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Le fondazioni bancarie: una risposta a mucchetti

Lettera al Corriere della Sera

Caro direttore,

Massimo Mucchetti nel suo articolo di sabato 23 ottobre ci arruola al “partito di Geronzi”. La ragione? Un nostro intervento su lavoce.info sarebbe ripreso dal Foglio a sostegno di tesi dell’attuale Presidente di Generali. In questo intervento, coerentemente con quanto pensiamo e scriviamo liberamente da tanto tempo, sosteniamo che: 1) le fondazioni bancarie farebbero bene a diversificare il loro portafoglio per meglio svolgere le loro funzioni sociali; 2) avendo vertici di nomina politica, non dovrebbero nominare a loro volta i consiglieri delle banche, evitando ancor di più di sceglierli tra le proprie fila. Quanto alla nostra vicinanza a Geronzi, invitiamo a leggere su questo sito cosa abbiamo scritto sul curriculum dell’ex banchiere. Non ci risulta che Mucchetti abbia mai dato queste informazioni ai suoi lettori.

Come vengono utilizzati i soldi rimasti della legge 488/92?

Come noto, le risorse per finanziare gli “storici” strumenti di incentivo alle imprese (legge n. 488, legge “Sabatini”, crediti d’imposta per occupazione e investimenti, ecc.) sono da tempo finite. Rimangono solo quelle derivanti dalle revoche dei vecchi incentivi già accordati, per rinuncia o decadenza dal diritto dei destinatari. Fino a pochi anni fa, nessuno sapeva nemmeno a quanto ammontasse questo “tesoretto”. Una norma della Finanziaria 2008 (governo Prodi), aveva disposto l’accertamento annuale di tali risorse e la loro destinazione ad un apposito fondo destinato a finanziare una pluralità di interventi soprattutto nel Mezzogiorno.(1)
Il governo Prodi è caduto prima di poter dare attuazione alla norma, avendo avuto solo il tempo di accertare – con il previsto decreto ministeriale annuale – l’ammontare delle risorse liberate per il 2008 (785 milioni di euro). Il governo successivo (Berlusconi), prima ancora di adottare il decreto annuale di accertamento delle economie per il 2009, con il decreto-legge n. 5 del 10 febbraio 2009 ha dirottato quelle risorse – valutate in ben 933 milioni di euro – a copertura dei nuovi incentivi alla rottamazione e a correzione dei saldi. Il decreto annuale di accertamento delle economie per lo stesso anno è stato poi adottato solo il 28 febbraio, segnalando l’importo di 375 milioni di euro per il 2009. Nel luglio 2009, con la legge n. 99 il governo ha poi prescritto nuovi vincoli di utilizzo, soprattutto legati a interventi nel Centro-Nord.(2) Tutte scelte legittime, comunque, che riflettono cambiamenti di priorità in gran parte dal Sud al Nord.
Il 4 maggio 2010 si è però prodotto un fatto grave sul quale non ci risulta sia sin qui intervenuto il sistema istituzionale dei controlli, a presidio della legittimità e legalità dell’azione del Governo, a partire dalla Corte dei conti e dal Parlamento.

Il quasi-dimissionario ministro Scajola con un decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale oltre quattro mesi dopo, il 17 settembre 2010 a ministero ancora “decapitato”, ha destinato le risorse disponibili a due finalità estranee a qualunque prescrizione vigente di legge. Dei 152 milioni di euro accertati, infatti, 48 milioni di euro sono stati attribuiti alla programmazione negoziata nelle aree del Centro-Nord e 50 milioni sono stati addirittura destinati all’industria bellica degli armamenti, attraverso il rifinanziamento di una legge del 1993 (legge n. 237/93) per la quale il legislatore aveva previsto una copertura finanziaria solo fino al 2001. Dei restanti 54 milioni di euro non si fa menzione esplicita, ma a questo punto è facile supporre che siano andati ai soli interventi – tra tutti quelli contenuti nei lunghi e vani elenchi compilati dal legislatore – che erano associati a precisi importi: 50 milioni all’emittenza televisiva locale, 2 milioni ai sistemi di illuminazione del Veneto e 2 milioni ai “sistemi delle armi” di Brescia (forse raggiunti anche dall’altro finanziamento).

