Lavoce.info

Categoria: Argomenti Pagina 656 di 1090

GREXIT, VALE LA PENA USCIRE DALL’EURO?

La Grecia non riesce a ripagare il suo debito pubblico e, in assenza di ulteriori rifinanziamenti, si troverà nellÂ’’incapacità di pagare stipendi e pensioni. Cresce la voglia di un ritorno alla dracma, che comporterebbe indubbiamente un recupero di competitività internazionale per i prodotti greci. Ma non risolverebbe i problemi di lungo periodo, come quello dellÂ’’esile base produttiva e di un bilancio statale fuori controllo. E, anche nell’Â’immediato, i risparmi dei greci sarebbero fortemente svalutati e le banche dovrebbero probabilmente essere nazionalizzate.

 

MOBILITÀ SOCIALE: IN ITALIA È FERMA

Il Rapporto Istat 2012 evidenzia un netto peggioramento delle opportunità di riuscita sociale e occupazionale dei giovani. Per tutto il ventesimo secolo la mobilità sociale in Italia è stata piuttosto elevata e ha accompagnato il periodo della crescita economica. Ora molti giovani, seppure istruiti, hanno un lavoro che li colloca in una classe sociale più bassa di quella del padre. Serve più meritocrazia nella selezione per le varie posizioni occupazionali. Ma anche politiche pubbliche per emancipare i giovani dalla troppo lunga dipendenza materiale dalla famiglia d’origine.

MAL DI CRISI

Nel 2013-2014 il sistema sanitario dovrà realizzare risparmi per 8 miliardi. Esperienze di altri paesi, non ultima la Grecia, mostrano che una grave crisi economica e politica ha dirette ripercussioni sullo stato di salute dei cittadini. Perché aumenta lo stress psicologico legato all’incertezza e perché la diminuzione del reddito non consente più l’accesso ad alcune cure. Ancora più gravi le conseguenze se a essere messo discussione è l’intero sistema istituzionale e di stato sociale. Il ruolo di collante dell’unità nazionale svolto in passato dal Ssn.

UN CAMBIO DI ROTTA PER LA BCE

Se la Grecia dovesse abbandonare l’euro, la Bce dovrebbe essere il pilastro del meccanismo di assicurazione sui depositi necessario perché l’uscita avvenga in modo ordinato. La Banca centrale dovrebbe anche cambiare impostazione di politica monetaria. Un esplicito impegno a mantenere eccezionalmente bassi i tassi per lungo tempo avrebbe un duplice effetto: orientare al meglio le aspettative e, senza il costo di dichiararlo esplicitamente, indurre un deprezzamento dell’euro. Favorendo così il processo di aggiustamento di cui l’Europa ha disperatamente bisogno.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Molti tra i commenti lasciati dai lettori di lavoce.info all’articolo “Le sofferenze delle banche. E quelle delle imprese” hanno un filo comune quindi preferisco rispondere cumulativamente piuttosto che singolarmente. Alcuni lettori hanno evidenziato come il comportamento delle banche sia ragionevole, o comunque giustificabile dal contesto economico. Altri hanno invece posto in evidenza come nella fase più recente alcuni banchieri abbiano di fatto trascurato il loro importante ruolo di selezione degli imprenditori, e delle imprese, degni di finanziamento.
I dati a disposizione sulle sofferenze, e quelli sull’andamento dei finanziamenti che saranno presentati in un prossimo mio articolo in via di pubblicazione su lavoce.info, evidenziano, a mio avviso, come la seconda tesi sia la più plausibile. La crescita dell’incidenza del rapporto tra sofferenze su impieghi è infatti dovuta più alla flessione del denominatore, piuttosto che a quella del numeratore. Le indagini campionarie condotte presso le imprese, soprattutto di minore dimensione, pongono inoltre in evidenza come sempre più imprese si vedano rifiutare del tutto o in parte le richieste di finanziamento. Gli ultimi dati indicano che più della metà delle PMI italiane ha subito un razionamento del credito. Ciò indica che alle tensioni sul rischio di credito le banche hanno reagito restringendo i finanziamenti. E’ questo un comportamento stupido o masochista privo di qualsiasi logica? In realtà, purtroppo, la logica c’è ed è, come spesso accade in ambito finanziario, esclusivamente di breve periodo. Per rimettere in sesto i conti economici molti istituti di credito, infatti, stanno preferendo la strada della finanza piuttosto che quella del credito. E’ paradossale che dopo essere stato posto in evidenza, da molteplici commentatori, che il nostro sistema bancario è uscito “incolume” dal crollo della finanza internazionale, dopo il default Lehman, grazie al fatto di aver “giocato” poco con i titoli finanziari, adesso invece la strategia dei banchieri nostrani sia proprio quella di speculare sui titoli di Stato italiani. La liquidità offerta dalla Bce, ad un tasso dell’1%, è servita soprattutto per acquistare titoli di Stato che offrono rendimenti ben più alti (si veda Dove va la liquidità delle banche italiane? e Quando i titoli zavorrano le banche). Quindi piuttosto che finanziare le imprese, correndo il rischio di selezionare quelle destinate inesorabilmente al fallimento, i banchieri preferiscono non correre alcun pericolo nel breve termine e investire nei titoli di Stato. Ovviamente questa strategia è miope e nel medio-lungo termine può portare a risultati disastrosi, soprattutto se a seguito del razionamento del credito imprese solide, nel senso che possiedono alte capacità imprenditoriali e produttive e forti potenziali di crescita, siano eliminate dal mercato solo perché in questa fase di crisi della liquidità non sono riuscite a trovare sufficienti fonti di finanziamento.

