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Categoria: Conti Pubblici Pagina 78 di 102

L’OPERA DA TRE SOLDI. PUBBLICI?

Per aumentare l’accesso del pubblico alla cultura serve il finanziamento pubblico a teatri ed enti lirici oppure è meglio incentivare la presenza di produttori e donatori privati? L’esperienza degli Stati Uniti dimostra che di per sé una maggiore partecipazione di risorse private non risolve il problema. Così come sono inefficaci le politiche incentrate su sussidi all’offerta per mantenere basso il prezzo dei biglietti. Ma è comunque possibile aumentare l’efficacia del sistema italiano. Guardando per esempio a soluzioni olandesi.

LA FOGLIA DI FICO DEI NEMICI DEL REFERENDUM *

I nostri calcoli sui risparmi possibili con un vero election day che accorpi elezioni europee, amministrative (là dove si terranno a giugno) e referendum sulla legge elettorale hanno raccolto vasta approvazione e messo in imbarazzo coloro che vorrebbero affossare il referendum. Tra questi ultimi, qualcuno ha pensato di salvarsi in corner con la proposta del referendum accorpato al ballottaggio delle amministrative. Ma la sostanza non cambia: si risparmierebbero solo 87 milioni anziché 400. Ecco i nostri nuovi calcoli.

MA QUANTO COSTA IL SUSSIDIO UNICO DI DISOCCUPAZIONE?

Secondo le nostre stime, un sussidio unico garantito a tutti i disoccupati, indipendentemente dal tipo di contratto, assicurando in partenza il 65 per cento della retribuzione precedente e non meno di 500 euro al mese costerebbe a regime circa 15,5 miliardi. Sostituirebbe però indennità di mobilità, sussidi di disoccupazione ordinari e a requisiti ridotti e gestioni speciali per edilizia e agricoltura che ammontano in media a 7,5 miliardi all’anno. Potrebbe essere interamente finanziato con un contributo di circa il 3 per cento delle retribuzioni. Anche se nella fase di transizione alcuni costi dovrebbero essere coperti dal bilancio dello Stato.

L’OTTIMISMO DELLA PREVISIONE*

Un’ondata di revisioni al ribasso della crescita si abbatte sulle stime ufficiali di governi e organizzazioni internazionali, che continuano a restare ancorate a un certo ottimismo. Una situazione già vista all’epoca della crisi asiatica del 1997. Allora come ora l’idea è che pubblicare stime pessimistiche peggiori la situazione. Ma è accettabile che organizzazioni multilaterali e governi facciano un uso strategico dell’informazione? Soprattutto, che cosa succede alle aspettative quando gli operatori di mercato si trovano ad affrontare continue revisioni al ribasso?

400 MILIONI PER FAR FALLIRE IL REFERENDUM *

Abbiamo in questo momento tre obblighi elettorali: elezioni europee, amministrative, referendum sulla legge elettorale. Il buon senso suggerisce di accorparle in un’unica scadenza. Ma il Governo ha deciso di abbinare in un’unica data soltanto le prime due consultazioni. E appare intenzionato a far tenere in data separata il voto referendario. Votare un altro giorno comporta un costo per la collettività di circa 400 milioni di euro. In tempi difficili come questi sarebbe bene utilizzare tali risorse per altri scopi.

CHI HA PAURA DEI SUSSIDI DI DISOCCUPAZIONE?

Governo e Regioni hanno trovato un accordo per il finanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga: 8 miliardi di euro per i prossimi due anni. Ne saranno comunque esclusi i lavoratori più deboli. Una riforma strutturale è dunque necessaria e ancora più urgente per l’aggravarsi della crisi. Ecco tre proposte ispirate al principio secondo cui il mantenimento del reddito in caso di perdita o assenza di lavoro dovrebbe essere un diritto di tutti. Le stime di spesa e le indicazioni per recuperare le risorse necessarie al finanziamento delle misure.