CHIEDIAMO PERTANTO AL NUOVO MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO PAOLO ROMANI:

Può darci un rendiconto completo di come sono stati utilizzati i risparmi della legge 488 in questa legislatura? Ed è possibile che un decreto ministeriale rifinanzi una legge statale, in carenza assoluta di fondamento normativo?

 

(1) Programma nazionale per l’inserimento lavorativo dei giovani laureati meridionali; la riduzione del costo del lavoro per tecnici e ricercatori in favore delle imprese innovatrici in start up; il sostegno alla ricerca nel settore energetico; il riutilizzo di aree industriali nel Mezzogiorno; la costruzione di centri destinati a Poli di innovazione.
(2) Tra questi compaiono obiettivi generici – quali il sostegno all’internazionalizzazione e al Made in Italy, la “valorizzazione dello stile e della produzione italiana”, gli incentivi ai distretti industriali, ecc. – assieme a interventi puntualmente specificati, come il sostegno ai “sistemi produttivi locali delle armi di Brescia” e ai “sistemi di illuminazione del Veneto”, per i quali la legge indica addirittura gli importi (2 milioni di euro per ciascuno).

Se la locomotiva va nella direzione sbagliata*

L’avanzo della Germania è in gran parte verso la zona euro. E’ stato originato da un boom di produttività specifico alla manifattura tedesca. Il riequilibrio avrebbe richiesto l’apprezzamento del cambio reale della Germania: è avvenuto il contrario. La governance europea comporta ora che l’aggiustamento spetti ai paesi partner, senza compiti per i tedeschi. Ciò provoca effetti depressivi e distorsioni per la zona euro. Le strategie per la crescita dovrebbero accantonare la retorica manifatturiera e rimettere all’ordine del giorno la questione dell’efficienza dei servizi.

Cala il sipario sul diritto allo studio

Il fondo che finanzia le borse di studio per gli studenti universitari scenderà nel 2011 a 70 milioni di euro dagli attuali 96 milioni, tornando più o meno sui livelli del 1998. In Francia e in Germania la spesa annua per il sostegno agli studenti è di 1 miliardo e 400 milioni. E mentre in altri paesi il pacchetto di aiuti è uniforme su tutto il territorio nazionale, per gli universitari giovani i criteri di ammissione alle borse variano di Regione in Regione e talvolta anche all’interno di una stessa Regione. Perché nessuna voce si leva in difesa del diritto allo studio?

Ma la formazione continua paga

Se la formazione professionale per lavoratori disoccupati è poco efficace, le cose vanno meglio con la formazione continua degli occupati. Chi vi partecipa ottiene retribuzioni notevolmente più elevate, in particolare nelle piccole e medie imprese. Perché l’incentivo a finanziare corsi inutili e fittizi è minore e soprattutto perché è un tipo di formazione che avviene spesso in azienda. I sussidi pubblici sono gestiti dalle Regioni. Così nel periodo 1994-2005 la spesa per abitante varia dai 22,6 euro della Regione Calabria ai 286,7 euro del Trentino Alto Adige.

 

Costruiamo nuove università riservate ai bravi scienzati

In Italia non ha molto senso parlare di università migliori di altre. Ci sono semmai scienziati o gruppi di ricerca migliori di altri, indipendentemente dagli atenei cui appartengono. Distribuiti a macchia di leopardo, cosicché nessuno raggiunge quella massa di eccellenza critica necessaria per competere a livello internazionale. Stesso discorso vale per gli studenti più capaci. Si dovrebbe perciò favorire la nascita per gemmazione di nuove università, equamente distribuite sul territorio, verso le quali far migrare solo i professori più bravi.

La risposta ai commenti

Mi sembra che l’’essenza delle articolate argomentazioni del dott . Matteoli siano riconducibili a due punti essenziali:
1) Il privato, avendo obiettivi di profitto, può avere comportamenti opportunistici gravemente lesivi dell’’interesse pubblico.
2) il privato non investirà mai le rilevantissime somme necessarie a risistemare lo stato catastrofico del sevizio idrico italiano.

