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IMPARARE DA OBAMA

La storica vittoria elettorale di Barack Obama può insegnare qualcosa ai democratici e progressisti italiani? Anche se le situazioni dei due paesi sono estremamente diverse, vale la pena di fare alcune riflessioni sui fattori che hanno reso possibile questa grande vittoria e su quello che ci possono indicare.

DOVE NASCE LA VITTORIA

Bisogna prima di tutto sgombrare il terreno da una lettura “inevitabilista” del successo di Obama. Obama non ha vinto solo perché è una figura dotata di un carisma che non si vedeva da decenni, né solo perché gli otto anni di governo della destra hanno condotto a risultati talmente catastrofici da vincere persino il razzismo di importanti segmenti della classe operaia bianca E neanche perché Sarah Palin non è stata in grado di attrarre le donne deluse dalla sconfitta di Hillary Clinton alle primarie.
Un fattore fondamentale è la straordinaria organizzazione che ha sorretto la candidatura del senatore democratico e la mobilitazione di milioni di persone, molte delle quali non avevano mai fatto politica prima. L’intelligenza di Obama e dei suoi diretti collaboratori è consistita nell’identificare i gruppi di elettori potenziali nei settori più diversi della società americana e nel farli oggetto di un’attenzione continua e capillare.

LA RETE PER OBAMA

La campagna di Obama si è basata su un sistema di fundraising online e di organizzazione di eventi mai usato prima, molto personale, la cui parola d’ordine era “It is about you!”. Studiata dal fondatore of Facebook, Chris Hughes, la campagna ha attratto più di tre milioni di partecipanti. A chi si iscriveva a my.BarackObama.com (http://my.barackobama.com) si chiedeva di contribuire in prima persona, e mettendo in comune le esperienze, alla costruzione di una comunità di attivisti.
Con questo sistema le donazioni hanno raggiunto 650 milioni di dollari, più di quanto avevano raccolto insieme i due candidati presidenziali nel 2004.
Ma la candidatura di Obama ha beneficiato anche dell’appoggio e dell’attivismo di un’organizzazione online con più di tre milioni di membri: MoveOn.org.
Creata nel 1998 per superare l’impasse dello scandalo Lewinsky, e rafforzatasi poi in particolare sulla base dell’opposizione alla risposta unilaterale di Bush agli attacchi dell’11 Settembre, MoveOn.org si è battuta per eleggere candidati progressisti e ha mobilitato quasi un milione di volontari per Obama, raccogliendo 58 milioni di dollari. 
MoveOn.org ha dato voce a chi non ne aveva, ha contribuito così a connettere milioni di persone e a far rinascere la partecipazione politica in un modo facile ed efficace allo stesso tempo. Negli ultimi mesi, i membri di MoveOn.org hanno organizzato riunioni nelle loro case: insieme ad altri volontari telefonavano negli stati chiave per assicurarsi che i sostenitori di Obama andassero effettivamente alle urne.
Un fattore che contato moltissimo è stato l’enorme differenza di entusiasmo tra chi votava per Obama e chi votava per McCain. L’entusiasmo dei sostenitori di Obama si è tradotto in più rapporti personali, più azioni, più telefonate e donazioni.

E IN ITALIA?

Certo, in Italia, il semplice trasferimento di alcune delle tecniche usate dalla campagna di Obama non potrebbe funzionare.
Un limite è dato dal fatto che la popolazione è più vecchia e quindi meno sensibile agli entusiasmi. I giovani sono una proporzione molto più bassa dell’elettorato e, in assenza di cambiamenti demografici, sono destinati a scendere ancora. Gli americani sotto la soglia dei 35 anni costituiscono il 47 per cento della popolazione, mentre sono appena il 38 per cento in Italia. Questa quota poi rimarrà sostanzialmente stabile negli Usa, ma scenderà a poco più di uno su tre nel nostro paese.
Un altro limite riguarda il minor uso di internet. Nonostante i progressi, la diffusione di internet tra le famiglie italiane ci colloca al diciottesimo posto nella Unione Europea, con un tasso di penetrazione del 43 per cento rispetto alla media europea del 54 per cento e al 73,6 per cento degli Stati Uniti.
Infine, di grande importanza è stata anche la campagna televisiva di Obama: è stata senza precedenti e in alcuni stati il neo-presidente ha speso quattro volte tanto McCain. Potrebbe avvenire qualcosa di questa portata nella situazione di quasi monopolio della televisione italiana?
Barack Obama è riuscito a vincere anche perché ha fatto della speranza, anzi dell’“audacia della speranza”, la sua parola d’ordine e si è appellato agli “angeli migliori” del paese. Anche in Italia, se non si fa strada l’idea che il paese può essere meglio di quel che è ora e senza creatività nell’identificazione di nuovi strumenti di partecipazione e mobilitazione, sarà ben difficile uscire dalla profonda crisi attuale.

