corrente va penalizzata. Così, per esempio, due comuni con lo stesso saldo di bilancio, ma con una diversa composizione del bilancio, devono contribuire all’aggiustamento in modo diverso, proporzionalmente maggiore per i comuni con una spesa corrente maggiore.

Le difficoltà del Patto

Le ragioni del governo nella costruzione del Patto di Stabilità interna sono dunque comprensibili, ma non per questo prive di controindicazioni. Non è del tutto ovvio per esempio perché si debba necessariamente privilegiare la spesa in conto capitale a fronte di quella corrente. Con la spesa corrente si finanziano molti servizi ai cittadini, mentre viceversa si possono sprecare i soldi anche investendo in opere inutili. Si sarebbe potuto individuare un indicatore più oggettivo per il riparto dell’onere tra i comuni. Una giustificazione della scelta del governo può essere il voler evitare che i comuni, messi alle strette, riducano la spesa in conto capitale più che quella corrente, in genere più difficile da controllare sul piano politico.
In secondo luogo, mentre la spesa corrente è sicuramente più stabile di quella in conto capitale, anche questa varia considerevolmente per periodi, per dimensione territoriale dei comuni e per singoli comuni. La tabella 1, costruita a partire dai dati di bilancio dei comuni capoluogo per il periodo 1998-2001 illustra, per esempio, che i comuni più grandi spendono molto di più di quelli più piccoli, e che vi sono variazioni consistenti per periodi anche lunghi tra comuni. Ciò significa che il 3,4% di riduzione della spesa corrente uniforme tra comuni può generare variazioni molto consistenti in termini di onere di aggiustamento, pari a quasi il 100% nel nostro campione in termini procapite.
In terzo luogo, l’indicatore suscita qualche perplessità, anche supponendo che l’obiettivo sia quello di incentivare la spesa in conto capitale. Per esempio, è ben possibile che un comune, pur presentando lo stesso saldo di un altro, spenda più di quest’ultimo sia per la spesa in conto corrente che per quella in conto capitale. In questo caso, il primo comune è sottoposto ad un aggiustamento maggiore del secondo, senza che ne sia del tutto chiara la giustificazione teorica.

Tabella 1

Spese correnti per classi di popolazione, pagamenti

(comuni capoluogo; euro pro capite)

Classi di popolazione 1998 2001 Variaz. %
meno di 50.000 651 759 +16,6
da 50.000 a 70.000 590 663 +12,4
da 70.000 a 100.000 699 773 +10,6
da 100.000 a 200.000 696 795 +14,2
da 200.000 a 500.000 802 966 +20,4
oltre 500000 819 1051 +28,3
  687 793 +15,4

La sostenibilità individuale dei sacrifici

La tabella 2 suggerisce invece qualcosa sull’ordine di grandezza dell’aggiustamento imposto in media a ciascun comune. Poiché la spesa corrente è circa il 75% della spesa complessiva di un comune, e poiché è presumibile che la spesa complessiva dei comuni tra il 2004 e il 2006 sia cresciuta almeno in misura pari al tasso di inflazione cumulato nel biennio, ciò significa che l’aggiustamento richiesto nel 2007 rispetto al 2006 sia in media per i comuni attorno al 2,4% della propria spesa complessiva (i.e. 0.034 per 0.70). Cioè in media, solo per la componente relativa alla spesa corrente, ciascun comune deve ridurre la propria spesa o aumentare i propri tributi nel 2007 per una percentuale pari a circa il 2,4% della spesa complessiva del 2006. Si osservi che, per costruzione, per i comuni in disavanzo, questo aggiustamento in media deve essere almeno pari al doppio di questa cifra (sarebbe esattamente uguale al doppio se tutti i comuni fossero in disavanzo, mentre in realtà molti sono in avanzo).

