È in dirittura d’arrivo il Dpcm che rivede l’Isee, l’indicatore della situazione economica equivalente. Il governo conta di far partire la riforma nel 2013. La riforma dovrebbe toccare gli aspetti più problematici dello strumento. Previste nuove modalità di calcolo, che dovrebbero migliorarne la capacità selettiva. Il nuovo Isee sarà differenziato a seconda della tipologia di prestazioni, per renderne più flessibile l’applicazione. Potenziato il sistema dei controlli.
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In Italia viviamo sempre più a lungo. È una buona notizia. Ma significa che gli anziani controllano una parte sempre maggiore della ricchezza e la trasmettono sempre più tardi alle generazioni successive. Tutto ciò ha riflessi anche sugli investimenti in capitale umano. Un tempo bastava la laurea per assicurarsi un lavoro remunerativo, oggi è necessario un percorso di studi più lungo e complesso. E per finanziare l’educazione dei figli, sempre più i genitori dovranno rivolgersi ai nonni. Che potrebbero non comprenderne la necessità.
Tra i temi in discussione all’Earth Summit Rio +20, promosso dall’Onu, figurava anche la salute riproduttiva e la pianificazione familiare, ma nel documento finale non compare alcun riferimento esplicito alla contraccezione come strumento per tutelare la salute riproduttiva. Vaticano e paesi islamici sembrano concordare su questo punto. Tuttavia, pianificazione familiare e infezioni sessualmente trasmissibili restano problemi aperti, sia a livello globale che nazionale.
I giovani italiani restano a casa dei genitori più a lungo dei propri coetanei stranieri. In molti mettono in evidenza le spiegazioni antropologiche di questo fenomeno, dando la colpa ai figli “bamboccioni” o ai genitori “iper-protettivi”, ma non si tratta solo di un problema culturale. Pesano le carenze del nostro welfare, incapace di sostenere i giovani in un momento di forte incertezza. E numerose indagini mostrano che sono sempre più i giovani che auspicano di essere autonomi, ma che hanno problemi a trovare un lavoro o una casa.
I giovani adulti italiani coabitano con la famiglia di origine molto più spesso e più a lungo rispetto ai coetanei del resto del mondo. La crisi economica influisce, ma non è la prima responsabile di questa anomalia, come dimostra la maggiore probabilità che il figlio resti in casa nelle famiglie con reddito più alto. Contano invece gli aspetti culturali. I genitori sono contenti della situazione e considerano un investimento mantenere i figli nel periodo degli studi e della ricerca del primo impiego, senza spingerli a fare esperienze di lavoro. Forse sarebbe meglio cambiare strategia.
In controtendenza con quanto accade nel resto d’Europa e in Nord America, in Italia le separazioni continuano ad aumentare. Il fenomeno dipende anche dalle difficoltà dei giudici nel determinare gli assegni di mantenimento, formalmente a tutela del benessere dei figli. Un passo in avanti può essere l’utilizzo delle scale di equivalenza, una misura semplice e in grado di garantire una soluzione ragionevole al problema. Si tratterebbe di un adeguamento normativo praticamente a costo zero, in grado però di favorire una maggiore equità tra generazioni e generi.
Il Rapporto Istat 2012 evidenzia un netto peggioramento delle opportunità di riuscita sociale e occupazionale dei giovani. Per tutto il ventesimo secolo la mobilità sociale in Italia è stata piuttosto elevata e ha accompagnato il periodo della crescita economica. Ora molti giovani, seppure istruiti, hanno un lavoro che li colloca in una classe sociale più bassa di quella del padre. Serve più meritocrazia nella selezione per le varie posizioni occupazionali. Ma anche politiche pubbliche per emancipare i giovani dalla troppo lunga dipendenza materiale dalla famiglia dorigine.
Il nostro paese è ai primi posti della classifica europea sul rischio povertà minorile. Una situazione certo peggiorata dalla crisi economica, ma frutto soprattutto di politiche carenti e frammentarie, molto lontane da quelle degli altri paesi europei. Un piano strategico di contrasto alla povertà minorile richiederebbe un progressivo adeguamento delle risorse destinate all’infanzia dall’attuale 1,3 per cento del Pil al 2 per cento entro il 2020. Non andrebbe considerata una spesa che crea debito, ma un investimento sul capitale umano e sullo sviluppo e la crescita dell’Italia.
Il ruolo dei nonni è sempre più spesso ripreso dai media (ma negli ultimi giorni anche dalla politica) per il contributo che danno allorganizzazione della vita familiare. Diverse ricerche dimostrano che laiuto dei nonni aumenta la probabilità che una madre lavori ma anche la probabilità che abbia un altro figlio. In entrambi i casi, però, leffetto risulta più forte in paesi come lItalia, la Spagna e la Grecia, dove la disponibilità di servizi pubblici per la prima infanzia è molto bassa o, come dicono molti, dove la famiglia è molto presente. Senza togliere nulla allimportanza della famiglia nel nostro contesto culturale, occorre sfatare il mito che sia importante solo nei paesi del Sud Europa. In particolare, la percentuale dei nonni che aiutano i figli prendendosi cura dei nipoti è relativamente alta in molti paesi Europei: in Germania il 43 per cento dei nonni aiuta, in Svizzera il 37 per cento, in Svezia il 21 per cento, mentre in Italia e in Grecia il 48 per cento. La ragione per la quale i nonni italiani (o greci) sono differenti risiede nellintensità dellaiuto che danno, aiutando quasi tutti i giorni full-time piuttosto che qualche volta a settimana o in situazioni improvvise (malattie del nipote, per esempio).
LA POLITICA DEVE INCENTIVARE ALTRE SOLUZIONI
Partendo dal presupposto che ogni famiglia deve poter scegliere come curare il proprio bambino, penso sia importante, per diverse ragioni, che la disponibilità dei nonni non diventi la riposta che la politica dà alla questione della cura dei bimbi piccoli (come fatto, ad esempio, con la proposta sui congedi).
In primo luogo, non tutte le famiglie hanno i nonni a disposizione: perché lontani, perché in cattiva salute, perché non più in vita. Una politica pubblica in questa direzione tende quindi ad aumentare le diseguaglianze tra le famiglie ed ad essere iniqua. Si pensi anche ai bambini immigrati, per esempio. Una politica del genere va anche contro lidea di mobilità dei lavoratori, che dovrebbe caratterizzare un buon mercato del lavoro.
Una seconda ragione risiede nel fatto, dimostrato, che per i nonni può essere faticoso e quasi impossibile seguire più bambini piccoli allo stesso tempo (ad esempio, due nipoti da due fratelli) o per molti anni. Se, quindi non si vuole rientrare nella logica del figlio unico, i nonni non possono essere lunica soluzione. Infine, non conosciamo ancora bene quali effetti abbia la cura dei nonni rispetto alla cura materna o alla cura che un bambino riceve in un asilo. Se possiamo dire con certezza che la cura dei nonni può essere ricca di amore e attenzione, non sappiamo se in particolare per alcuni bambini altre modalità di cura non siano migliori (si pensi allasilo in questi due casi: per limportanza della lingua italiana per un bambino immigrato; o per limportanza di giocare per un bambino senza fratelli o cugini).
Le donne soffrono di più la crisi: i dati in proposito sono molto chiari. La riforma del mercato del lavoro propone alcune misure apprezzabili, ma si tratta di interventi simbolici. Mentre non trovano spazio sufficiente la tutela delle donne, il riconoscimento del peso del loro ruolo familiare e gli incentivi a una loro maggiore presenza sul mercato del lavoro. Obiettivo di una riforma efficace dovrebbe essere la riduzione dei divari di generazione e di genere, già così ampi nel nostro paese. E dovrebbe cercare di diminuire, non di accrescere, la dipendenza dei figli dalla famiglia.