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I lavoratori invecchiano, le statistiche migliorano

L’occupazione aumenta dell’1 per cento e il tasso di disoccupazione scende al livello più basso degli ultimi undici anni. Dalla rilevazione trimestrale Istat delle forze lavoro arrivano buone notizie. Che però, a parità di occupati, si spiegano con l’invecchiamento e la diminuzione della popolazione italiana. Aspettando gli effetti della Legge Biagi, permangono intanto dualismo territoriale occupazionale e settentrionalizzazione della crescita del lavoro.

I luoghi comuni del nostro mercato del lavoro: seconda puntata

Continuiamo la visita ai luoghi comuni del mercato del lavoro italiano. Si parla spesso di esplosione del lavoro temporaneo in Italia. Ma la crescita di queste nuove tipologie contrattuali è stato più contenuta di quanto spesso suggerito e si deve in larga misura alla diffusione dei contratti a fini formativi (soprattutto apprendistato) tra i giovani.

Precari veri e presunti

Il sentire comune vuole che i collaboratori coordinati e continuativi siano più di due milioni. E che quindi in Italia si assista a una generale precarizzazione del lavoro subordinato. Ma è una credenza lontana dalla realtà: se si analizzano i pochi dati disponibili, ci si accorge che i veri co.co.co. sono circa seicentomila. Gli altri sono riconducibili ai liberi professionisti, pensionati e persone con doppio lavoro. Anche la nuova figura del “lavoratore a progetto” può essere positiva. Il rischio è semmai nei decreti attuativi della Legge Biagi che, invece di razionalizzare il fenomeno, potrebbero finire per incrementare il lavoro nero.

La leggenda del lavoro sempre più autonomo

Iniziamo con questo intervento una serie di visite ai luoghi comuni del mercato del lavoro italiano. Si parla spesso di fuga dal lavoro dipendente, ma i dati non confermano il fenomeno né in Italia né in Europa. La quota di lavoro indipendente è sostanzialmente stabile da anni. A cambiare sono le sue caratteristiche: coinvolge mansioni sempre più qualificate e lavoratori più istruiti. Donne e giovani ne restano sostanzialmente fuori, oggi come ieri. La novità è semmai che alla indipendenza formale non corrisponde una reale autonomia nell’organizzazione dell’attività lavorativa.

Contrattazione: quale modello dieci anni dopo?

Tre riletture del Protocollo Ciampi da parte di autorevoli interpreti delle relazioni industriali in Italia (Carlo Dell’Aringa, Paolo Garonna e Ida Regalia). Hanno tutte il pregio di guardare in avanti e di prendere posizione, anche se non sempre queste posizioni sono fra di loro convergenti. E un intervento di Tito Boeri e Pietro Garibaldi che chiarisce alcuni equivoci sul decentramento della contrattazione in Italia

Il Patto italiano: perché non esportarlo in Europa?

Il modello italiano.
L’eredità del Patto del 1993 consente di rilanciare il modello italiano dei patti sociali nelle nuove condizioni economiche e politiche del 2003. La “nuova concertazione” tuttavia si distingue nettamente dalle esperienze precedenti: essa deve essere di tipo europeo per le sue caratteristiche e per la visione di riequilibrio strutturale e di integrazione economica internazionale che propone.

Le prospettive economiche.
Il confronto con il 1993 parte dalle prospettive economiche: nel 1993 siamo all’inizio di una fase di crescita economica sostenuta tirata dagli USA e dalla “new economy”. In Europa l’attenzione é centrata sul mercato unico, sull’UEM e sulle condizioni per l’allargamento. In Italia l’enfasi è sulle politiche di disinflazione, risanamento finanziario e consolidamento fiscale. Oggi, ci troviamo di fronte a rischi di recessione, squilibri dell’economia internazionale, difficoltà dell’Europa a fare da locomotiva e crisi di competitività e di investimenti nell’economia italiana. Nella fase precedente il 1993, il disavanzo delle partite correnti americane era stato riportato in equilibrio grazie alla “concertazione” del Plaza e alla forte rivalutazione di marco e yen. L’Europa ne pago’ il prezzo con la rottura dello SME e le crisi finanziarie dei paesi a moneta debole, tra cui l’Italia. Oggi l’economia europea, e ancor piu’ quella giapponese, hanno vincoli strutturali alla crescita e non paiono in grado di tenere una forte rivalutazione del cambio; l’Asia e la Cina non fanno la loro parte, e quindi c’è il rischio che l’aggiustamento dell’economia americana si realizzi con un impatto sulla crescita dell’economia mondiale. Una recessione globale avrebbe un’incidenza drammatica sugli squilibri Nord-Sud, che permangono gravi e che minacciano anche la sicurezza nei paesi industrializzati. L’Italia è particolarmente esposta in rapporto ai problemi aperti nei Balcani, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e nell’Est europeo. Un patto sociale in Europa potrebbe dare un segnale importante di riforma e di ripresa degli investimenti con incidenza positiva sulle aspettative, la fiducia delle famiglie e delle imprese. L’Italia potrebbe svolgere un ruolo di avanguardia in questo campo, non solo per le sue responsabilità di presidenza dell’UE, ma anche per la sua esperienza nel dialogo sociale. Occorre pero’ che nel patto siano coinvolti (direttamente o implicitamente) anche Ecofin e BCE.