Una, devastante, obiezione alla prima argomentazione è che un sistema di gare non significa affatto privatizzazione del sistema: se imprese pubbliche offriranno condizioni più favorevoli in termini di costi, tariffe e qualità, vinceranno le gare, come è ovvio, e come è successo moltissime volte ovunque in Europa. Quindi non vi è alcun nesso tra gare e privatizzazione dell’’acqua, come strumentalmente si tende a far credere al fine di difendere ad oltranza uno status quo indifendibile. Non solo: la periodicità obbligatoria delle gare costituisce un incentivo potente all’’efficienza e al rispetto delle condizioni di interesse pubblico espresse nel bando. Comportamenti inadeguati comprometterebbero gravemente la reputazione delle imprese inadempienti, anche nei confronti di gare in contesti diversi da quelli dove avessero inizialmente vinto. E alla reputazione le imprese private tengono molto….
La seconda argomentazione appare ancora meno difendibile: se occorrono moltissimi soldi per investimenti, necessari a “tappare le falle” delle passate gestioni (generalmente pubbliche), questi soldi occorrono comunque, indipendentemente da chi li spenda. Se si decide che li debbano pagare gli utenti, le tariffe dell’’acqua aumenteranno, e di molto. Se si decide che questi costi, per ragioni sociali, dovranno essere pagati dallo stato, cioè dai contribuenti, i gestori dei servizi idrici saranno pesantemente sussidiati, pubblici o privati che siano. Significa che si avranno meno risorse pubbliche per scuole o trasporti pubblici, scelta politica del tutto legittima. Cioè si trasferiranno risorse da servizi sociali politicamente giudicati meno prioritari ai servizi idrici.
Infine, che i privati abbiano obiettivi di profitto, cioè “egoistici”, è assolutamente ovvio, e per questo occorre una seria regolazione pubblica. Che amministrazioni pubbliche corrotte, o dove domina il “voto di scambio” (fattori talmente reali, che sono verificabili attraverso l’’attuale vergognoso dissesto del sistema: meno manutenzione e più assunzioni clientelari, o appalti “agli amici”), esprimano obiettivi meno egoistici dei privati, mi sembra una argomentazione perlomeno ardua.

Ringrazio anche per i molti commenti costruttivi, ricordando che i limiti di spazio della Voce costringono a forti sintesi (tipo “bianco-nero”), il che ha anche dei vantaggi. Le argomentazioni rivolte a Matteoli rispondono alla maggiorparte di voi. Rimarco comunque che in molti commenti domina un tragico equivoco: gare=privatizzazione. Se imprese pubbliche saranno più efficienti, vinceranno le gare, magari al secondo giro. E’ successo in Svezia, in USA e in Germania per i trasporti pubblici, perché non dovrebbe succedere per l’acqua?

Le nuove norme sulle controversie di lavoro

A seguito del rinvio al Parlamento da parte del Presidente della Repubblica, il 29 settembre 2010 il Senato ha approvato in sesta lettura il Disegno di legge 1167 B–bis, avente a oggetto, tra l’’altro, anche una riforma del codice di procedura civile in materia di processo del lavoro. Tornato alla Camera, esso è stato infine approvato definitivamente, in settima lettura, il 19 ottobre 2010.
È un provvedimento eterogeneo di difficile consultazione, frutto di una complicata stratificazione normativa che dà seguito solo in parte alle indicazioni del Presidente della Repubblica del 31 marzo scorso.
Questa breve nota si propone di mettere in evidenza i punti salienti delle modifiche approvate al Senato rinviando, per il resto, alle osservazioni già svolte a suo tempo, su queste pagine in riferimento al testo legislativo licenziato dal Parlamento in quarta lettura (prima del rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica).

VALUTAZIONE DELLE MOTIVAZIONI DEL LICENZIAMENTO

(art. 30 comma 3) – alla Camera è stato modificato il comma 3 dell’’art. 30 rubricato Clausole generali e certificazione del contratto di lavoro. Questa norma, confermata dal Senato, elimina il riferimento alle “fondamentali regole del vivere civile” e all’“’oggettivo interesse dell’’organizzazione”, indicato come parametro legale di valutazione giudiziale delle motivazioni del licenziamento. L’’inciso era stato oggetto di forti critiche: si era infatti osservato che la norma, così formulata, era destinata ad allargare notevolmente la discrezionalità del giudice, consentendogli di decidere la controversia facendosi egli stesso interprete finale “dell’’interesse oggettivo dell’’organizzazione aziendale”.

