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IMPRENDITORI PER NECESSITÀ

L’Italia è tra i paesi con il più alto numero di imprese e imprenditori. Ma l’apertura di nuove imprese non è sempre e comunque una buona notizia. Perché, in particolare in alcuni settori, il lavoro autonomo può essere occupazione dipendente mascherata. Oppure rappresentare una risposta alla disoccupazione: quanti più saranno gli addetti espulsi dalle aziende esistenti, specie quelle più grandi, tanto più questi saranno costretti a inventarsi un’occupazione. Così, però, l’impresa propria è solo un’opportunità di ripiego. Dunque, sarà facilmente destinata all’insuccesso.

SENZA CASA. E INVISIBILI

Con le temperature particolarmente basse si è tornati a parlare di una parte di popolazione altrimenti invisibile: i senza dimora. Gli interventi sono quasi sempre di tipo emergenziale e assistenziale, spesso affidandosi a volontari. Certo, è importante fornire servizi di base, ma il rischio è che portino alla cronicizzazione dello stato di homeless. Sarebbe invece necessario ricorrere a politiche di riduzione e prevenzione del fenomeno. Da valutare in modo rigoroso, così da incanalare le risorse verso gli interventi che effettivamente producono risultati positivi.

 

PRENDERSELA COI FIGLI DI PAPÀ O COI PAPÀ DEI FIGLI?

Ringrazio i lettori per le loro richieste di chiarimento e i loro commenti.
Parto dalle prime. I dati relativi al numero di citazioni di Silvia Deaglio, così come il valore dell’h index, sono stati presi dal programma Publish or Perish (PoP) considerando solamente le pubblicazioni nell’ambito medico. Più precisamente l’area disciplinare selezionata è Medicine, Pharmacology, Veterinary Science. Per numero di citazioni si intende il numero di volte che la pubblicazione in questione viene citata in pubblicazioni su Google Scholar. Un lettore offriva un’altra fonte per misurare il solo numero di pubblicazioni in campo medico. Ho controllato: secondo questo sito, le pubblicazioni di Silvia Deaglio sono 62, mentre in Publish or Perish sono 66, quindi non mi sembra che ci siano discrepanze degne di nota tra le due fonti. Un lettore mi chiede anche come sia possibile che una pubblicazione sia precedente alla laurea. Non conoscendo Silvia Deaglio, non conosco neanche la risposta. Posso solo dire che ho avuto studenti che hanno pubblicato prima di laurearsi e il corso di studi in economia è mediamente più breve che a medicina. Infine, ci tengo a sottolineare che io ho potuto misurare solo la produzione, l’output, non l’input, dunque gli strumenti che la ricercatrice ha avuto a disposizione. Qualche lettore sostiene che si possano comprare pubblicazioni a questo livello (referate a livello internazionale). Non lo sapevo e lo dubito fortemente perchè queste pubblicazioni sopravvivono solo se riescono ad avere un forte impact factor e, se comprate, perderebbero autorevolezza. In ogni caso, l’indice proposto non conta le pubblicazioni in quanto tali, ma le pesa per il numero di citazioni, quindi l’impatto che hanno avuto nella professione. Dubito che un “articolo comprato” raccoglierebbe molte citazioni.
Un lettore mi chiede di misurare anche la produttività dei genitori di Silvia Deaglio. Il grafico qui sotto lo accontenta usando la distribuzione del numero di citazioni. Ricordo che il numero di citazioni non può che essere molto diverso fra disciplina e disciplina. Quindi i valori assoluti non sono comparabili a quelli già mostrati per medicina. Ma è possibile guardare alla posizione dei singoli nella distribuzione, come nel grafico qui sotto (per questioni di scala esclude 49 osservazioni con più di 1000 citazioni).