I temi e i contenuti della nuova concertazione.
L’economia italiana si trova nel pieno dell’aggiustamento all’Euro e alle nuove condizioni che impone per i recuperi di produttività. I temi percio’ del dialogo sociale sono diversi da quelli del 1993: allora occorreva focalizzarsi sulla moderazione salariale, sulla struttura dei costi e della contrattazione, sulla riqualificazione del personale e la ristrutturazione dei processi produttivi. Oggi, piu’ che sulla “svalutazione interna”, occorre puntare invece sull’innovazione, la qualità dei prodotti e dei processi, la compatitività di sistema, le reti e le tecnologie, le infrastrutture, i servizi pubblici, la ricerca, ecc.

Il significato del Patto per le relazioni industriali.
La rivisitazione del Patto del 1993 in rapporto a quelli che lo precedono e lo seguono consente di definire un “modello italiano” di dialogo sociale. Esso non è riconducibile nè al modello neo-corporativo dell’Europa continentale, nè a quello neo-contrattualista dell’esperienza anglosassone. Esprime invece un modello originale di partecipazione, che allarga i confini della democrazia parlamentare e rende piu’ efficaci i meccanismi di “governance”.

I soggetti coinvolti.

La caratteristica fondamentale di questo modello di dialogo sociale è il pluralismo e il multilateralismo. Si contrappone percio’ nettamente al bilateralismo rigido della tradizione nordica e al tripartitismo neo-corporativo. Esso riflette d’altronde l’articolazione della struttura industriale e la complessità della società italiana. Nella cultura delle relazioni industriali del nostro Paese inoltre conta non solo la rappresentanza, ma anche la rappresentatività, e quindi l’ambizione a portare nella concertazione anche interessi generali, compresi quelli degli outsiders.

Il rapporto con il sistema politico.
Nel passato la concertazione ha svolto funzioni di supplenza rispetto alla debolezza degli esecutivi, alla democrazia bloccata, alla mancanza di alternanza. Oggi, il dialogo puo’ rappresentare l’espressione della maggiore stabilità politica, complemento e arricchimento della dialettica tra le forze politiche, strumento di partecipazione della società civile e delle forze produttive ai processi decisionali delle istanze democratiche. Il Patto sociale percio’ non si sovrappone, nè spiazza i Patti elettorali e la dialettica democratica tra maggioranza e opposizione. Non lede l’autonomia e la responsabilità dei diversi interlocutori (governo, parti sociali, organizzazioni non-governative) che restano responsabili dei loro processi decisionali.

Non conta solo il risultato, conta anche il processo.

Nel passato la vecchia concertazione ha dato importanza eccessiva agli aspetti formali, ai risultati cartacei, alla lettera degli accordi (che poi sono talora restati lettera morta). La “nuova concertazione” non è semplice strumento, ma deve essere fine in sè, modus operandi della economia e della politica della conoscenza. L’economia della conoscenza ha cambiato in profondità i termini del conflitto industriale.

Il dialogo sociale in Europa.

Questa interpretazione è coerente con i risultati cui giunge il Rapporto sul dialogo sociale in Europa della Commissione Rodriguez. Riflettendo sulla esperienza, sinora molto deludente, del dialogo sociale in Europa, la Commissione insiste sulla necessità di incidere sulla qualità dei processi, propone il metodo della “open coordination”, che ha già dato buoni frutti in altri campi della politica europea, indica la strada del benchmarking e degli indicatori per ancorare il dialogo alla concretezza e alla misurazione dei risultati raggiunti, e soprattutto punta sulla “peer pressure”, allo stimolo di miglioramento continuo e reciproco che viene dal confronto leale e reale sulle idée.

*Questo saggio è tratto dalla relazione presentata al Convegno su: “Politica dei redditi e coesione sociale a dieci anni dal Patto del 1993”, che si è tenuto presso la Camera dei Deputati il 23 luglio 2003.