 ARBITRATO IRRITUALE SECONDO EQUITÀ

(art. 31, comma 5 e comma 7) – è stata confermata la norma approvata alla Camera dei deputati, che impone come condizione di validità del lodo, nell’’arbitrato di equità, il rispetto non soltanto dei principi generali dell’’ordinamento, ma anche “dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari”. Questa disposizione ha l’’effetto di ridurre la discrezionalità dell’’arbitro nel giudizio di equità, perché, oltre ai regolamenti comunitari, anche molte direttive possono considerarsi di immediata applicazione e non derogabili.
Il lodo emanato a conclusione dell’’arbitrato irrituale non è impugnabile, come non lo sono le rinunzie e transazioni stipulate dal lavoratore in sede sindacale, amministrativa o giudiziale, a norma dell’art. 2113, comma 4 c.c.. Il lodo è bensì annullabile dal giudice competente, ma soltanto per i vizi indicati nell’’art. 808 ter c.p.c. in materia di arbitrato irrituale.
Inoltre, è stato eliminato ogni riferimento all’’art. 829, commi quarto e quinto, c.p.c. La norma elimina così un richiamo dubbio a una disposizione applicabile all’’arbitrato rituale.
Va detto che le disposizioni ora indicate, riguardano le ipotesi di risoluzione arbitrale di una controversia già insorta.
Tutte le disposizioni in materia di conciliazione e arbitrato (articoli 410, 411, 412, 412 ter, e 412 quater) si applicano anche alle controversie relative a rapporti di lavoro pubblico. Tuttavia non è stato chiarito, come era stato auspicato dal Presidente della Repubblica, “se e a quali norme si possa derogare senza ledere i principi di buon andamento, trasparenza ed imparzialità dell’’azione amministrativa sanciti dall’’art. 97 della Costituzione”.
Inoltre, al Senato, è stata aggiunta anche l’’applicazione della disciplina del processo verbale di conciliazione (art. 411 c.p.c.) alle controversie nel lavoro pubblico. Come è stato osservato, questa disposizione rischia di prestarsi a indebite strumentalizzazioni, con la conseguenza di minare l’’intero impianto della disciplina del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, nonché di risultare in contrasto con le esigenze di contenimento dei costi dell’’attività amministrativa. Grave è, infatti, il rischio che l’’introduzione dell’’arbitrato nelle controversie riguardanti il pubblico impiego consenta malversazioni in materia di inquadramento, retribuzione, pagamento di arretrati e simili.

QUANDO SI SOTTOSCRIVE LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA

(art. 30, comma 9) – Radicalmente mutata, rispetto al testo approvato alla Camera, è la disciplina della clausola compromissoria, cioè della pattuizione con cui datore e prestatore di lavoro si accordano per riservare all’’arbitro, e non all’’autorità giudiziaria, eventuali controversie che dovessero insorgere circa l’’attuazione del rapporto contrattuale.
Come è noto, nel corso della precedente lettura alla Camera era stato approvato un emendamento proposto dall’’On. Cesare Damiano (Pd) che, modificando radicalmente la norma relativa alla clausola compromissoria, ne prevedeva la sottoscrizione non al momento della stipulazione del contratto, vale a dire nel momento di maggiore debolezza contrattuale del lavoratore, ma solo dopo l’’insorgenza della controversia. La modifica era finalizzata a garantire la libertà del lavoratore di scegliere tra il ricorso all’’arbitrato e il ricorso alla magistratura ordinaria, andando così nella direzione indicata dal Presidente della Repubblica.
In seguito alle modifiche apportate al Senato, nel testo è cancellata detta garanzia, mentre viene disposto soltanto il divieto di sottoscrizione della clausola compromissoria prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto dal contratto, o prima del decorso di trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, sia esso a tempo determinato o indeterminato.
La clausola deve essere, a pena di nullità, certificata dalle commissioni di certificazione le quali devono accertare le volontà effettiva delle parti di devolvere le controversie, che dovessero sorgere in futuro, ad arbitri. Questa procedura appare, per un verso, poco efficace ai fini di protezione del lavoratore, considerato che anche dopo il superamento del periodo di prova resta immutata la posizione di debolezza contrattuale in cui egli versa. Per altro verso, essa introduce, come requisito di validità della clausola, un adempimento in costanza del rapporto di lavoro che – secondo le previsioni degli addetti ai lavori – limiterà di fatto fortemente la diffusione della clausola compromissoria.
Su questo punto si può osservare anche una divergenza della scelta operata dal Parlamento rispetto alle indicazioni del Presidente della Repubblica. Nel suo messaggio si legge infatti che “solo il legislatore può e deve stabilire le condizioni perché possa considerarsi ‘effettiva’ la volontà delle parti di ricorrere all’’arbitrato”, mentre la nuova legge demanda interamente il relativo accertamento all’’organo certificatore.
La nuova disposizione accoglie, invece, l’’indicazione del Capo dello Stato nella parte in cui sancisce che la clausola compromissoria non può riguardare le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro.