Tabella 2

Risparmi di spesa per classi di popolazione

(comuni capoluogo; euro pro capite; simulazione 1999-2001)

  Tutti i comuni Popolazione <50.000 Popolazione tra 50.000 e 100.000 Popolazione tra 100.000 e 300.000

Popolazione

>300000

n. osservazioni 101 20 42 29 10
Media 25,3 24 23 26,1 33
Mediana 24,4 24 23 25,8 34
Massimo 46 33 30 46 38
Minimo 11 16 11 18 21
Standard deviation 5,4 4 4 5,5 5,3

1) Il patto di stabilità interna in realtà opera per il triennio 2007-9, ma 1) l’onere principale dell’aggiustamento è concentrato sul 2007 e 2)l’esperienza insegna che i patti tendono a essere modificati anno su anno, per cui appare ragionevole evitare complicazioni, discutendo solo il 2007.
2) Il 2005 è l’ultimo anno per cui dati certi sono disponibili per la cassa; e l’uso della media triennale, invece del solo 2005, intende ridurre le oscillazioni annuali, dovute in particolare all’evoluzione delle spese in conto capitale.

Il Patto in Comune

La Finanziaria chiede molto agli enti locali in termini di miglioramento dei saldi. Ma non è vero che le risorse addizionali offerte non sono sufficienti a garantire i servizi, almeno per l’aggregato. E’ vero però che per i comuni in disavanzo la correzione richiesta è robusta, superiore in media al doppio di quella complessiva per il settore pubblico. Questi problemi sono esacerbati dalla scelta della spesa corrente come criterio per la distribuzione dei sacrifici. E le sanzioni vanno modificate; così rischiano di essere controproducenti. In seconda pagina, una scheda di approfondimento.

Sanità, oh cara …

Per il 2007 il “patto per la salute” siglato da esecutivo e regioni prevede un maggiore esborso dello stato in cambio dell’impegno dei governatori a stabilizzare la spesa sanitaria al 6,7 per cento del Pil e del mantenimento delle sanzioni automatiche per gli inadempienti. Ma perché la sanità è una spina nel fianco di tutti i governi? E come uscirne? Dovremmo superare i limiti di una programmazione puramente finanziaria della spesa. E definire i livelli essenziali di assistenza sulla base delle risorse disponili. Legandone la quantificazione ad analisi empiriche e best practice.

Quanto vale il Patto di stabilità interno

Il contributo degli enti territoriali alla manovra finanziaria può realisticamente essere solo marginale, attorno ai 2-3 miliardi di euro al massimo. Anche se non necessariamente implica un risparmio per l’erario, è una buona idea sostituire i vari vincoli sulla spesa locale con uno sul saldo. Contemporaneamente, però, andrebbe rimosso il blocco sulle addizionali regionali e comunali. Restano da risolvere le questioni di quale saldo utilizzare e se inserirvi la spesa per investimenti. Tuttavia, per il futuro serve un sistema adeguato di sanzioni e incentivi.

Il federalismo dietro il referendum

Più chiari i rapporti tra livelli di governo se la riforma costituzionale esce confermata dal referendum? Non proprio: il limite principale delle nuove norme è di prevedere troppi decisori. Il rischio è la confusione e la crescita della spesa. Se è vero che si supera il bicameralismo perfetto, si definisce “federale” un Senato che ha pochi legami con i territori. Quanto al federalismo fiscale, rimane del tutto inalterato l’articolo 119, che invece andrebbe modificato. E con le norme di transizione c’è il rischio che a Regioni ed enti locali sia tolta ogni autonomia sulle proprie entrate.

Ma i conti non tornano

A quindici giorni dalle elezioni i numeri forniti dal ministero dell’Interno continuano a suscitare dubbi. Il dato che colpisce maggiormente è la percentuale di partecipazione al voto. Il ministero indica per la sola Italia un’affluenza dell’83,6 per cento. Nostri calcoli la fissano a circa l’82 per cento. Inferiore dell’1,72 per cento rispetto al 2001. Con buona pace della retorica sulla “straordinaria mobilitazione degli elettori”. Vero invece che i voti validi sono aumentati. Ma solo perché il sistema era più semplice?

Il match point del doppio turno

Il problema dell’Italia non è la sostanziale equivalenza in termini di consenso delle due coalizioni. Anzi, significa che il sistema politico italiano ha ormai trovato un suo schema bipolare e competitivo. La questione è invece la legge elettorale, che va cambiata. Il maggioritario a doppio turno, già utilizzato nell’elezione dei sindaci, unisce due pregi: limita la capacità di ricatto dei partiti estremisti e consolida gli incentivi all’aggregazione tra le forze politiche in due schieramenti contrapposti. E va abbandonato il bicameralismo perfetto.

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