Lascio ai lettori giudicare. Certamente, sulla base di queste misure, non potrei definire eccellente la produzione scientifica dei genitori di Silvia Deaglio.  Immagino peraltro che, più di lei, abbiano avuto accesso a finanziamenti di un certo rilievo. Si noti inoltre che il numero di citazioni è una misura che favorisce i docenti di lungo corso. Non ho ancora i dati di citazioni per anno dall’inizio dell’attività di ricerca. Vi posso solo dire che nel caso di Mario Deaglio sono meno di una citazione all’anno (per l’esattezza 0,89).   Michele Boldrin mi chiede i dati di Michel Martone. Cercherò di accontentarlo al più presto.
Quanto ai commenti, un’annotazione frequente è “se non si chiamasse Silvia Deaglio non ne avrebbe parlato, non l’avrebbe difesa”.  Concordo pienamente. Se non avesse avuto quel nome, non ne avrei trattato. Per il semplice motivo che è proprio perchè aveva questo nome che la Prof.ssa Deaglio è stata oggetto di una gogna mediatica senza precedenti. E’ stata questa gogna mediatica e il riscontro che non solo non aveva alcun fondamento, ma gettava fango su una di quelle ricercatrici, di quei cervelli che tutti dicono di voler tenere in Italia a spingermi a scrivere. Molti tirano in ballo i bamboccioni. Credo di essere stato tra i primi a condannare le esternazioni di Mario Monti e dei suoi colleghi di governo. Non posso che trovare paradossale che per condannare queste esternazioni ce la si prenda con i figli e non con chi le ha fatte. In Italia ce la si prende sempre coi “figli di papà” e non con i “papà dei figli”.
Credo, in ogni caso, di avere fatto bene a fornire questi dati perchè volevo giungere alla stessa conclusione cui arrivano molti altri commenti: “il problema non è Silvia Deaglio, ma lÂ’università italiana”. Non potrei essere più dÂ’accordo. Quindi lasciamo in pace Silvia Deaglio e occupiamoci dei veri problemi. Come scrive Barbara Veronese, “il problema dell’Italia è che molti dei miei coetanei economisti (diciamo sotto/sui 40), che pure vantano esperienze all’estero, hanno pubblicazioni internazionali sopra la media, anche sopra la media dei docenti che li esaminano nelle commissioni di concorso spesso, e nonostante possano esibire un grafico come quello che ha fatto Lei nell’articolo non ottengono il posto, da nessuna parte”.  EÂ’ proprio per questo motivo  è che il numero medio di citazioni ad economia è così basso. Se lÂ’università funzionasse premiando il merito scientifico, la ricerca, non alimenterebbe tutti questi sospetti. Questo sito ha, da quando esiste, sempre denunciato questo stato di cose. Personalmente non credo di essere certo stato tra gli ultimi a denunciare il caso del rettore della Sapienza e le omonimie alla facoltà di Bari. Al di là della denuncia dei casi più eclatanti e della documentazione sui concorsi universitari (cui ha dedicato tantissimo tempo ed energie, uno dei redattori de lavoce, il prof. Roberto Perotti), il problema va combattuto cambiando le regole con cui si assegnano i fondi allÂ’università italiana. Purtroppo ho visto sin qui solo passi indietro nellÂ’azione di questo Governo; il bando per il PRIN è un ritorno alle baronie accademiche perchè obbliga le università a fare la selezione al loro interno oppure ad assemblare progetti che nulla hanno a che vedere lÂ’uno con lÂ’altro sia in termini di temi affrontati che di qualità dei ricercatori coinvolti. EÂ’ un modo per il Ministero di scaricarsi dalla responsabilità di selezionare i progetti. A mio giudizio lÂ’unico vero ruolo del Ministero dovrebbe essere proprio quello di garantire che tutti i docenti e gli atenei vengano valutati e che queste valutazioni vengano utilizzate nellÂ’allocazione dei fondi pubblici. Se abdica a questa funzione, il Ministero non ha proprio ragione di esistere.

SE IL CREDITO DIPENDE DALLA GEOGRAFIA

La stretta creditizia che ha colpito le imprese italiane dopo il crack di Lehman Brothers è stata più intensa nelle aree dove il sistema bancario ha una minore autonomia decisionale. A essere maggiormente penalizzate, però, non sono state le imprese più rischiose e di minori dimensioni. Le banche nazionali hanno privilegiato le imprese più vicine al loro territorio di origine, riducendo l’offerta di credito verso quelle più distanti, anche se grandi e produttive. I vincoli finanziari sono dunque più stringenti per le aziende delle aree finanziariamente meno sviluppate.