AUTORIZZAZIONE A SOTTOSCRIVERE LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA

L’’art. 30 al comma 11, attribuisce ai contratti collettivi il compito di individuare le ipotesi di ricorso all’’arbitrato irrituale. Tuttavia, si prevede che in mancanza di apposita disciplina affidata alla contrattazione collettiva, detto compito spetti al potere politico (al Ministro del lavoro e delle politiche sociali con proprio decreto) trascorsi dodici mesi dalla entrata in vigore della legge ove le parti sociali non abbiano provveduto. Anche su questo punto non sono stati accolti i rilievi del Capo dello Stato, che aveva espresso serie perplessità di fronte a “una così ampia delegificazione”.

LE DECADENZE

Infine, l’’art. 32 al comma 1, nel testo modificato al Senato, sancisce l’’inefficacia dell’’impugnazione del licenziamento se entro i successivi 9 mesi (e non più 6 mesi, come nel testo precedente al messaggio del Capo dello Stato) essa non sia seguita dal deposito del ricorso giudiziale nella cancelleria del tribunale o dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato.
In questa seconda ipotesi, qualora la conciliazione o l’’arbitrato richiesti siano stati rifiutati oppure l’’accordo non sia stato raggiunto, il ricorso al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
È fatta comunque salva la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso in cancelleria. Questa puntualizzazione appare molto importante, considerata la regola generale, vigente nel processo del lavoro, che vieta la produzione di nuovi documenti dopo il deposito del ricorso introduttivo del giudizio o della memoria di costituzione e risposta della parte convenuta.
Il comma secondo dell’’art. 32 sancisce, inoltre, che le disposizioni in materia di decadenza del lavoratore dalla possibilità di impugnare un atto del datore di lavoro si applichino a tutti i casi di invalidità (mancanza di giusta causa o di giustificato motivo) del licenziamento e non più in caso di inefficacia (difetto della forma scritta) (a queste si devono aggiungere le nuove ipotesi di impugnazione previste dall’’art. 32 comma 3: per es. contratti a termine, trasferimento d’’azienda, somministrazione irregolare, ecc.). Questa disposizione esclude dunque espressamente dalla disciplina delle decadenze i licenziamenti intimati oralmente (dunque inefficaci per mancanza di forma scritta), risolvendo così il problema della decorrenza del termine di decadenza. Le suddette decadenze restano ferme, invece, per le altre ipotesi di licenziamento nullo (per es.: licenziamento discriminatorio).