FLUSSI BLOCCATI

Il governo rinuncia quest’anno all’emanazione del decreto flussi, se non per lavoro stagionale. È una decisione sbagliata. Perché sottintende che agli immigrati non si debba riconoscere l’aspirazione a conciliare lavoro e famiglia, a cercare posti di lavoro migliori, a evitare faticosi trasferimenti. Inoltre, la previsione di quote di ingressi regolari per lavoro è uno strumento di politica migratoria. Infine, i decreti flussi sono sanatorie mascherate, per mettere in regola lavoratori già presenti in Italia. Davvero sono un lusso che non possiamo più permetterci?

L’ERRORE DI AVER DIMENTICATO HUME

La crisi della zona euro mette in evidenza tutti limiti della costruzione europea. L’errore principale è stato non chiudere definitivamente le banche centrali nazionali. Permettendo così agli interessi nazionali di interferire con il normale funzionamento del sistema finanziario e del meccanismo di Hume. La sottovalutazione di questi problemi, assieme allÂ’incapacità di istituire una Autorità bancaria europea veramente forte, ha lasciato scoperto uno squarcio nellÂ’integrazione monetaria e finanziaria dellÂ’Unione Europea che ci perseguiterà nei mesi e anni a venire.

I DIRIGENTI PUBBLICI E L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ONESTO

Il ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, in una recente lettera al Corriere della Sera, ha rimesso al centro del dibattito il tema della dirigenza pubblica. Le misure sulla dirigenza, infatti, costituiranno uno degli assi portanti del disegno di legge delega per lÂ’aggiornamento della riforma della pubblica amministrazione a suo tempo promossa a partire dal Dlgs. 150/09.

