Nell’avvicinamento delle big tech all’amministrazione Trump gli interessi economici contano più dell’adesione ideale a tesi libertarie. A dar fastidio sono i tentativi di regolamentazione in patria e soprattutto in Europa, dove le regole sono incisive.
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L’Iva è diventata un bersaglio negli Stati Uniti: il presidente la equipara a un dazio, alcuni commentatori la ritengono un incentivo alle esportazioni. Ma come la sales tax Usa, l’imposta europea non fa distinzioni sulla provenienza delle merci.
Il problema della spesa per la difesa in Europa è oggi la frammentazione nei diversi stati. Un semplice aumento delle percentuali non servirebbe a molto. Si dovrebbe invece investire su progetti comuni. Farlo nella Ue a 27 è però praticamente impossibile.
Canada, Messico e Cina sono i primi destinatari dei dazi promessi dal presidente Usa. Ma le tariffe non daranno i risultati economici sbandierati. Perché sono soprattutto uno strumento di pressione. La reazione però potrebbe essere diversa da quella voluta.
È probabile che l’amministrazione Trump imponga dazi anche sulle esportazioni europee negli Usa. Nello scenario peggiore la Bce potrebbe trovarsi a fronteggiare contemporaneamente il rallentamento dell’attività economica e il rialzo dell’inflazione.
Pochi giorni dopo l’insediamento, Trump ha emesso la sua criptovaluta. Poi ha emanato un ordine esecutivo per fare degli Usa la capitale mondiale degli asset digitali. La posta in gioco è chiara: il carattere di bene pubblico della moneta.
Aumentano i prestiti cinesi ai paesi africani. Per lo più, servono a finanziare progetti infrastrutturali. Facilitano così la partecipazione alle catene globali del valore, contribuendo alla crescita delle esportazioni e al miglioramento della produttività.
Nel 2024 la moneta del Brasile ha perso un quinto del proprio valore contro il dollaro. I prezzi salgono, aumenta il rapporto debito-Pil e il governo non interviene sulla spesa pubblica. Mentre sembra a rischio l’indipendenza della banca centrale.