COLLABORAZIONI COORDINATE E CONTINUATIVE

La disposizione dell’’art. 50, infine,  prevede che in caso di accertamento della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche riconducibili a un “progetto”, il danno possa essere risarcito con una indennità risarcitoria di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità, non soltanto ove entro il 30 settembre 2008 il datore di lavoro abbia offerto al lavoratore la stipulazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (a norma dell’’art. 1, comma 1202, n. 296), ma anche qualora egli abbia, dopo la data di entrata in vigore della legge (ma non si stabilisce il dies ad quem), ulteriormente offerto la conversione del contratto in corso in un contratto di lavoro a tempo indeterminato ovvero abbia offerto l’’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle in precedenza svolte. Si tratta di una tipica “norma-fotografia”, volta a risolvere il caso, che era a suo tempo assurto agli onori delle cronache ed è poi rimasto fino a oggi irrisolto, relativo a una serie di controversie circa la qualificazione dei rapporti di lavoro in seno a un grande call center, insorte più di tre anni or sono a seguito di un’’ispezione amministrativa.

Un commento di Massimo Matteoli*

Il Prof. Marco Ponti sintetizza in maniera intelligente ed efficace la posizione di quanti sono favorevoli alla gestione privata del servizio idrico.
Mi convince la sua critica ad un approccio astrattamente ideologico al problema dell’’acqua. Proprio per questo non riesco a  convincermi che la soluzione “privatistica” sia la migliore.
Anzi mi sembra che molti sostenitori del “modello privato” cadano nell’’identico errore, dando per scontato che la gestione privata del servizio idrico sia a priori più efficiente di quella pubblica.
Mi colpisce, soprattutto, che i critici della gestione pubblica del servizio idrico richiamino spesso la necessità dell’’intervento finanziario dei privati, entrando però raramente nel dettaglio delle cifre. Nel modello di società mista (ed ancor di più in quello a totale gestione privata) il pubblico dovrebbe garantire il controllo, mentre al privato farebbero carico l’’efficienza gestionale ed i finanziamenti per gli investimenti.

LE CIFRE DELL’ACQUA

Proprio qui si  manifesta la debolezza congenita dell’’idea privatistica. Il deficit degli investimenti, di cui già oggi ci lamentiamo, non è dovuto solo al naturale riflesso del socio privato di limitare al minimo gli esborsi di capitale, ma soprattutto all’’enorme divario tra necessità e possibilità.
Proverò a dare alcune cifre, limitate all’’essenziale, per comprendere meglio le reali dimensioni del problema.
Una fonte sicuramente attendibile e prudenziale come il Blu Book 2010 stima in oltre 62 miliardi di Euro gli investimenti necessari per il nostro disastrato servizio idrico.
Per dare un’’idea più concreta la spesa annua (ovviamente senza considerare l’’inflazione) dovrebbe passare da 1,37 a €9,48 per ogni metro cubo erogato.
Ciascuno di noi può facilmente calcolare le conseguenze sulla propria tariffa: anche se spalmati in trenta anni, servirebbero investimenti per almeno 2,13 miliardi di Euro ogni anno!
In venti anni, come probabilmente sarebbe necessario per la vetustà degli impianti attuali, occorrerebbero più di tre miliardi di euro ogni anno.
Dove si trova il privato che ha la possibilità di investire cifre di questa entità?
Basti pensare, che le quattro società più importanti del settore dei servizi pubblici quotate in borsa (Acea, Hera, Iren, A2a) hanno investito nel settore idrico nell’’anno 2009 nemmeno 450 milioni di Euro e, pur operando anche in settori ben più redditizi di quello dell’’acqua, al 31.12.2009 avevano debiti complessivi per circa 10 miliardi e 700 milioni di Euro, superiori di oltre un miliardo e duecento milioni al loro patrimonio netto.
Anche se si trovasse un socio privato ben disposto, ovviamente questi interverrebbe per ottenere un rendimento adeguato al proprio investimento. Ciò può avvenire solo con la tariffa, come del resto prevede la legge esistente.
Saranno perciò le bollette a finanziare la maggior parte dell’’enorme mole di investimenti necessaria nei prossimi anni.