LA RIVINCITA DEL TERRITORIO

Il territorio svolge un ruolo sempre più importante nel sistema sanitario nazionale. L’assistenza territoriale, oggi, impiega infatti più del 50 per cento delle risorse finanziarie destinate alla sanità, e supera perciò l’ospedale. Ma la spesa territoriale non deve più essere considerata come un insieme indistinto. Va invece decodificata nei suoi principali ambiti di attività, valutando il contributo di ciascuno in termini di costi e di appropriatezza delle cure. I risultati del Laboratorio sul governo del territorio.

UNA BOLLA FINANZIARIA NEGATIVA

Per rifondare il sistema finanziario si dovrà riconsiderare in modo congiunto e coordinato il sistema di regolamentazione, il ruolo delle agenzie di rating e la scelta della struttura monetaria da adottare. La dichiarazione finale del G-20 suggerisce che le regole internazionali devono assicurare la possibilità di adeguarsi rapidamente all’evoluzione e all’innovazione dei mercati e dei prodotti finanziari.

PROFESSORI IN CARRIERA

Oggi la carriera universitaria prevede stipendi molto bassi all’inizio, per i ricercatori. Una riforma dovrebbe modificare gli scatti d’anzianità, per legarli alle pubblicazioni scientifiche. Dovrebbe garantire il contratto a tempo indeterminato, ma solo dopo un periodo di prova di almeno quattro anni. E prevedere sanzioni per i docenti che si dedicano a lucrose attività extra-accademiche e trascurano ricerca e insegnamento abbassando così il rating dei dipartimenti. Non serve invece l’anticipazione del pensionamento obbligatorio.

PAESI CHE SALVANO LE BANCHE

Continua l’analisi degli interventi dei governi europei a sostegno dell’economia. E’ la volta dei piani di salvataggio delle banche predisposti da Svezia, Danimarca, Portogallo, Grecia e Olanda. Tutti in linea con le indicazioni Ecofin, ma anche con qualche novità. All’appello manca l’Italia: ai primi decreti, tuttora privi delle norme di attuazione, non sono ancora seguite nuove misure, peraltro più volte annunciate.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Commento: Vi è il rischio di accesso alle professioni senza laurea.
Risposta: No! Nella mia proposta ho subito chiarito che il profilo abilitativo della laurea va lasciato così com’è: non è lì il problema.

Commento: Non sarebbe meglio stabilire che la laurea sia un requisito necessario per l’accesso ai concorsi pubblici, ma lasciare che la valutazione sia incentrata interamente sulla prova concorsuale?
Risposta: Vedrei questa soluzione come un second best, almeno si eviterebbe la scandalosa prassi attuale, in base alla quale i laureati provenienti dalle università selettive, che quindi spesso hanno punteggi di laurea non alti, sono superati dai candidati provenienti dalle università non selettive, che regalano i 110 e lode.
Tuttavia si rifletta che: a) incentrare tutta la valutazione sulla prova concorsuale implica un aumento dei costi amministrativi (la prova deve essere, infatti, articolata, ben congeniata e ben calibrata), b) la prova unica aumenta il rischio di risultati casuali: con una valutazione ‘one shot’, la fortuna/sfortuna diventano elementi condizionanti; c) nonostante l’accuratezza della prova concorsuale, il risultato della valutazione sarà molto più veritiero se si tiene in adeguata considerazione il curriculum di studi del candidato, curriculum fondato su una preparazione di 3 o 5 anni e basato sul risultato di 15-25 diversi esami. Perché rinunciare a valutare questi dati?

Commento: Nessun ranking può valutare con precisione il valore delle Università.
Risposta: Vero solo in parte. E’ certo che tutti i parametri utilizzabili sono discutibili (e concordo sulla artificiosità della classifica stilata dall’Università di Shangai). Tuttavia, tutte le classifiche più accreditate si fondano su parametri difficilmente contestabili, quali la produzione scientifica dei docenti, il rapporto del numero docenti/studenti, le performances degli studenti nel corso di studi, ecc. L’applicazione del complesso di questi parametri consente una valutazione abbastanza veritiera del valore delle singole Università. Chiunque insegni può testimoniare, ad esempio, che il ricercatore che pubblica molto è mediamente più preparato, dedicato e capace di trasmettere il sapere di quello che pubblica poco o niente. Che avere 20 studenti a lezione consente di fornire una preparazione migliore rispetto all’ipotesi di averne 200, ecc
Ma c’è un punto che deve indurre ad accettare definitivamente lo strumento del ranking. Mentre in Italia stiamo ancora discutendo del valore delle classifiche, il resto del mondo le usa senza problemi e giudica le nostre università altrettanto bellamente. E’ quindi inutile far finta che non ci siano o che non funzionino. Nel mondo già ampiamente globalizzato dell’istruzione superiore, per gli studenti sarà indifferente studiare a Parigi, Cambridge o Madrid piuttosto che a Padova o Bologna (anche dal punto di vista economico). E la scelta verrà fatta sui ranking. 

Commento: Potrebbe esservi il caso che il capace e il meritevole, per ragioni economiche, non può iscriversi ad una lontana università di serie A, ma deve accontentarsi di quella sotto casa, di serie B.
Risposta: con l’incremento del flusso di risorse a beneficio delle università migliori, queste ultime possono realmente (e non a parole, come avviene adesso) predisporre delle borse di studio per i meritevoli. Ciò peraltro è nell’interesse delle università in questione perché studenti bravi aumentano le performances e dunque migliorano la posizione nel ranking.
A parte questo, inviterei chi paventa la prospettiva a valutare la cosa anche sotto una diversa angolatura. Continuare, per ragioni economiche, la finzione della parità di preparazione consentita dal valore legale del titolo, aiuta chi si è laureato in medicina nell’Università di serie B ad entrare, ad esempio, nell’USL, ma non aiuta affatto il paziente di quella USL il quale, data la posta in gioco, preferirebbe di gran lunga un medico laureato di un’Università di serie A. In proposito credo che sia ora di guardare alle esigenze dei servizi pubblici dal punto di vista del ‘pubblico’ e non solo dalla prospettiva individuale di chi deve trovare un lavoro, costi quel che costi (al paziente).   

Commento: La proposta è di stampo dirigista e complicata da attuare.
Risposta: La proposta non è dirigista: la PA è libera, per ciascun concorso e a seconda delle sue esigenze, di assegnare il peso relativo del ranking, e il peso relativo della posizione delle università nel ranking. E non è nemmeno complicata: già oggi, in taluni casi, la PA compie con facilità una operazione analoga, consistente nell’assegnare diversi punteggi concorsuali a seconda del diverso punteggio di laurea. Inoltre le particolari esigenze del posto bandito possono trovare spazio adeguato nella prova concorsuale, che non si propone di abolire. Per riprendere l’esempio fatto dal Prof. Figà Talamanca, se per la posizione lavorativa posta a bando è preferibile un matematico esperto di analisi numerica, anziché geometria algebrica, perché non proporre un problema di analisi numerica nella prova concorsuale? L’ammissione al concorso anche di laureati in ingegneria o in informatica mi trova completamente d’accordo, ma non è in contrasto con l’attribuzione di uno specifico peso dell’Università di provenienza.

LA CRISI, IL MERCATO E IL PENSIERO LIBERALE *

Il ripensamento critico della finanza innescato dalla crisi finanziaria coinvolge la stessa nozione di economia di mercato. Ma chi ha fallito, lo Stato o il mercato? Paradossalmente lo Stato, che non ha saputo dare regole esaustive e supervisori attenti. Si è instaurata una religione liberistica che vede nell’intervento pubblico sempre e comunque una indebita compressione della libertà d’impresa. Anticipazione di un articolo più esteso che la rivista Il Mulino pubblicherà nel numero in uscita a dicembre.

L’INDICE PUNTA ALLA RECESSIONE

La crisi finanziaria mondiale in corso è la più grave dal dopoguerra: è penetrata nel profondo dell’intero sistema finanziario e sta seriamente condizionando il settore bancario. I suoi effetti sull’economia reale si manifestano in modo sempre più chiaro. €-coin, un indicatore della crescita di fondo dell’area euro, ha indicato un rallentamento dell’economia dell’area sin dall’inizio del 2007, inglobando il peggioramento della tendenza dall’agosto dello stesso anno. E ha ben rappresentato il brusco deterioramento del quadro congiunturale a partire dall’estate 2008.

PROJECT FINANCING IN VERSIONE ITALIANA *

E’ stata appena approvata una profonda riforma dell’affidamento di lavori pubblici mediante project financing. Desta perplessità la reintroduzione del diritto di prelazione, seppure con pubblicità a livello comunitario. E l’ampliamento del ventaglio di iter prospettabili determina un notevole grado di complessità procedurale, che non può certo incoraggiare la partecipazione delle imprese. Manca poi chiarezza sulle competenze e gli incentivi delle amministrazioni interessate a selezionare le procedure secondo criteri di efficienza economica.

UN G-20 CON TROPPE RACCOMANDAZIONI

Una rilettura a mente fredda della dichiarazione finale del G-20 fa emergere molti dubbi. Il problema principale del documento è non separare in modo sufficientemente netto ciò che i paesi devono realizzare immediatamente da quello che dovrebbero fare in seguito. E mancano dettagli importanti, quelli su cui è più probabile che si manifestino i disaccordi fra governi. Preoccupanti anche le omissioni su questioni fondamentali come i disequilibri macroeconomici. Diverse invece le banalità, in particolare sul ruolo del Fondo monetario internazionale.

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