Circola in questi giorni un’idea affascinante: un programma di vendite massicce di beni pubblici per abbattere il debito, migliorando la percezione dei mercati sulla sua sostenibilità. Vendere partecipazioni e immobili statali non è poi così facile, ma il problema del patrimonio dello Stato è che rende troppo poco. Meglio darlo in gestione a una società pubblica, con una supervisione europea e l’obiettivo della valorizzazione. E tutti i proventi destinati alla riduzione del debito pubblico. La legge di stabilità, invece, si affida una volta di più all’ingegneria finanziaria.
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Il questionario della Commissione Europea, che vuole vederci chiaro sugli effetti delle riforme promesse come elemento dello sviluppo, tocca il nervo scoperto del sostanziale fallimento delle nuove regole sulla pubblica amministrazione, sbandierate come una panacea. Il governo in questi anni non ha fatto altro che parlare di scarsa produttività dell’amministrazione pubblica, di costo troppo elevato dei dipendenti e del loro numero eccessivo. In Europa, per coerenza, si aspettano concrete riduzioni di questi indicatori. Come spiegare ora che era solo propaganda?
La dinamica del debito pubblico italiano può resistere a un aumento anche persistente dei tassi sul debito. Ma non a una severa recessione, a una fuga degli investitori dal debito né alla mancanza di trasparenza sulle strategie future di rientro dal deficit. La crescita, però, non può prescindere da riforme e politiche di riduzione della spesa. Con lo spread tra Btp e Bund a quota 500 si stringe il sentiero per ogni governo che verrà dopo Berlusconi.
Tra i provvedimenti più urgenti che possono arrestare la drammatica crisi di credibilità del paese, c’è ai primi posti una definitiva riforma delle pensioni. Che deve superare i trattamenti d’anzianità, essere equa e semplificare la giungla di regole introdotte negli ultimi anni. Occorre estendere le regole del sistema contributivo a tutti i lavoratori. Per uniformare le regole di pensionamento fra categorie, sessi e generazioni diverse, salvaguardando i diritti acquisiti per chi va in pensione a partire dai 65 anni di età. Sulla base di esempi concreti vediamo come si possono raggiungere questi obiettivi.
La povertà degli italiani non interessa alla classe politica. Quando parla di un paese benestante perché i ristoranti sono pieni, Silvio Berlusconi riecheggia una frase analoga di Bettino Craxi. E conferma quanto ampia sia la distanza fra la classe politica e i problemi legati alle condizioni di vita delle fasce più marginali della popolazione. Ma questo atteggiamento di indifferenza è antico, radicato e persistente nella storia italiana. Forse è arrivato il momento di affrontare il problema.
Dieci grandi riforme a costo zero. Le hanno individuate di Tito Boeri e Pietro Garibaldi nel libro “Le riforme a costo zero” edito da Chiarelettere, di cui pubblichiamo alcuni stralci dell’introduzione. Da una nuova politica dell’immigrazione al salario minimo, al voto ai sedicenni, alla selezione della classe politica: sono questi gli investimenti che possono cambiare il funzionamento della nostra economia. Per far ripartire l’Italia anche in piena crisi del debito pubblico. Perché il paese è ingessato e vecchio nello spirito riformatore ancor più che nella demografia.
Le borse mondiali non reagiscono di questi tempi alle notizie che provengono dal mondo dell’economia, ma guardano soprattutto alla politica. Che, sfortunatamente, non è in grado di dare certezze ai mercati né negli Stati Uniti né in Europa. E ciò non solo rallenta la ripresa oggi, ma rischia di indebolire la crescita di lungo periodo. Riportare l’incertezza politica ai livelli del 2006 negli Usa potrebbe far crescere la produzione industriale del 4 per cento e creare 2,5 milioni di posti di lavoro in diciotto mesi. Non basta per parlare di boom economico, ma sarebbe un bel passo in avanti.
Grande impatto mediatico ha avuto lannuncio a pagamento sul Corriere della Sera alcuni giorni fa dal signor Giuliano Melani, che invitava gli italiani a comprare i titoli di Stato del nostro Paese, al fine di ridurne il tasso, giunto ormai a livelli quasi insostenibili per la nostra economia. Compriamoli anche a tasso zero, arriva a dire limprenditore toscano, in un impeto di patriottismo. Non dubitiamo che sia solo lamore per lItalia a muovere Melani, ma il suo patriottismo è male orientato.
La crisi ha colpito duramente le Pmi italiane. Ma l’evidenza dei dati di bilancio indica che il processo di ristrutturazione è andato avanti comunque. Il risultato è una marcata polarizzazione dei risultati. Le imprese espulse dal mercato erano già fragili prima e il credito bancario è stato allocato in modo selettivo. Quelle che sono cresciute sono caratterizzate da una maggior quota di capitale immateriale rispetto al totale dell’attivo. Anche durante la crisi, il successo è passato attraverso la “terziarizzazione” della strategia d’impresa.
Un taglio dei tassi è stata la prima mossa della Bce a guida Mario Draghi. Ma è solo una correzione ragionevole o un vero e proprio cambio di regime di politica monetaria? Oggi, alle banche centrali si chiede di dare segnali sul futuro. E di questo non c’è traccia nel comunicato della Bce. Soprattutto, la forte incertezza sui mercati finanziari e la crisi del debito sovrano richiederebbero una politica monetaria eccezionale. Ovvero l’impegno convinto e di durata prestabilita per un programma di acquisto di titoli dei paesi dell’area euro, con l’obiettivo esplicito di contenere gli spread.