LA CENTRALITÀ DEL DIRIGENTE

Tra le linee di intervento evidenziate dal ministro, emerge il richiamo ad una maggiore indipendenza della dirigenza pubblica dalla politica. La concreta attuazione di questo principio dovrebbe trovare riscontro, sempre nella visione del ministro, in una maggiore trasparenza e qualità nella scelta dei dirigenti, in una più precisa e prevalente responsabilizzazione degli stessi sui risultati delle strutture gestite, in una riforma dei sistemi di reclutamento e selezione che allineino il nostro paese alle migliori esperienze maturate nel contesto internazionale.
Questa decisa presa di posizione ci sembra del tutto condivisibile e richiama il tema, della qualità e della legittimazione della classe dirigente quale condizione fondamentale per il buon funzionamento e lo sviluppo delle amministrazioni pubbliche.
Competenza
, senso di responsabilità, impegno e rigore etico rappresentano infatti i requisiti fondamentali di qualunque dirigente e in particolare di un dirigente chiamato a esercitare le proprie funzioni per il perseguimento dell’interesse collettivo. Non da ultimo, il ruolo del dirigente, sia nel settore pubblico che in quello privato, è fortemente legato alla capacità di far crescere e motivare i propri collaboratori, perché proprio sul commitment e la qualità delle risorse umane impiegate si gioca il futuro di organizzazioni sempre più “competence based”. Su questo piano conta molto la credibilità del dirigente, ovvero l’essere ritenuto sia internamente all’amministrazione che dagli interlocutori esterni, persona di valore, dal punto di vista professionale e, non da ultimo, etico e comportamentale.

L’ONESTÀ DEL LEADER

A conferma di ciò, un recente studio sulla propensione allo sforzo dei dipendenti pubblici fa luce su quanto sia importante un comportamento virtuoso ed onesto per aumentare la produttività delle pubbliche amministrazioni.
Secondo uno studio americano, infatti, i dirigenti pubblici possono migliorare le performance dei propri collaboratori adottando, tipicamente, cinque tipi di comportamento: insistendo sulla necessità di raggiungere gli obiettivi stabiliti, prestando attenzione allo sviluppo delle competenze e delle relazioni con i propri collaboratori, incentivando la creatività e la generazione di nuove idee, valorizzando le diversità, promuovendo la parità di genere e avendo a cuore i tratti particolari del singolo individuo, richiamando, infine, l’esigenza di onestà e correttezza nello svolgere il proprio lavoro. (1)
Sulla base di questi idealtipi lo studio italiano ha esplorato quale di questi stili di comando fosse più adatto per aumentare la propensione a impegnarsi, e quindi la produttività dei dipendenti pubblici.
In particolare, a cinque differenti gruppi di dipendenti ministeriali (per un totale di 142 unità di analisi selezionate casualmente) è stato proposto di lavorare a un progetto che si differenziava solamente per lo stile di leadership del capo-progetto. Ogni gruppo è stato esposto a un diverso ‘stimolo’ (ossia a un diverso stile di leadership), ma in tutti i casi i ricercatori hanno preventivamente chiesto ai dipendenti intervistati quale fosse la loro normale propensione allo sforzo sul luogo di lavoro. Successivamente, i ricercatori hanno chiesto di quanto gli stessi dipendenti avrebbero aumentato (o diminuito) il proprio sforzo sul lavoro aderendo al progetto proposto da un certo tipo di leader. I risultati finali dell’esperimento sono riassunti nella tabella successiva.

