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LE SORTI DELL’EUROPA

Il no dell’Irlanda al Trattato di Lisbona ripropone la contraddizione di un’Europa che deve raggiungere una maggiore integrazione e dotarsi di istituzioni più efficaci e responsabili e che però non riesce a superare gli ostacoli frapposti da piccole minoranze. Con conseguenze assai serie. Tuttavia, non vi è un termine ultimo per la ratifica e si può cercare di riavviare il negoziato. Intanto, gli altri paesi dovrebbero confermare rapidamente gli impegni assunti. Vale soprattutto per l’Italia. Per far parte di un’avanguardia coesa che vada avanti comunque.

IL NO IRLANDESE, UN DISSENSO DISINFORMATO

Per loro stessa ammissione, gli irlandesi hanno votato no al Trattato di Lisbona perché non ne capivano il contenuto. Ma non esiste alcun modo di scrivere le regole della vita comune di ventisette paesi in modo immediatamente leggibile anche per i non esperti. Il problema è aver sottoposto a referendum una tale materia. Tradendo così la logica e lo spirito della moderna democrazia parlamentare. Ora una soluzione potrebbe essere l’entrata in vigore del Trattato senza l’Irlanda. Che dovrebbe uscire da tutto il sistema dell’Unione.

NON PASSA LO STRANIERO

La vera cifra, anche sul piano simbolico e comunicativo, del pacchetto sicurezza è l’accanimento contro lo straniero. In un percorso verso il diritto penale del comportamento che si manifesta appieno nel nuovo reato di ingresso illegale nel territorio dello Stato. Anche in un confronto superficiale con gli altri paesi d’Europa, si nota che le sanzioni per lo più previste sono pene pecuniarie e sanzioni amministrative. Diverse, dunque, da quelle detentive che il governo italiano intende adottare. E che oltretutto si riveleranno un’arma spuntata per l’impossibilità di applicarle.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Rispondo collettivamente ai MOLTI lettori che hanno avuto la cortesia di commentare il mio articolo. Alcuni di questi hanno sostenuto la loro netta contrarietà alla ripesa del nucleare sia per i livelli dei costi, sia per la minaccia alla sicurezza dell’ambiente e della popolazione . Altri, pur con molte preoccupazioni, hanno mostrato maggiore disponibilità alla ripresa del nucleare sottolineando la necessità di adottare ogni tipo di controllo. Altri ancora hanno valutato più importanti i problemi tecnici rispetto a quelli legislativi e regolamentari su cui mi ero soffermato.
Da parte mia desidero esplicitare ai lettori che non sono mosso da alcuna pregiudiziale scientifica e culturale alla ripresa del nucleare anche in Italia. La mia visione del problema dunque non è del tipo "nucleare si", "nucleare no", ma sul "come" si riavvia il nucleare nel nostro paese. Ciò che temo è una sorta di "via italiana" al nucleare che non adotti le "best practice" adottate nei paesi che da anni hanno promosso e potenziato il nucleare. Come noto l’industria civile del nucleare è una ricaduta dell’industria bellica (non a caso il prezzo dell’uranio è sceso ai minimi storici anche per effetto dell’abbandono della corsa agli armamenti); passaggio questo  che nel tempo ha creato competenze, controlli e accettazione sociale sostanzialmente in un processo di trial and error sia nel mondo dei privati sia in quello del pubblici controlli. In Italia, invece, nulla di tutto ciò da quasi venti anni. E’ possibile recuperare tale gap culturale, sociale e scientifico in un breve lasso di tempo in un paese (forse vittima di Croce) che – a scuola e all’università – ha troppo spesso trascurato l’istruzione scientifica di massa (non di alcune eccellenze) la cui conoscenza consentirebbe invece di non scorgere soltanto i fantasmi del nucleare?
Penso che sia possibile se per tempo si ragiona sul fatto che il la ripresa del nucleare non è soltanto questione che riguarda i tecnici del settore ( e la loro supposta supremazia), ma in particolare il ruolo e le competenze della pubblica amministrazione che deve esercitare i controlli  onde evitare che si formini vantaggi privati e costi collettivi. Osserviamo tutti i giorni che la nostra pubblica amministrazione non è in grado di esercitare con sufficiente efficacia il rispetto delle leggi (fiscali, sanitarie, ambientali, ecc.). Come deve cambiare dunque la pubblica amministrazione per la puntuale verifica del il rispetto delle norme in campo nucleare? Saranno sufficienti le abituali verifiche cartacee oppure saranno indispensabili quelle sul campo? E quale corpo dovrà effettuarle? Non a caso altri paesi hanno istituito apposite autorità per la sicurezza nucleare. Il governo ha annunciato che nei prossimi giorni adotterà alcuni provvedimenti al riguardo, Mi auguro che non siano soltanto quelli che daranno il permesso alla costruzione delle centrali nucleari (acciaio, cemento, piombo, rame, ecc) me che comprendano anche l’avvio di una riflessione sulle istituzioni pubbliche per il controllo di questo settore così delicato per la sicurezza della popolazione.
Vi  è infine chi mi a fatto notare che gli ingegneri nucleari già esistono in Italia. Ricordo al riguardo che per effetto dell’abbandono del nucleare molte università italiane hanno ridenominato i corsi di ingegneria nucleare in "ingegneria energetica" oppure "ingegneria nucleare e della sicurezza industriale" e così via. In ogni caso sono felice di scoprire che esistono ancora rappresentanti di una specie che consideravo, erroneamente, in estinzione se non del tutto estinta.

LA NAZIONALIZZAZIONE NON E’ UNA RICETTA PER BANCHE

La stabilità finanziaria è un bene pubblico e nei casi di crisi governi o banche centrali devono poter intervenire. Ma con un intervento di breve termine, teso a ristabilire la fiducia nel sistema. La soluzione della nazionalizzazione solleva molti dubbi proprio per i vincoli comunitari sugli aiuti di Stato. Meglio un sistema di regole su misurazione del rischio, gestione dei prodotti strutturati e operazioni fuori bilancio, supervisione degli intermediari, cooperazione e scambio di informazioni tra autorità e attori del mercato. Rafforzando la tutela dei risparmiatori.

SUBPRIME, RISCHIARE CON I SOLDI ALTRUI

E’ più facile scommettere con i soldi degli altri. Una semplice verità che è alla base delle crisi finanziarie, compresa quella dei subprime. Con la cartolarizzazione dei prestiti, gli intermediari finanziari non hanno alcun interesse a valutare l’affidabilità del cliente. Tanto più se le banche cercano di sfruttare al massimo le possibilità che si aprono con i nuovi strumenti finanziari. Ma ciò che il denaro facile degli anni Duemila ci ha dato, ci sarà tolto dalla stretta creditizia che si annuncia. Senza dimenticare che la crisi potrebbe allargarsi ad altri settori.

ALITALIA: UN PONTE VERSO IL NULLA

Da quando venne presa la decisione di cedere a privati la quota pubblica di Alitalia sono passati oltre 18 mesi. Ma la vendita non si è conclusa e anzi sembra ancora in alto mare e la situazione economica e finanziaria di Alitalia si sta deteriorando. Sarebbe stato meglio arrivare subito a un’amministrazione straordinaria capace di avviare un’operazione “lacrime e sangue”. E ora c’è anche il rischio di un advisor che può diventare parte in causa.

COME RIFORMARE LA CONTRATTAZIONE

Si riapre dopo la pausa elettorale il negoziato sulla riforma del sistema contrattuale. A dispetto dei tanti richiami all’inderogabilità della questione salariale, è da dieci anni che questa riforma viene rimandata. Siamo così rimasti agli assetti di quindici anni fa, che da tempo hanno mostrato tutti i loro limiti. (Aggiornamento dell’intervento pubblicato il 20 marzo 2008).
Un contributo alla discussione del ministro per la Pubblica Amministrazione e per l’Innovazione Renato Brunetta.

PER UNA PROPOSTA DI SHOPPING CONTRATTUALE

1. Le rigidità presenti nel mercato del lavoro determinano inefficienze nell’allocazione dei fattori della produzione e, in ultima analisi, livelli occupazionali più bassi. Inoltre, l’adozione di basi salariali uniformi, in presenza di strutture dei costi difformi, oltre ad essere economicamente inefficiente, favorisce il consolidamento della grande impresa ed esclude dal mercato le nuove imprese o quelle minori.

2. Se tutto questo è vero, un assetto contrattuale efficiente per qualsiasi mercato del lavoro deve necessariamente evitare rigidità non strutturalmente indispensabili al funzionamento del sistema, al fine di favorire la diffusione di relazioni industriali appropriate e calate su ciascuna realtà produttiva, che hanno evidenziato la correlazione esistente tra grado di centralizzazione della contrattazione salariale e performance occupazionali, individuando nelle forme estreme (alta centralizzazione, bassa centralizzazione) gli assetti in grado di massimizzare il livello di occupazione.

3. Se, infatti, le rigidità non adattive impediscono l’allocazione ottimale dei fattori della produzione, e livelli intermedi o livelli sovrapposti di centralizzazione della contrattazione salariale determinano tassi di disoccupazione maggiori, l’assetto ottimale potrebbe essere quello caratterizzato da una flessibilità sufficiente a favorire la spontanea adozione tra le parti del livello contrattuale ritenuto più appropriato per ogni singolo settore. Chiaramente, in assenza di una norma che imponga alle parti un determinato livello di centralizzazione, per gli assunti precedenti, nessuno si indirizzerà su una centralizzazione media di sottoccupazione ed inefficiente allocazione delle risorse, o se lo farà, ne subirà gli svantaggi modificando, nel futuro, il proprio comportamento.

4.    In altre parole, la riduzione delle rigidità al livello minimo necessario al funzionamento di un particolare mercato quale quello del lavoro, lungi dal ridurre la dialettica tra le parli, potrebbe, invece, incrementarla fino a giungere a favorire una sorta di "shopping contrattuale" con cadenza biennale o triennale, dove il primo passo negoziale (necessariamente nazionale) dovrebbe essere quello di accordarsi sull’unico livello ottimale di contrattazione (per un determinato periodo). In questo modo, in alcune realtà produttive potrà essere definito un livello contrattuale nazionale (alta centralizzazione), in altre un contratto aziendale (bassa centralizzazione). Chiaramente dovrà essere eliminata qualsiasi sovrapposizione tra livelli attraverso una sorta di gerarchia funzionale della prassi negoziale, lasciando comunque al livello di alta centralizzazione la trattazione dei macroaspetti del settore (la definizione del livello prescelto, la modulazione territoriale dei minimi salariali e le relative deroghe…), mentre a livello di medio bassa centralizzazione saranno destinate tutte le materie salariali, organizzative (orari), partecipative (profit sharing), previdenziali ecc.

5. Gli effetti positivi di una simile dinamica delle relazioni industriali sarebbero evidenti nel funzionamento del sistema produttivo già dai primi cicli di shopping contrattuale, ma il trascorrere del tempo ed il progressivo apprendimento cooperativo di entrambe le parti ne aumenterebbe costantemente la qualità, stabilizzando il sistema produttivo su livelli di efficienza via via sempre maggiori, al livello più alto di occupazione.

6. Gli accordi di luglio (3 luglio 1992 e 23 luglio 1993) potrebbero facilmente essere rivisti secondo le linee sopra esposte, in ragione, soprattutto, del venire meno dell’obiettivo disinflazionistico che era stato alla base di quegli accordi tripartiti.

7. Il livello nazionale di contrattazione potrebbe restare con la funzione di macroregolazione di settore, ma senza valenze salariali (verrebbero meno i meccanismi di regolazione salariale in ragione dell’inflazione programmata, coincidendo questa con l’inflazione effettiva e con tale semplificazione non avrebbero più senso i recuperi), se non un eventuale utilizzo della clausola della scala mobile carsica in caso di patologica assenza di contrattazione di secondo livello. Quest’ultima (a livello variabile, come abbiamo visto), dovrebbe essere l’unico vero strumento di distribuzione efficiente dei guadagni di produttività (sia nella versione baumoliana che in quella kaldoriana) a fini di efficienza e di massimizzazione dell’occupazione. Su questa base il secondo livello di contrattazione andrebbe premiato e favorito in tutti i modi (in quanto capace di ottimizzare crescita e occupazione) attraverso legislazioni di sostegno (penalizzazione in tema di incentivi per quelle aziende e quei fattori che non realizzassero fisiologicamente la contrattazione), incentivi fiscali e parafiscali ad aziende e fattori efficienti ed innovativi nell’applicare le nuove relazioni industriali.

8. In questo modo la contrattazione di secondo livello aumenterebbe progressivamente (in uno o due cicli negoziali) nella sua capacità di copertura dell’intero mondo aziendale, in una sorta di sincronica complementarizzazione rispetto al venire meno del ruolo salariale della contrattazione nazionale.

9. Autoregolazione, autorganizzazione, apprendimento, adattamento continuo rispetto ai segnali provenienti dal cambiamento tecnologico e dal ciclo economico dovrebbero essere le linee guida del nuovo percorso di relazioni industriali nel nostro Paese.

CONTRIBUENTI ED EVASORI: CHI, DOVE E QUANDO

Solo la quota dichiarata dell’economia italiana sopporta effettivamente le imposte. L’andamento della differenza tra la pressione fiscale apparente e la pressione fiscale effettiva risente, in parte, del ciclo politico. La quota di economia sommersa è più bassa a Nord Ovest e maggiore a Sud. L’evasione nell’industria è relativamente più concentrata nelle regioni meridionali, mentre nelle altre  zone si trova di più nel settore dei servizi. Chi può evita i doveri fiscali, ma con scelte differenti. Nel Mezzogiorno il sommerso, da lavoro nero, è legato al basso reddito. Altrove no.

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