Un Patto più flessibile

Le ragioni che spinsero le parti sociali e il Governo alla firma del Patto del luglio 1993 sono ancora valide. Tuttavia l’accordo va rivisto, per rendere più flessibile la contrattazione collettiva sul territorio e tener conto delle disparità fra i mercati regionali del lavoro

Un Patto da affinare sfruttando i vantaggi del doppio livello

Il patto triangolare del luglio 2003

Nella storia recente delle relazioni di lavoro nel nostro paese, la ripresa della concertazione negli anni novanta, e in particolare il patto triangolare del 23 luglio 1993, sono stati visti come l’inizio di una nuova stagione in cui venivano superati molti dei tratti caratteristici della tradizione precedente: i) basso grado di regolazione e formalizzazione (o l’elevata informalità) delle procedure e delle relazioni tra una pluralità di attori, peraltro molto organizzati; ii) scarsa stabilità e prevedibilità quindi delle prassi e frequente ricorso al conflitto come modo per ridefinire l’equilibrio dei rapporti di forza e insieme per rafforzare il seguito delle organizzazioni di rappresentanza; iii) oscillazione frequente e disordinata tra centralizzazione e decentramento delle relazioni tra le parti e della contrattazione collettiva, senza chiara distinzione delle competenze dei diversi livelli; iv) difficoltà infine di attuare intenzionalmente strategie di razionalizzazione e riforma: processi di riorganizzazione in realtà avvenivano, e spesso in modo concordato, ma secondo modalità informali, pragmatiche, poco visibili e socialmente riconoscibili.
Come effetto dei patti, e in particolare dell’accordo triangolare di 10 anni fa, le relazioni di lavoro sono infatti andate in una direzione di i) maggior formalizzazione ed esplicita definizione di criteri di riferimento condivisi, di regole e procedure per la rappresentanza e per la composizione concordata del conflitto distributivo (politica dei redditi agganciata al tasso di inflazione programmata); ii) maggior prevedibilità delle prassi e maggior coordinamento di obiettivi e risultati, con una diminuzione sensibile del ricorso al conflitto; iii) affermazione di una struttura negoziale bipolare più ordinata, in cui si compongono un livello centralizzato e un livello decentrato, caratterizzati dal principio della specializzazione delle competenze; iv) avvio di una serie significativa di riforme (del pubblico impiego, delle pensioni, del mercato del lavoro) con la partecipazione delle parti sociali.

Un bilancio dieci anni dopo

Tentando un bilancio a un decennio di distanza, si può dire che in linea di massima la riorganizzazione e il riequilibrio delle relazioni industriali hanno avuto successo. A livello di performance generale del sistema, in base a dati di ricerca è stato osservato che l’accordo ha contribuito alla moderazione salariale degli anni novanta, facilitando il riequilibrio dei conti economici, ma permettendo d’altro canto di difendere il potere d’acquisto dei salari; che i differenziali retributivi tra settore manifatturiero e settori protetti (amministrazione pubblica e servizi di pubblica utilità) si sono ridotti; che il livello dei profitti nel corso del decennio è aumentato anche per l’aumento contenuto del costo del lavoro che è cresciuto meno della produttività; e che la moderazione salariale ha contribuito infine a stabilizzare l’occupazione nella prima metà degli anni novanta e a favorirne poi l’aumento.

E tuttavia il consolidamento del sistema si è rivelato più fragile del previsto. Da un lato sono venuti meno o si sono attenuati i fattori che avevano concorso al successo della concertazione centralizzata, primi tra tutti i condizionamenti che derivavano dalla partecipazione al processo di integrazione europea da una posizione iniziale di forte svantaggio, sul piano dell’inflazione e dei conti pubblici, rispetto a quella di altri paesi. L’ingresso nell’unione monetaria ha radicalmente ridotto infatti la portata della lotta all’inflazione come obiettivo unificante. Le osservazioni di Tito Boeri e Giuseppe Bertola su lavoce.info del 10 ottobre scorso circa la scarsa utilità oggi del tasso di inflazione programmata sono molto pertinenti.
Dall’altro, una volta usciti dalla situazione dell’emergenza, sono riemersi i limiti di relazioni di lavoro ancora non sufficientemente istituzionalizzate, in quanto largamente affidate alla logica dell’intesa tra le parti e non invece a meccanismi in qualche modo indipendenti dalla loro buona disposizione. Un risultato è stato l’affievolirsi dell’interesse alla cooperazione, via via che una o più parti – organizzazioni degli imprenditori o sindacati o governo – scorgevano l’opportunità di ottenere a breve vantaggi, materiali o simbolici, per altra via, come segnalato dalla ripresa di accordi e scioperi separati, o dall’affermarsi dell’idea che sia sufficiente cercare l’accordo “con chi ci sta”. Un altro risultato è stato l’insufficiente consolidamento delle strutture di rappresentanza in azienda: chi scrive è tra coloro che fin dall’inizio hanno pensato che l’accordo interconfederale del dicembre 1993 non fosse sufficiente e fosse invece opportuno dotarsi di una legge leggera in materia, per dare certezze ai comportamenti delle parti nei luoghi in cui si lavora eliminando i rischi di colpi di mano o i veti paralizzanti, così da facilitare uno sviluppo equilibrato della contrattazione di secondo livello. Ma questo è un tema che ci porterebbe lontano.
La vittoria elettorale dell’attuale governo di centrodestra nel 2001 è diventata infine l’occasione per cercare di rimettere in discussione molti degli elementi su cui si era ridefinito l’equilibrio precedente.