Come si può notare lo stile di leadership che comparativamente risulta essere più efficace per aumentare la propensione allo sforzo è quello ‘orientato all’integrità’. I dipendenti pubblici sono maggiormente motivati se riconoscono l’onestà e l’integrità di un leader e se sono invitati a rispettare le regole non solo procedurali ma anche e soprattutto comportamentali. Una conclusione che va oltre il tema dell’etica dell’amministrare strettamente intesa, ma che richiama in ogni caso anche le responsabilità dei dirigenti nel contrastare i fenomeni di illegalità nella pubblica amministrazione  e prevenire le conseguenze negative che i comportamenti e le pratiche illegali provocano: delegittimazione della politica, perdita di fiducia nelle istituzioni, aumento dei costi a carico dei cittadini.
I risultati dello studio confermano più in generale, in sintonia con le prospettive della nuova riforma del settore pubblico delineate dal ministro, il rilievo del tema della qualità della classe dirigente del Paese. In assenza di vertici delle amministrazioni che possano realmente rappresentare un modello di ruolo, per valori, impegno e competenza, è difficile pensare che l’ingegneria organizzativa e gli strumenti di management possano, da soli, cambiare davvero lo stato delle cose. Una dirigenza credibile e integra, infatti, non può che risultare da logiche efficaci, trasparenti e meritocratiche di gestione del personale. Molto si può fare, ad esempio, sul sistema dei concorsi. È impensabile che la selezione di una nuova classe dirigente possa derivare da modalità obsolete di accertamento delle conoscenze, tipicamente attraverso prove di esame scritte di natura nozionistica, combinate con altrettanto anacronistici formalismi che accompagnano le prove orali. L’imparzialità, il riconoscimento del merito e delle competenze, sono valori guida di tutti i processi di selezione delle organizzazioni eccellenti e non sono in discussione. Ma l’efficacia dei processi di selezione, in queste organizzazioni, è collegata alla ricerca del profilo che per caratteristiche, attitudini e motivazione, meglio si adatta a ricoprire la posizione vacante, ovviamente descritta ex-ante nei contenuti e nei risultati attesi. Abbandonare i formalismi per salvaguardare un’imparzialità di sostanza, fondata su metodi evoluti di selezione e affidata a specialisti della selezione, rappresenta quindi una priorità non ulteriormente procrastinabile.
Non meno importanti sono, peraltro, le modalità per l’assegnazione degli incarichi. Troppo si è scritto e troppo si è fatto in tema di “politicizzazione” delle nomine e delle carriere all’interno del settore pubblico. Anche su questo piano una svolta radicale è necessaria: sistemi più trasparenti di pubblicizzazione degli incarichi da affidare, esplicitazione a priori dei requisiti necessari per ricoprire gli stessi, pubblicizzazione dei curricula dei candidati, definizione di criteri trasparenti di scelta, nomina di advisor indipendenti, rendicontazione via web delle fasi e dei risultati del processo, sono solo alcuni degli interventi possibili.
Infine, cruciale è il sistema di valutazione e rewarding dell’alta dirigenza. Oggi i dirigenti vengono di regola valutati su obiettivi individuali e comportamenti organizzativi. Nella maggior parte dei casi raggiungono tutti gli obiettivi e si comportano molto bene. Peccato che non sempre le organizzazioni che dirigono producano altrettanti brillanti risultati. È fondamentale allora una misurazione seria della performance organizzativa, degli output e degli outcome delle amministrazioni pubbliche. Sulla base di questa, quindi, sarà finalmente possibile valutare le capacità dei dirigenti “in azione”, per quanto gli stessi sono davvero capaci di migliorare l’efficacia e l’efficienza degli ambiti che dirigono, e non solo “sulla carta”, ovvero per quanto diligentemente adempiono ai propri doveri. A tutto questo, ovviamente, dovrebbero collegarsi i premi monetari, oggi spesso distribuiti “a pioggia” o, nella migliore delle ipotesi, sulla base del mantenimento della normale operatività.
Del resto i risultati della ricerca che sottolineano l’inefficacia di altri stili di comando (come ad esempio quelli che insistono sulla necessità di raggiungimento degli obiettivi o quelli che sostengono la creatività degli individui) confermano un forte ritardo culturale nell’introduzione di logiche che premiano l’innovazione e l’ottenimento di risultati finali nelle amministrazioni centrali: il relativo ‘disinteresse’ dei dirigenti censiti verso il risultato del proprio lavoro o verso la creazione di nuove modalità di risoluzione dei problemi, conferma l’ipotesi di una classe dirigente che fatica ad evolvere da logiche di responsabilità formale e tende a perpetuare le prassi e le tradizioni consolidate.
La trasformazione dei burocrati in manager sembra ancora lontana, così come la possibilità di mettere le migliori energie e competenze professionali presenti nel settore pubblico davvero al servizio della creazione di valore per i cittadini.