COSI’ IL DEFICIT SI AVVICINA AL 4,5 PER CENTO

La crescita economica è inferiore alle attese già pessimistiche: nel quarto trimestre il calo del Pil è stato dell’1,8 per cento invece dell’1,6 previsto. Il dato provvisorio per il 2008 arriva così al -0,9 per cento. Peggiorano di conseguenza le prospettive della finanza pubblica e del deficit per il 2009. Ecco spiegata la prudenza di Tremonti dei mesi scorsi. Purtroppo, proprio ora che ce n’è bisogno, è stretto lo spazio di manovra per politiche fiscali espansive.

NON CI RESTA CHE CRESCERE

Si riaffaccia sui mercati il rischio-paese, confermato dalla pessima situazione economica e finanziaria di numerosi stati. In Italia è visto come un limite all’attuazione di una politica economica espansiva. E la questione torna a essere quella di garantire la sostenibilità del debito in maniera credibile. La strada migliore è un’azione volta a innalzare il tasso di crescita del prodotto. Se la crescita non ripartirà, anche gli equilibri del nostro bilancio pubblico resteranno fragili, obbligando il governo a politiche di carattere quasi punitivo nelle fasi basse del ciclo.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

I dati presentati nell’articolo sono forniti dall’ISTAT, ricavati dall`Indagine sui consumi delle famiglie. L’Istituto propone un’analisi delle condizioni di titolarità della casa d’abitazione e dell’incidenza d’affitti e mutui sulla spesa di diverse tipologie familiari (per età, classi di spesa, aree geografiche, composizione familiare).
Nel 2006, il 73,3 per cento delle famiglie residenti (17,3 milioni su un totale di 23,6) e il 74,7 per cento degli individui (43,6 milioni) viveva in abitazioni di proprietà. In questa percentuale sono incluse anche le famiglie con un mutuo, che sono circa 10.1 percento dei proprietari. Chiaramente questo dato include tutti i nuclei familiari registrati all’anagrafe come residenti. Per cui se un giovane ha la residenza con i genitori che sono proprietari di una casa, questa famiglia viene inclusa nel 73%.  E cosi’ anche se in un nucleo familiare di 5 persone la casa è del padre, nella statistica la famiglia risulta proprietaria dell’abitazione. Un ulteriore 9,1 per cento di famiglie (2,1 milioni) e l’8,7 per cento di individui beneficiava di alloggi in usufrutto o ad uso gratuito. Il rimanente 17,7 per cento di famiglie (4,2 milioni) e 16,6 per cento d’individui (9,7 milioni) era in affitto (vedi tabella 1).
Scorporando i dati  per l’età della persona di riferimento della famiglia, emerge quello che citava Gianluca. Tra i 2,1 milioni di famiglie ‘giovani’ (con persona di riferimento di età inferiore ai 35 anni), corrispondenti a 4,8 milioni di individui, si rileva infatti una quota di proprietari notevolmente inferiore alla media (il 50,8 contro il 73,3 per cento) e, insieme, una più elevata quota di mutuatari (il 18,9 contro il 10,1 per cento). In ragione di una minor diffusione della proprietà, tra le famiglie giovani si osservano quote quasi doppie rispetto alla media sia di affittuari (il 32,7 contro il 17,7 per cento) che di usufruttuari (il 16,5 contro il 9,1 per cento).