Le modifiche necessarie

Fin qui una sintesi stilizzata di un periodo in realtà molto denso di innovazioni e mutamenti; di un periodo che appunto per questo appare forse più lungo dei dieci anni che sono passati da quell’accordo di luglio, salutato subito come pietra miliare di un nuovo sistema di relazioni industriali e che oggi tutti o quasi si affrettano a dire che occorre modificare, o senz’altro superare.
In proposito vorrei aggiungere qualche riflessione, un po’ alla rinfusa e limitandomi ad alcuni aspetti che riguardano più propriamente la logica delle relazioni tra le parti.
Intanto c’è la questione di fondo se sia opportuno o meno disporre di un sistema bipolare di contrattazione. Il tema era emerso già cinque anni fa, quando la Confindustria aveva chiesto di superare la supposta “anomalia” italiana del doppio livello negoziale. Com’è noto, non se n’era fatto nulla e nel Patto di Natale del 1998 il sistema bipolare era stato confermato. La ragione più immediatamente convincente per conservare un doppio livello negoziale è quella che è arduo optare per un unico livello – centralizzato o, come probabilmente parrebbe più opportuno, decentrato – quando si ha di fronte un sistema produttivo che vede poche grandi aziende e un amplissimo tessuto di aziende piccole e piccolissime. Anche in un recente convegno a Modena a marzo di quest’anno, l’argomento è stato realisticamente ribadito dai rappresentanti della Confindustria.

I vantaggi di un sistema bipolare

Ma ci sono altre ragioni, forse un po’ meno evidenti, che riguardano i vantaggi, oltre che gli svantaggi, di tenere aperti – con opportuna delimitazione e chiarificazione delle competenze – entrambi i livelli.
Incominciando dai vantaggi del livello della contrattazione centralizzata o di tipo generalizzante, per le imprese – di un settore, o comparto con caratteristiche produttive omogenee – coordinare attraverso la contrattazione collettiva prezzo e condizioni d’uso del fattore lavoro è un modo relativamente conveniente di evitare o ridurre i rischi di una concorrenza sleale, o i costi di una competizione senza sponde. Come suggeriscono ricerche recenti, è significativo che persino negli ambienti britannici, in cui è venuta meno l’opportunità del coordinamento attraverso il contratto multi-employer, se ne cerchino, potremmo dire, dei sostituti funzionali. Ne sono degli esempi il monitoraggio ricorrente delle relazioni di lavoro, gli scambi di informazione fra le parti sociali nei policy networks in cui esse continuamente si incontrano, la retorica e la prassi del benchmarking, la creazione di authorities o di comitati misti competenti su specifici aspetti delle condizioni d’impiego: anche in un caso come questo il settore continua in realtà a essere punto di riferimento indispensabile per la definizione delle condizioni d’impiego del lavoro. Nel caso del nostro paese, nell’ultimo decennio il contratto nazionale di categoria non solo si è confermato, per il suo amplissimo grado di copertura, come il più adatto a definire le condizioni minime di impiego; ma si è rivelato anche in grado di aumentare e aggiornare le valenze virtuose del coordinamento centralizzato (si vedano le tendenze all’armonizzazione e unificazione dei contratti, alla riduzione della loro frammentazione, e, sia pur timidamente, alla creazione di nuovi contratti per regolare le condizioni d’impiego di nuovi settori e nuove forme d’impiego, come nel caso delle agenzie di lavoro temporaneo, o degli addetti delle società di ricerche di mercato).
Molti sono d’altro lato i vantaggi della contrattazione collettiva decentrata, in quanto metodo regolativo particolarmente coerente con i problemi che le imprese e le economie locali devono affrontare in un contesto molto meno prevedibile di un tempo, e in cui è aumentato d’importanza l’obiettivo della competitività. Nel nuovo mondo di molti lavori e molte posizioni lavorative che ne deriva, negoziare a livello decentrato permette non solo di far partecipare i lavoratori agli incrementi di produttività, ma soprattutto di definire in modi sperimentali e adattivi regole condivise più vicino a dove sorgono i problemi, e quindi di tener meglio in conto di particolarità e specificità, con possibili effetti virtuosi sia per la competitività delle imprese, sia per la tutela del lavoro.

Gli aspetti critici da rivedere

Se continua dunque a essere opportuno disporre di un sistema negoziale a due livelli, che permette sia di coordinare e armonizzare le condizioni minime, sia di definire in modo congiunto aspetti rilevanti delle effettive condizioni d’impiego del lavoro nei casi concreti, ci sono tuttavia almeno due aspetti critici da rivedere. Uno è quello dell’equilibrio tra i livelli. L’altro è l’evidente necessità di ripensare al secondo livello,, per sfruttarne meglio le potenzialità positive per entrambe le parti.
Dal primo punto di vista la direzione dovrebbe essere quella di imboccare in modo più deciso la logica del decentramento coordinato, od organizzato, quella che si rivela particolarmente proficua nel contesto delle economie coordinate di mercato tipiche della gran parte dei paesi europei. Ciò significa salvaguardare il ruolo d’impostazione e generalizzante dei contratti nazionali, alleggerendone la funzione normativa, e ampliare di conseguenza le competenze di merito della contrattazione decentrata.
Ma questo introduce subito l’altro aspetto: quello che occorre ovviare al fatto che la contrattazione di secondo livello è rimasta ancor poco diffusa. A mio avviso, ciò non significa affatto pensare tuttavia di semplicemente generalizzare il modello della contrattazione aziendale delle imprese medio-grandi. E non solo perché questa estensione si rivelerebbe irrealistica nel caso delle imprese più piccole. Ma anche perché di questo livello decentrato credo si debbano valorizzare molto più esplicitamente di quanto non avvenga oggi – almeno in base a quanto emerge nelle discussioni tra le parti – le capacità di definire le soluzioni più appropriate alle caratteristiche del contesto locale in tema di orario, organizzazione del lavoro, formazione, servizi e welfare aziendale e locale, ecc.. è attraverso la rivalutazione delle potenzialità di questo livello come quello adatto alla gestione concordata degli aspetti critici e delle esigenze di flessibilità delle imprese e di tutela del lavoro che si possono individuare le soluzioni (contrattazione territoriale, d’area, di distretto, di sito…) adatte anche alle imprese minori senza gravarle di oneri impossibili.

La riflessione che suggerisce il decennale dell’accordo di luglio sembrerebbe portarci più verso la direzione di uno sviluppo e di un affinamento della logica del patto che di una sua radicale revisione.
Ma questo presuppone che sia sempre vivo l’interesse di tutti per il metodo negoziale in quanto metodo di composizione di problemi e controversie e definizione di norme di tipo soft, interattivo, aperto: un metodo basato sulla ricerca e il raggiungimento dell’accordo tra parti con interessi distinti, attraverso la disponibilità a costruire con intelligenza, anche per prove ed errori e successive verifiche e riaggiustamenti, soluzioni temporanee, a termine, ma con valore normativo e che impegnano i partecipanti. Ed inoltre per la logica della concertazione come quadro definito entro cui il metodo negoziale può svilupparsi in modo fluido e costruttivo.
Temo che ciò non possa facilmente avvenire senza un ripensamento anche alle regole di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni degli interessi, oltre che ai modi di intervento del terzo attore.

I vantaggi del doppio livello

Tentando un bilancio dell’esperienza del Patto, si può dire che la riorganizzazione del sistema industriale ha avuto successo. Ora però si deve riformare il sistema di contrattazione a due livelli, nazionale e locale, rivedendone gli equilibri e sfruttandone meglio le potenzialità positive

Troppi equivoci sul decentramento

C’è molta disinformazione riguardo al decentramento della contrattazione in Italia. Tre le domande più frequenti, cui cerchiamo di dare risposta: 1. Decentrare la contrattazione significa ripristinare le cosiddette “gabbie salariali”? 2. Quanto rilevanti sono i divari di produttività fra Nord e Sud nel nostro paese? 3. Posto che sia desiderabile, può il Governo fare qualcosa per incoraggiare il decentramento della contrattazione?

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