L’AVVOCATO INGLESE

Con il decreto “cresci Italia” le liberalizzazioni fanno un passo avanti. Ma l’esperienza insegna che provvedimenti simili rischiano di rimanere lettera morta se non definiti nei dettagli e non inseriti all’interno di una riforma organica delle professioni. Per esempio, il Legal Services Act inglese ha riformato dalle fondamenta la professione legale e definito un nuovo sistema di regole centrato sul consumatore. Sancita anche la separazione della funzione rappresentativa delle professioni da quella di regolamentazione. La funzione dell’organismo indipendente di controllo.

PESARE IL VALORE DELLA LAUREA

La laurea è necessaria per affrontare l’esame di Stato per le professioni superiori e per accedere a numerosi concorsi nel settore pubblico. Non è necessaria nell’impresa e nella gran parte dei lavori autonomi, dove vale solo come presunta attestazione di capacità che deve però trovare conferma nei fatti; e dove comunque la presunzione di capacità è già ora legata alla fama dell’ateneo che ha rilasciato il titolo. Il problema di abolire il valore legale della laurea (come si dice impropriamente, per significare che non sarebbe più requisito necessario) si pone quindi in un ambito occupazionale ristretto e tuttavia importante.

UNA LAUREA PER LA CARRIERA

Nelle professioni domina l’asimmetria informativa: il cliente tipico non sa nulla, e sarebbe socialmente costoso fargli fare prove ripetute sulla sua pelle per individuare il professionista competente. La laurea lo rassicura sulla preparazione di base del professionista , salvo poi cercare il più bravo. Ma non basta per questo l’esame di Stato? Attualmente, no. È configurato come complemento alla laurea e si concentra sulle applicazioni professionali. Se dovesse accertare anche la formazione di base, dovrebbe diventare molto più lungo, articolato, costoso. Non so se qualcuno abbia approfondito, a livello di congettura, il confronto tra il doppio filtro attuale e un ipotetico unico filtro rappresentato da un più corposo esame di Stato. Sono istintivamente per il doppio filtro, come forma di cautela. Perché, come esistono università e quindi lauree di diversa qualità, esistono anche esami di Stato di diversa qualità. Lo sa bene l’ex ministro Mariastella Gelmini, diventata avvocato in Calabria e non in Lombardia.
Attenzione anche per il settore pubblico, nei cui confronti è quasi unanime il coro abolizionista. Francesco Giavazzi l’ha detta brutalmente: basta con le schiere di impiegati pubblici che cercano la laurea facile, talora con lo sconto in forza di convenzioni, solo per fare un passo avanti nella carriera. Non è un quadro esaltante, d’accordo. Ma siamo sicuri che ci possiamo concedere il lusso di togliere qualsiasi riferimento esterno – una laurea facile implica pur sempre uno sforzo e un merito, oggettivamente accertati – per fare largo a promozioni per solo merito interno? Nell’impresa privata, è la disciplina del profitto che assicura, in termini ragionevoli, il premio al merito: il capoufficio che promuove sa che anche lui è soggetto a giudizio e sa che il suo lavoro e il suo compenso dipendono dagli utili dell’azienda. Ma l’esaminatore pubblico è spesso non premiabile e non punibile. Logico che sia tentato allora di usare la sua discrezionalità per premiare il candidato più amico o più raccomandato o più generoso, anziché il più bravo. Ricordiamoci sempre il problema del controllo sui controllori, perché l’Italia è messa male nella graduatoria internazionale dell’efficienza della pubblica amministrazione, ma è messa ancora peggio in quella della corruzione.