LA SENTENZA EUROPEA E LA RIFORMA DELLE PENSIONI*

LA CONTROVERSIA COMUNITARIA

Con la sentenza del 13 novembre 2008, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato la Repubblica italiana per la normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia ad età diverse a seconda che siano uomini o donne. La procedura di infrazione non riguarda i dipendenti privati, perché il regime previdenziale amministrato dall’Inps è considerato un regime c.d. legale, di natura previdenziale in senso tecnico, conforme alla normativa comunitaria. Il regime gestito dall’Inpdap rientra invece, secondo la Commissione e la Corte di giustizia, tra i c.d. regimi professionali, ovvero quei regimi nei quali il trattamento pensionistico è pagato al lavoratore direttamente dal datore di lavoro. Ora, poiché l’art. 141 del Trattato Ce definisce come retribuzione “il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore, in ragione dell’impiego di quest’ultimo”, il divieto di ogni discriminazione retributiva in base al sesso va applicato anche alle pensioni dei dipendenti pubblici. Dalla sentenza della Corte di Giustizia deriva dunque, per lo Stato italiano, l’obbligo di parificare l’età pensionabile dei pubblici dipendenti tra uomini e donne quanto alla pensione di vecchiaia.
Il 13 gennaio 2009 il Governo ha inviato una nota alla Commissione europea nella quale si assicura la volontà dell’Italia di adempiere alla sentenza, si rappresenta che le possibili soluzioni tecniche sono allo studio, che esse saranno applicate secondo criteri di gradualità e flessibilità e, infine, che maggiori ragguagli circa le soluzioni prescelte saranno forniti al più presto. In caso di mancato adeguamento, la Commissione aprirebbe formalmente la procedura con una lettera di messa in mora. Le sanzioni consistono in una somma forfetaria e in una penalità di mora. Per l’Italia è stata fissata una somma forfetaria minima di 9.920.000 euro, mentre la penalità di mora può oscillare tra 22.000 e 700.000 euro per ogni giorno di ritardo nell’attuazione della seconda sentenza, a seconda della gravità dell’infrazione. Si tratta, come si vede, di somme molto ingenti.
L’urgenza di ottemperare alla sentenza deriva anche dal fatto che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria senza doverne attendere la previa rimozione da parte del legislatore. Oggi, infatti, un dipendente pubblico di sesso maschile potrebbe adire il giudice nazionale per ottenere la pensione di vecchiaia a 60 anni, invocando la norma che prevede tale facoltà per le donne.

IL SISTEMA PENSIONISTICO ITALIANO

I dati sulle prestazioni di vecchiaia delle lavoratici del settore pubblico (per le quali il pensionamento a 60 anni è una possibilità non vincolante, introdotta con la riforma del 1995) consentono di evidenziare la consistenza della scelta di proseguire l’attività lavorativa anche se si sono maturati i requisiti per la pensione. La figura 1, che presenta la piramide per età di pensionamento dei percettori di pensioni dirette (vecchiaia, anzianità e inabilità) erogate dall’Inpdap, mostra che nel 2007 l’età modale per le donne è di 57 anni, ovvero di un anno inferiore a quella degli uomini; ma è elevata anche la frequenza delle uscite dal lavoro ad età più avanzate. In particolare si registra un picco in corrispondenza dei 60 anni, quando si ha la facoltà di accedere alla pensione di vecchiaia. Per le donne il ritiro avviene prevalentemente in corrispondenza dei requisiti previsti per il pensionamento di anzianità e per quello di vecchiaia; per gli uomini, invece, si distribuisce su di un arco di età più ampio, dato che il vincolo per la vecchiaia è più stringente ma più probabile l’uscita per anzianità, grazie a carriere lavorative più continuative. Le donne che si pensionano a 65 anni o anche ad età superiori non sono comunque poche (circa il 23 per cento delle uscite dal lavoro per vecchiaia).

Figura 1. Pensioni Inpdap dirette sorte nel 2007 – Piramide per età

Fonte: Inpdap, Trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti, anno 2007.

LA RISPOSTA ALLA SENTENZA DELL’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA

Al fine di parificare l’età pensionabile tra uomini e donne nel pubblico impiego, le soluzioni astrattamente prospettabili, limitando il più possibile il perimetro dell’intervento normativo sono tre:

a)     Elevare, nel settore pubblico, l’età pensionabile delle lavoratrici parificandola a quella dei lavoratori, rendendo obbligatorio e non più facoltativo anche a loro l’accesso alla pensione di vecchiaia a 65 anni. Tale soluzione comporterebbe risparmi di spesa pensionistica. Senza effettuare un analogo intervento sul settore privato si aprirebbe, comunque, un problema di parità di trattamento nella normativa pensionistica riferita alle lavoratrici tra settore privato e pubblico impiego.
b)     Estendere nel settore pubblico anche agli uomini la facoltà di accesso alla pensione di vecchiaia all’età di 60 anni. Tale opzione sarebbe onerosa per la spesa pensionistica e, comunque, in contrasto con la tendenza generale all’aumento della vita media e dell’età pensionabile. Anche in questo caso, poi, verrebbe a crearsi una notevole disparità tra i lavoratori del settore privato e di quello pubblico.
c)     Fissare per entrambi i sessi un requisito di età flessibile per l’accesso facoltativo alla pensione di vecchiaia nel settore pubblico, nell’arco di età tra 60 e 65 anni, con costi per l’erario da quantificarsi e comunque crescenti in relazione alla diminuzione dell’età minima stabilita, lasciando per tutti il limite legale a 65 anni. Si tratterebbe, in ogni caso, di una misura in contrasto con la tendenza generale all’aumento della vita media e dell’età pensionabile, e che aprirebbe un’asimmetria nella normativa pensionistica riferita ai dipendenti di sesso maschile tra il settore pubblico e quello privato.

A queste tre ipotesi più “conservatrici” se ne possono affiancare altre due più innovative:

d)     Estendere ai dipendenti pubblici il regime previdenziale dell’Inps, considerato dalla Corte di Giustizia di tipo c.d. legale. Tale soluzione consentirebbe di mantenere la differenza di età pensionabile tra uomini e donne ed escluderebbe la creazione di una disparità nell’ordinamento interno tra dipendenti pubblici e privati; ma comporterebbe una riforma di tutto il sistema previdenziale più radicale di quanto finora considerato, anche dai progetti del passato governo: l’Inpdap dovrebbe essere completamente assorbito da parte dell’Inps fino a scomparire, e così il sistema delle contribuzioni figurative, le peculiarità del trattamento di fine servizio (Tfs) e i regimi speciali, con costi ed effetti di difficile quantificazione.
e)     Fissare l’età della pensione di vecchiaia, uguale fra generi, a regime nella Pubblica Amministrazione nell’arco flessibile dei 62-67 anni.Questa soluzione farebbe tesoro del fatto che già ora, a legislazione vigente, dal 2013 in poi l’età minima di accesso alla pensione di anzianità diverrà di 62 anni per tutti i lavoratori dipendenti (63 per i lavoratori autonomi) e, inoltre, i dipendenti pubblici possono optare di rimanere in servizio fino a 67 anni. E permetterebbe sia di parificare l’età pensionabile tra uomini e donne, sia di elevarla gradualmente, e quindi di ottenere per il sistema pensionistico pubblico risparmi di spesa. La soluzione aprirebbe uno squilibrio rispetto al settore privato, ma proporrebbe anche un cammino di equiparazione delle opportunità e di prolungamento della vita attiva per tutti i lavoratori, dato che l’aumento a 62 anni nel 2013 del requisito di età per la pensione di anzianità si applica a tutti i dipendenti, e anche nel privato è possibile già ora rimanere al lavoro fino a 67 anni. La scelta di estendere il provvedimento anche al privato, infine, potrebbe comportare rilevanti risparmi all’intero sistema previdenziale italiano (pubblico e privato) e liberare così le risorse necessarie a compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere delle lavoratrici dipendenti.
La delineazione delle ipotesi di possibile azione deve, ovviamente, comprendere anche l’ideazione di un periodo transitorio di messa a regime delle norme, durante il quale i requisiti di età per il pensionamento di vecchiaia vengano elevati a gradini (ad esempio di un anno ogni due anni, o simili). Al fine di verificare gli effetti sulla spesa previdenziale e, più in generale, sulla finanza pubblica, delle ipotesi qui sintetizzate, il Ministro Brunetta ha avviato una Commissione di studio composta da Giuliano Cazzola, Fiorella Kostoris, Filippo Patroni Griffi, Germana Panzironi, Maria Cozzolino, Riccardo Rosetti e da me. Il 19 gennaio la Commissione ha prodotto un primo progress report dei lavori, che è stato pubblicato sul sito del Ministero per la pubblica amministrazione, a questo indirizzo.
Nelle prossime settimane la Commissione intende concludere il proprio impegno con la pubblicazione della relazione definitiva; ma sarà lieta di considerare con cura suggerimenti e proposte che possano provenire dagli amici della Voce.info.

* L’autore è Consigliere economico del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione.

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