IL MONOPOLIO NATURALE

In situazioni di monopolio naturale come l’acqua una logica privatistica produce più facilmente effetti distorsivi che maggiore efficienza. Basti pensare al pericolo, tutt’’altro che teorico, che il privato per migliorare il risultato economico tagli le spese di manutenzione degli impianti: il monopolio naturale in cui opera il gestore (con l’’impossibilità per gli utenti di cambiare fornitore) rende economicamente improduttivo per il privato qualunque serio intervento di tutela dei singoli utenti. Né le gare periodiche per l’’assegnazione del servizio mi sembra possano risolvere il problema.
Anche qui l’’unione tra gara pubblica e gestione privata sembra favorire più la somma dei vizi del pubblico e del privato che quella dei pregi.
Nella pratica la lunga durata, legata necessariamente ad ogni ipotesi di affidamento del servizio idrico, ridurrebbe di molto, se non del tutto, lo stimolo ad una maggiore efficienza di sistema del gestore privato a favore della naturale tendenza del monopolista di utilizzare la posizione di rendita per aumentare il proprio guadagno. Nemmeno la gara, poi, risolve il problema di fondo: chi paga gli investimenti? Proprio la natura di “monopolio naturale” del servizio idrico, perciò, fa sì che solo una gestione pubblica possa assicurarne al meglio trasparenza ed efficienza. Dove invece il Prof. Ponti ha ragione da vendere è nel lamentare la grave mancanza di un’’autorità di regolazione indipendente per il settore.
E’ evidente che il totale controllo pubblico delle aziende erogatrici non garantisce di per sé né efficienza né tutela dei cittadini. Gli esempi di distorsioni burocratiche delle strutture pubbliche sono fin troppo noti perché ci sia bisogno di parlarne diffusamente, Non possiamo, perciò, accontentarci della sola proprietà pubblica.
L’’impegno per l’‘acqua pubblica deve essere legato indissolubilmente, pena un tragico insuccesso, ad un altrettanto deciso impegno per l’’efficienza industriale del servizio,senza riserve mentali, rimpianti del bel tempo che fu od opposizioni di campanile ai necessari processi di ristrutturazione industriale del settore. Oltre all’’Authority come le abbiamo conosciute, sono necessarie anche forme di tutela degli utenti più originali ed incisive. Troppo spesso dimentichiamo che la gestione dell’’acqua, come tutti i servizi pubblici, oltre all’’impatto generale sul sistema, tocca anche i singoli utenti, che troppo spesso i processi di concentrazione già realizzati hanno abbandonato ai soli “numeri verdi” dei call center. Occorre, quindi, da un lato prevedere tavoli istituzionali di confronto a livello “macro” sulla politica degli investimenti e quella tariffaria che permettano agli interessi sociali organizzati (dalle associazioni sindacali ed  imprenditoriali, a quelle dei consumatori, alle Camere di Commercio, etc..)  di confrontarsi direttamente con i gestori.

UN GARANTE DEGLI UTENTI

Vedrei inoltre necessaria anche una figura di vero e proprio “Garante degli Utenti”, che possa  favorire  la conciliazione delle controversie, con poteri effettivi di indagine e di intervento per la risoluzione dei problemi del singolo utente.
Occorre, cioè, affiancare alle forme di controllo istituzionale di sistema un luogo ed un’’autorità pubblica a cui ogni singolo cittadino possa rivolgersi in via pre-contenziosa per denunciare abusi e chiedere tutela.
Non sottovalutiamo, perciò, l’’importanza di creare in un settore così delicato come quello dei servizi pubblici, una struttura “amica” che possa efficacemente intervenire in difesa dei diritti del semplice utente.
In questo modo ne guadagnerà anche l’’efficienza generale del sistema.
Anche per questo appare preferibile la gestione pubblica del servizio, sicuramente più reattiva del privato a forme di controllo in cui un’opinione pubblica consapevole si affianchi in maniera decisa agli strumenti istituzionali.

* Responsabile Comunicazione Cambia l’’Italia Toscana

Quando le buone norme si infrangono sull’applicazione

Per evitare evasioni fiscali e contributive, le imprese che eseguono lavori, servizi e forniture per le pubbliche amministrazioni possono ricevere i pagamenti esclusivamente mediante bonifici bancari, su conti appositamente dedicati. E lo stesso devono fare i subappaltatori. Un principio sacrosanto, sancito da una legge del 2010. Che però ha avuto modalità di applicazione paradossali. Perché è sorto il dubbio che possa essere una norma retroattiva. E dunque, in attesa di chiarimenti su un punto di per sé già chiarissimo, alcune amministrazioni hanno sospeso i pagamenti.

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