IL PESO DEL TITOLO

Ma la finzione di lauree di ugual valore quando sono in realtà ben diverse, non è un insulto alla correttezza e al merito e non è un danno per il paese? Certamente sì; e quindi bisogna cambiare. Ma nell’unico modo ragionevole,ossia: mantenere il valore legale e però pesare il titolo e la votazione di laurea in relazione all’ateneo di provenienza (meglio, in relazione alla qualità, comparata in ambito nazionale, del corso di laurea di provenienza, dato che essa non è uniforme per tutti i corsi del medesimo ateneo).
Il problema è: chi dà il peso? Valutazioni di mercato (Censis-Repubblica, Sole-24Ore, eccetera) già esistono, ma sono spesso divergenti. E le valutazioni pubbliche sulla didattica elaborate nel recente passato dal Cnvsu, Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, sono state accusate da più parti di penalizzare il rigore. Non convince neppure chi sostiene che non è necessaria una valutazione esterna, con i tempi e costi e sospetti che comporta, bastando sfruttare il fatto che l’ateneo facile è più generoso nei voti: basta pertanto correlare il peso del voto di laurea allo scarto che tale voto presenta rispetto alla media dei voti di laurea nel corso di studio di provenienza del candidato. Proposta interessante, in mancanza di meglio; ma anch’essa resa debole in prospettiva dalle reazioni opportunistiche dell’ateneo facile, che tenderà ad adottare la stessa distribuzione dei voti dell’ateneo difficile, abbassando però sistematicamente il livello quanti-qualitativo degli esami e quindi largheggiando in promozioni. (1)
In conclusione, appare inevitabile una nuova valutazione pubblica ufficiale e largamente condivisa. Non può che provenire dalla neonata Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca, che va messa in grado di operare presto e bene. D’accordo, quindi, sulla direzione di marcia, ma attenzione a non sbagliare per impazienza; anche perché l’equità impone che il sistema di pesi, oltre a non essere retroattivo, aspetti l’attuazione di un vasto programma di borse di studio potenziate ed erogate a livello nazionale, capace di consentire ai meritevoli di scegliere davvero l’ateneo preferito.

(1) Modello grossolano, giusto per chiarire: un insieme di studenti, disposti in ordine crescente di bravura, che si suddivide tra due atenei; la metà superiore va nell’ateneo difficile; la metà inferiore, che sarebbe bocciata nel primo, va nel secondo ateneo, dove passa con la stessa distribuzione di voti ravvisabile nel primo. Il metodo proposto non sarebbe in grado di premiare e punire.

UNA SPENDING REVIEW PER I DEBITI DELLA PA

I ritardi nei pagamenti della Pa verso i fornitori generano gravi danni al sistema delle imprese. Tuttavia, sono incerti sia l’ammontare sia la natura dei debiti. Potrebbe trattarsi di impegni presi nonostante stanziamenti insufficienti di cassa ovvero di competenza. In entrambi i casi, si tratterebbe di somme non registrate nelle statistiche sul debito pubblico. Se i due aspetti non saranno chiariti è difficile si possa arrivare a una soluzione che attenui i problemi delle imprese e corregga i difetti del nostro sistema di gestione e controllo della spesa pubblica.

LA CAPORETTO DELLA CRESCITA E I DUE MARIO SUL PIAVE

Le stime preliminari della crescita del Pil del quarto trimestre certificano che l’economia europea è probabilmente entrata in recessione nel quarto trimestre 2011. Di sicuro, lo sono già Italia, Spagna, Portogallo e Grecia insieme a Belgio e Olanda. Il governo Monti è intervenuto con dure misure che forse hanno in parte contribuito nel brevissimo termine a peggiorare la recessione, ma raddrizzano una situazione che avrebbe portato al default. Ed è più chiaro perché Mario Draghi abbia inondato di liquidità i mercati monetari e finanziari europei prima di Natale.

UN TRENO PER L’AEROPORTO

La vicenda del “people mover” tra l’aeroporto e la stazione centrale di Bologna ha ormai assunto tratti paradossali. Si tratta infatti di un progetto destinato fin dall’inizio al fallimento. Non tiene conto del fatto che l’area di influenza di un aeroporto non è solo la città di riferimento. D’altra parte la società di gestione sembra più interessata ai parcheggi e ad eventuali centri commerciali. Per il piccolo aeroporto bolognese basterebbe una ferrovia, collegata alla linea Milano-Bologna, che entri all’interno dell’aerostazione.

LA RISPOSTA AL GRANDE FREDDO? LO STOCCAGGIO

L’emergenza gas ha riportato l’attenzione sulla cronica carenza di infrastrutture di approvvigionamento del nostro paese. In particolare, mancherebbero i rigassificatori. Ma parlare di offerta trascurando le cause determinati della domanda non è il migliore degli approcci. La sicurezza del sistema non dipende solo dalla certezza delle forniture. Un fattore cruciale è la capacità di stoccaggio. E infatti già da molto tempo, l’uomo ha imparato a dotarsi di scorte per far fronte a periodi difficili. Generalmente, l’inverno.

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