(1) Fernandez, Cho, Perry (2010)

SCELTE POCO STRATEGICHE

L’iscrizione a una facoltà universitaria avviene spesso senza guardare avanti, al futuro lavoro che si andrà a svolgere. Ed è per questo che molti italiani rimpiangono le decisioni prese passato, perché le loro mansioni lavorative non corrispondono alle competenze acquisite negli studi. È possibile evitare o comunque ridurre il rischio di una scelta universitaria deludente e i successivi pentimenti? Forse, le famiglie dovrebbero iniziare a discuterne presto, al momento di decidere quale scuola  superiore far frequentare ai propri figli.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Non è possibile, per ragioni di spazio, rispondere individualmente alle numerose osservazioni. Raggruppo perciò per temi; per le medesime ragioni di spazio, sono costretto ad affermazioni argomentate molto sinteticamente e un po’ secche, ma spero chiare.
Desidero fare una premessa alle risposte specifiche. Capisco i sentimenti di molti degli interlocutori, che hanno insegnato, immagino con impegno, e si sentono ingiustamente accusati o comunque poco apprezzati. Ma io non ho accusato loro, bensì -basta rileggere il mio testo- un insieme di responsabilità politico-amministrative del passato che hanno determinato la situazione di cui essi stessi sono vittime; e ho sollevato il problema perché la proposta del Miur da me criticata costituisce non una soluzione, bensì la perpetuazione dei disastri nonché, per loro, la donazione di una etichetta che proprio questa scelta renderebbe pressoché inutile.

Vengo ora al merito.
Con l’eccezione di uno, quegli interventi che rivendicano la partecipazione alla procedura abilitativa senza vincoli numerici e perciò senza prove di accesso non rispondono alla mia obiezione di fondo: poiché il numero programmato corrisponde alle prospettive di futuro reclutamento, aumentare indiscriminatamente gli abilitati crea illusioni pericolose. L’intervento che fa eccezione afferma che va bene così, si faccia una marea di abilitati e poi le singole scuole sceglieranno chi piace loro; è proprio ciò che rischia di accadere, e non credo vi sia da esserne soddisfatti.
Sui riferimenti alla Direttiva europea non mi pronuncio; è un tema giuridicamente complicatissimo e controverso. Osservo solo che se essa fosse applicabile nei termini ora proposti si tratterebbe di interventi non “una tantum” ma permanenti; sostituiremmo per sempre a un sistema di formazione e scelta concorsuale le assunzioni occasionali ripetute. Non è compatibile con l’articolo della Costituzione che stabilisce che ai pubblici uffici si accede per concorso.
Alcuni contributi introducono questioni diverse da quelle che ho sollevate.

Con riferimento a queste, condivido alcune opinioni:

–          Nella scuola non deve esservi lassismo, ed è importante che anche dopo lÂ’assunzione il docente venga stimolato allÂ’aggiornamento e valutato.
–          Nelle attività delle SSIS vi sono state, accanto a meriti, carenze; in particolare, alcuni docenti hanno riprodotto proprie lezioni su contenuti disciplinari anziché discutere le strategie didattiche. Non sempre vi è stato inoltre rigore nelle valutazioni.
Ritengo deplorevole, invece, la proposta di cancellare l’idea stessa di una formazione all’insegnamento. Considerare sufficiente la laurea disciplinare, dopo la quale si dovrebbe andare direttamente in classe, significa che la didattica dovrebbe essere acquisita sulla pelle degli studenti (previo concorso, o anche senza); è la situazione italiana pre-1999, dalla quale si è faticosamente usciti cercando di uniformarsi, con decenni di ritardo, alla realtà di tutti i Paesi evoluti. Nessuno di noi andrebbe da un medico che, dotato di ottime conoscenze biologiche, non avesse mai visto un malato, e diamo perciò per scontato che occorrono le Scuole di Specializzazione cliniche; negare che occorra quella per l’insegnamento significa negare il valore stesso della scuola.
Quanto ai contributi, non pochi, che vanno nella stessa direzione del mio intervento, alcuni forniscono utili motivazioni aggiuntive. Spesso, però, mostrano un atteggiamento rassegnato, di chi deplora, magari con molta veemenza, quanto accade intorno a noi, ma poi dice che non c’è nulla da fare. Io spero invece, ostinatamente, che cambiare sia possibile, e nelle mie modeste possibilità cerco di contribuire un po’.

Pagina 656 di 1090

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén