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Se il “centro delle strategie” ha troppe teste

Mentre risorge il ministero del Commercio estero, la ripartizione delle competenze tra i ministeri economici presenta alcune contraddizioni. Perché sottrarre il turismo alla funzione “sviluppo economico”? Perché il Cipe si trasferisce direttamente alla presidenza del Consiglio? Pare che la stessa presidenza voglia prendere in mano il pallino del coordinamento delle politiche economiche (e non “solo” delle politiche complessive del Governo). Ma Padoa Schioppa e Bersani saranno d’accordo?

Falsa partenza istituzionale

Un decreto legge approvato dal primo Consiglio dei ministri ha creato quattro nuovi ministeri e modificato sostanzialmente le competenze di altri. Sotto il profilo istituzionale non poteva esserci inizio peggiore. Governare non vuol dire solo fare leggi, ma assicurare continuità e coerenza a un insieme di attività svolte dallo Stato e da altri soggetti che contribuiscono ad affrontare e possibilmente risolvere un problema collettivo. Liberarsi delle regole non aumenta il margine di manovra di chi occupa posizioni di potere. Anzi, lo espone a ogni forma di pressione.

Una separazione pericolosa

E’ durata solo cinque anni l’unificazione dei ministeri delle Infrastrutture e dei Trasporti. Era nata dalla convinzione che le infrastrutture andassero programmate, valutate, finanziate e costruite in funzione delle necessità presenti e dell’evoluzione prevista dei servizi che le utilizzano. Nella scorsa legislatura, non ha dato buona prova perché erano sbagliati gli uomini che avevano il delicatissimo compito di avviare l’esperimento. Ora si è tornati alla separazione e i contrasti subito emersi tra i due ministri non fanno ben sperare.

Quanto costa ridurre il cuneo fiscale

Il cuneo fiscale italiano, cioè la differenza tra il costo del lavoro per l’impresa e quanto i lavoratori percepiscono in busta paga, è di circa 35 punti percentuali (non considerando nel computo l’Irap). È certamente un valore considerevole che si colloca tra i più alti in Europa e il suo contenimento è oggi al centro di un vivo dibattito politico ed economico.

Entrambe le coalizioni di centrodestra e di centrosinistra avevano recepito nei loro programmi elettorali l’obiettivo della riduzione del cuneo fiscale: 3 punti per il centrodestra e 5 per il centrosinistra. La Confindustria si era spinta oltre, individuando in 10 punti l’abbattimento necessario per il rilancio dell’economia nazionale, unitamente alla riduzione dell’Irap.

Finanziamento

Per ridurre il cuneo fiscale occorre tuttavia individuare le risorse necessarie alla copertura del suo costo, in termini di minore gettito: secondo la valutazione più accreditata, potrebbe aggirarsi in 10 miliardi di euro per una riduzione di 5 punti.

Nel programma di Governo, il centrosinistra si proponeva di attingere le risorse necessarie da: i) lotta all’evasione fiscale; ii) contenimento della spesa pubblica al livello della crescita nominale del Pil; iii) aumento delle aliquote contributive dei lavoratori parasubordinati e autonomi; iv) tassazione delle rendite finanziarie.

L’aumento delle aliquote contributive dei lavoratori parasubordinati e autonomi, come correttamente evidenziato da Elsa Fornero, “equivale a promesse pensionistiche più elevate e quindi, prima o poi, ad incrementi di spesa”. (1) Pertanto, assumendo la costanza della spesa pubblica in termini reali, la copertura della manovra non può che basarsi sulla tassazione delle rendite finanziarie e sulla lotta all’evasione.

Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra hanno stimato il gettito che si potrebbe ottenere dalla riforma della tassazione delle rendite finanziarie, pur sottolineandone l’aleatorietà, tra i 2,5 e i 4,2 miliardi. La lotta all’evasione sembrerebbe quindi la conditio sine qua non per l’implementazione della politica di riduzione del cuneo fiscale.

Analisi in equilibrio economico generale

Lo studio di ipotesi di manovre fiscali richiede però l’analisi degli effetti da queste generati nel sistema economico. L’utilizzo di un modello computabile di equilibrio economico generale calibrato sui dati dell’economia nazionale italiana rappresenta lo strumento più idoneo.

Se nel modello elaborato presso il dipartimento di Scienze economiche e finanziarie dell’università di Genova, simuliamo la riduzione delle aliquote degli oneri sociali del solo lavoro dipendente (proporzionalmente) di 3, 5 e 10 punti percentuali, con il vincolo del bilancio in pareggio, (2) emerge un risultato molto interessante. Infatti, se prendiamo come benchmark la stima di 10 miliardi di euro quale costo per la copertura della riduzione del cuneo fiscale di 5 punti, allora, secondo il modello, possiamo valutare rispettivamente in 4,7 e 23 miliardi la copertura richiesta per un abbassamento del cuneo fiscale di 3 e 10 punti. Queste stime possono essere riviste al ribasso tenendo in debito conto l’andamento generale del sistema economico e in particolare dei prezzi. Dalla simulazione condotta in equilibrio economico generale emerge infatti un costo di copertura notevolmente inferiore se visto in termini spesa pubblica reale: 3,16 miliardi per una riduzione del 3 per cento, 7,98 per il 5 per cento e 20,4 per il 10 per cento.

La riduzione del cuneo fiscale è accompagnata da effetti positivi dal lato del consumo (maggior reddito disponibile per le famiglie e conseguente incremento dei consumi) e dal lato della produzione (diminuzione dei costi di produzione, diminuzione dei prezzi, recupero in competitività, aumento nei livelli di attivazione, aumento della domanda del fattore lavoro). Si innesta in altre parole un circolo virtuoso che partendo dai due lati opposti, sebbene strettamente interconnessi, produzione e consumo, si propaga nel sistema economico generando favorevoli effetti moltiplicativi. Inoltre non va sottovalutato il fatto che l’abbattimento del cuneo fiscale determina, sia per il lavoratore che per il datore di lavoro, un minor onere deducibile e quindi un maggior imponibile fiscale.

Tenendo conto di tutto questo attraverso il modello di equilibrio economico generale e focalizzando l’attenzione sull’ipotesi di una riduzione del cuneo di 5 punti percentuali (valore mediano tra quelli proposti), emerge un risultato ancora più confortante. In termini di gettito complessivo reale, il costo finale per lo Stato potrebbe essere quantificabile in un intervallo compreso tra il 41 e il 53 per cento del costo di 10 miliardi di euro inizialmente stimato. Questo valore risulta dalla differenza in termini reali per lo Stato italiano del reddito prima e dopo la manovra fiscale. (3)

Si può quindi ipotizzare un costo di copertura finanziaria decisamente inferiore a quanto previsto anche se gli effetti di eventuali manovre per il suo finanziamento, lotta all’evasione o tassazione delle rendite finanziarie, andrebbero ancora analizzate in termini di equilibrio economico generale.

L’evasione fiscale

L’evasione fiscale in Italia è stimata dalla Agenzia delle Entrate in 200 miliardi di euro l’anno, equivalente a un minor gettito per l’erario di 80-100 miliardi di euro, pari circa al 6-7 per cento del Pil. A copertura totale della manovra, almeno secondo la nostra simulazione, basterebbe un valore inferiore allo 0,38 per cento del Pil. Attenzione, però: la lotta all’evasione nasconde insidie dal punto di vista del benessere generale.

L’evasione è in certa misura configurabile come un contributo, sebbene non voluto, alla produzione e al lavoro. Se, per ipotesi, lo Stato fosse in grado di eliminare tout court il fenomeno, senza tuttavia dar seguito ad una riforma del sistema fiscale (in particolare, alla diminuzione delle aliquote), allora si assisterebbe a una perdita di benessere: i prezzi aumenterebbero, molte imprese perderebbero in competitività ed altre sarebbero spinte fuori dal mercato. Gli effetti a catena che verrebbero a generarsi sarebbero simmetrici ma di segno contrario a quelli attesi nel caso di riduzione del cuneo fiscale.

Se invece il finanziamento avvenisse attraverso l’introduzione di nuove imposte o l’aumento di imposte già esistenti, come per la tassazione delle rendite finanziarie, si potrebbero creare, anche in questo caso, indesiderabili effetti distorsivi, con conseguente eccesso di pressione e perdita di benessere: attraverso le inevitabili ripercussioni sul sistema economico, andrebbero ad alterare sensibilmente le stime prodotte aumentando più che proporzionalmente il costo di copertura della riduzione del cuneo fiscale.

(1) Il Sole-24Ore 31/3/2006.

(2) Il minor gettito per lo Stato conseguente alla riduzione del cuneo fiscale non è coperto da altre entrate ma semplicemente gestito attraverso una riduzione di spesa pubblica.

(3) La definizione di “reddito reale” qui utilizzata comprende il gettito di tutte le imposte dirette e indirette, a qualsiasi titolo introitate dalla Pubblica amministrazione con riferimento quindi sia al Governo centrale che a quelli locali.

Nostalgia e moralismo non servono

E’ ormai un fatto acquisito che l’equilibrio competitivo dei campionati europei in generale, e del nostro in particolare, sia diminuito. Il motivo è la pay-tv, una tecnologia che ha immensamente allargato il mercato di riferimento, soprattutto delle grandi squadre. Il vecchio modello organizzativo del sistema calcio italiano non è più adatto al cambiamento radicale di questo mercato. Il problema è dunque di governance: sono necessarie nuove istituzioni e nuove regole. E per far sì che si giochi fra pari, l’unica soluzione è una superlega europea.

Ieri, Moggi e domani

Il sistema calcio italiano si trova in un circolo vizioso in cui i divari sportivi ed economici si alimentano a vicenda. Più le grandi squadre si rafforzano, più aumenta lo squilibrio, peggiore risulta l’equilibrio competitivo. Questo può causare una perdita di interesse da parte degli spettatori e una riduzione del volume di risorse che affluiscono a questa industria.
Indispensabile una profonda riflessione su regole e di meccanismi di controllo utili a garantire un riequilibrio della forza relativa dei club e un aumento del livello competitivo interno del campionato.

Regolare la flessibilità

Mi pare che nel contributo dell’8 maggio, Maurizio Benetti e Gabriele Olini abbiano centrato bene diverse questioni. Non sarà solo la differenza di oneri contributivi a favorire l’uso improprio dei dispositivi d’inserimento al lavoro da parte delle imprese, ma è certo che le convenienze economiche pesano, e molto, nelle decisioni dei datori di lavoro. Al minor costo previdenziale del lavoro parasubordinato o autonomo si aggiunge poi il vantaggio della flessibilità, non quella necessaria, comprensibilmente ricercata dalle imprese, ma quella resa possibile e quasi suggerita dall’attuale regolazione.
Il problema è che nessuno regala niente: se la contribuzione vale poco, varranno poco anche le prestazioni; e se la flessibilità è elevata, si volteggia senza rete. Il vantaggio di alcuni sarà pagato dalla collettività e dalla parte più debole dei lavoratori. Occorre dunque intervenire su quelle convenienze, regolare la flessibilità, premiare i comportamenti socialmente virtuosi delle imprese, rivedere il sistema delle tutele in un mercato del lavoro profondamente mutato. Non correzioni, ma un quadro d’interventi coerente, che va ben al di là della legge 30.

Lavoro parasubordinato

Vi è una massa di lavoratori autonomi prevalentemente “involontari” poco garantiti sotto il profilo previdenziale e con nessuna tutela economica in caso di mancanza di lavoro. L’unica strada per moderare il ricorso a questi rapporti di lavoro è abbattere il differenziale che sfiora i 15 punti percentuali con il lavoro dipendente. Per quanto riguarda la domanda di tutela per i periodi senza lavoro, se la diffusione resta quella attuale, la risposta non è semplice. Se la platea dei co.co.pro si riduce, sarà agevolata.

Lavoro incentivato

L’Italia è tradizionalmente un paese che ricorre molto agli incentivi economici per promuovere l’occupazione, in particolare giovanile. (1) In via di principio, le sottocontribuzioni per l’apprendistato, quelle che intendono agevolare l’inserimento e il reinserimento al lavoro dei disoccupati sono una misura ragionevole e in qualche caso appropriata. È l’utilizzo anomalo, peraltro stigmatizzato a livello europeo perché in contrasto con la normativa dell’Unione, a far mutare il giudizio. (2) Di fatto, le imprese considerano le sottocontribuzioni un risarcimento degli eccessivi oneri impropri sopportati piuttosto che uno stimolo ad accrescere la domanda di lavoro. Inoltre, poiché gli sgravi contributivi riguardano il flusso di nuovi assunti, ciò incentiverà le imprese ad attuare il ricambio occupazionale: di conseguenza, a pagare saranno spesso i lavoratori meno giovani, anche perché sono sempre meno utilizzabili gli ammortizzatori sociali in deroga (mobilità lunga, prepensionamenti).

Lavoro a termine

Non si può non riconoscere che la precarietà del lavoro nella prima parte della vita attiva è preferibile alla disoccupazione. Ma è altrettanto certo che una sequenza prolungata di lavori a termine, per di più scarsamente retribuiti, finisce per riflettersi negativamente sulla condizione del lavoratore. La mancanza di autonomia economica influenzerà le scelte di vita, compresa quella non irrilevante di avere figli. (3) È ragionevole ritenere che un lavoratore a termine costi di più alla collettività in quanto “consumerà” più interventi pubblici di un lavoratore stabile sia per sostenere il suo reddito, nella forma di un’indennità di disoccupazione ordinaria o più frequentemente con requisiti ridotti, che interventi di politica attiva.

Convergenza – unificazione delle aliquote previdenziali

Oltre a favorire un uso improprio dello strumento, le aliquote attualmente in vigore per i parasubordinati finiscono per deprimere l’ammontare della pensione cui si avrà diritto per l’effetto combinato del metodo contributivo e per la tutt’altro che rara discontinuità dei nastri lavorativi individuali. Si potrebbe elevare di 10 punti percentuali l’aliquota contributiva attualmente in vigore per coloro che non hanno un’altra posizione previdenziale attiva. Con l’occasione, ma la questione ha un rilievo più generale, potrebbe essere riesaminato il contributo rispettivo di datori e lavoratori.

Rimodulazione della spesa pubblica per le politiche del lavoro

Operando sulle convenienze economiche, dovrebbe essere possibile “pilotare” il sistema lavoro verso una assetto più convincente ed efficiente. La perdita di peso del lavoro parasubordinato e la riduzione dell’area del lavoro incentivato dovrebbero favorire inizialmente la crescita del lavoro a termine. Questo non può essere l’obiettivo finale del disegno riformatore, ma va considerato un passo in avanti in termini di chiarezza del mercato del lavoro, di maggiore tutela previdenziale dei lavoratori deboli. Il passaggio più delicato sarà comunque la rimodulazione della spesa per incentivi individuando la priorità nella stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Parte delle risorse oggi destinate agli sgravi contributivi potrebbe essere utilizzata per ridurre in misura modesta ma strutturale il costo del lavoro alle dipendenze per tutte le imprese, limitando però l’applicazione alla platea di lavoratori che percepiscono una retribuzione inferiore a un determinato ammontare (per esempio 40mila euro/anno ), parte per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali e parte per impieghi mirati, e in particolare per investimenti formativi. (4)

Differenziazione delle aliquote extraprevidenziali

L’ammontare della contribuzione all’assicurazione per la disoccupazione involontaria che vale poco meno del 2 per cento della massa salariale potrebbe essere differenziato a seconda che si tratti di assicurare lavoratori a termine o lavoratori stabili. Nel primo caso, il contributo per il finanziamento delle politiche attive del lavoro e la tutela economica della disoccupazione potrebbe essere maggiorato di 1,4 punti percentuali rispetto all’assetto attuale, dall’1,61 al 2 per cento l’ordinario, dallo 0,30 all’1,30 per cento il contributo addizionale. (5) L’importo risultante dalla maggiorazione contributiva sarebbe restituito al datore di lavoro nel caso in cui il rapporto di lavoro venga stabilizzato prima o entro la scadenza contrattuale.

L’adeguamento dei contributi previdenziali degli autonomi

Come fanno giustamente notare Benetti e Olini, l’aumento dei contributi previdenziali degli autonomi sembra importante per due ragioni: le aliquote attualmente in vigore non sono certamente aliquote di equilibrio e il loro adeguamento porterà loro vantaggi nelle prestazioni.

 

(1) Più di 5 miliardi di euro l’anno pari a 10mila miliardi delle vecchie lire secondo i dati contenuti nel Rapporto di monitoraggio del ministero del Lavoro.
(2) L’Italia ricorre agli incentivi all’assunzione assai più degli altri paesi europei. È proprio questo ricorso anomalo che toglie senso al confronto con gli altri paesi per quanto attiene alla spesa per le politiche attive del lavoro.
(3) Il costo elevato degli alloggi e la mancanza di esternalità limitano fortemente la mobilità territoriale dei giovani a fini di formazione o per lavoro.
(4) La precarizzazione dei rapporti di lavoro ha messo in crisi il modello della formazione continua. Una nuova e impegnativa strategia potrebbe quella del sostegno alla domanda individuale di formazione. Ma questo richiede un sistema pubblico all’altezza della sfida, più qualità e più concorrenza tra le proposte formative, azioni di sistema appropriate. Comunque, deve emergere la consapevolezza che la fase attuale non è favorevole alla formazione: la leggerezza dei rapporti di lavoro non promuove gli investimenti formativi e dovendo scegliere a cosa rinunciare, gli individui scelgono comprensibilmente più reddito rispetto a più formazione;
(5) Il contributo dello 0,30 per cento finanzia oggi in parte i fondi interprofessionali per la formazione continua.

Quando l’Europa può darci un fischietto*

Quale potrebbe essere stato il risultato delle partite oggi al centro delle indagini della magistratura? Perchè proprio quelle?  Hanno davvero alterato l’esito del campionato? E che rapporto c’e’ tra il condizionamento degli arbitraggi e il crescente divario fra grandi e piccoli clubs? Proviamo a fornire alcune prime risposte a tali quesiti, sulla base di un’analisi dei risultati degli ultimi campionati. Una superlega con selezione delle terne arbitrali a livello europeo potrebbe risolvere al contempo diversi problemi e ridare credibilità al calcio.

I nodi tornano sempre al pettine

C’è un versante previdenziale-assistenziale della riforma del mercato del lavoro che solitamente viene affrontato con scarsa attenzione non solo per i problemi di finanza pubblica, ma anche per alcuni aspetti tecnico-giuridici attinenti a importanti istituti del modello di protezione sociale, di quello pensionistico in particolare. Si parla dell’introduzione di nuovi ammortizzatori sociali, della ridefinizione e dell’armonizzazione delle aliquote contributive per le differenti tipologie di lavoro, del riconoscimento di agevolazioni fiscali alle imprese che assumono a tempo indeterminato.
Tutti questi obiettivi, poi, devono essere raccordati con la proposta di ridurre il cuneo contributivo di almeno cinque punti.

Interrogativi sul disegno strategico

Anche volendo accantonare le sfide economiche e finanziarie della complessa operazione in cui è impegnato il nuovo Governo (non si dimentichi che da almeno due legislature non è stato possibile, per mancanza di adeguate risorse, un riordino degli interventi a sostegno del reddito e dell’occupazione a favore di tutto il lavoro subordinato e, quindi, anche degli occupati nelle piccole imprese e non solo dei dipendenti delle aziende medie e grandi, come avviene adesso), è il disegno strategico di fondo a suscitare interrogativi tuttora carenti di adeguate risposte.
Con la proposta del taglio dei cinque punti, che deve necessariamente coinvolgere anche l’aliquota pensionistica perché è questa a “fare la differenza”, essendo nel contempo il minimo comune denominatore per tutte le tipologie di lavoro lungo una prospettiva di tendenziale armonizzazione, si arriva al cuore della riforma Dini del 1995: la correlazione tra aliquota di finanziamento e aliquota di accredito. A prescindere dagli esiti dell’allineamento delle aliquote, un percorso comunque non facile che incontrerà la resistenza delle categorie interessate degli autonomi e degli atipici, nel caso del lavoro dipendente, quella di finanziamento è destinata a calare, per effetto, appunto, del “taglio”. Cosa accadrà alla seconda? Se essa si ridurrà in proporzione, vi saranno conseguenze negative sul calcolo della prestazione. In caso contrario, dovrà sopperire la fiscalità, facendo venir meno l’equilibrio tra quanto si versa e quanto si riceve. Sarebbe questa, pari pari, la situazione più volte denunciata in occasione del lungo iter legislativo della legge Maroni, quando l’opposizione politica e sindacale, di fronte al progetto di decontribuzione fino a cinque punti (limitata alla fattispecie dei nuovi assunti con rapporto a tempo indeterminato) lamentava, appunto, il venire meno del sinallagma contributi/prestazione, con tutte le conseguenze del caso.
Per ovviare a tale inconveniente strutturale, nel dibattito (sempre interessante quello condotto da lavoce.info) è emersa l’ipotesi dell’istituzione graduale di una pensione di base, finanziata dal gettito fiscale, che si accompagni ai trattamenti obbligatori a carico di un sistema contributivo rivisitato in senso più uniforme per tutte le categorie, anche per quanto riguarda il tasso di sostituzione assicurato. Non si tratta di un’ipotesi del tutto peregrina, se si considera che, adesso, vi sono almeno 34 miliardi di euro in quota Gias che vanno a sostenere, a vario titolo, la spesa pensionistica.
Il Governo, nelle sue componenti riformiste (è rassicurante la nomina di Cesare Damiano al dicastero del Lavoro nonostante lo “spezzatino” subìto dal Welfare), ha in programma, poi, di stabilizzare il lavoro atipico, attraverso un irrobustimento delle protezioni. La parola d’ordine è sempre la stessa: il lavoro flessibile sarà consentito, ma dovrà costare di più. L’indicazione sembra corrispondere a una petizione di principio piuttosto che a un’ipotesi realistica. Il lavoro parasubordinato rischierebbe – proprio per le sue caratteristiche di attività riservata ai settori deboli – di finire fuori mercato sotto la spinta di un sistema di regole oggettivamente insostenibili.
Ma se si volesse sperimentare tale percorso, sarebbe necessario usare molta cautela nel prevedere nuovi ammortizzatori sociali e i relativi criteri di finanziamento. La gestione dei parasubordinati presso l’Inps ha sufficienti avanzi (5 miliardi l’anno) per far fronte in maniera autonoma alla copertura di una più ampia gamma di tutele, senza dover ricorrere a trasferimenti dal bilancio statale. La medesima prudenza dovrebbe valere con lo strumento delle agevolazioni fiscali finalizzate alla “buona” occupazione. Non avrebbe proprio senso drogare, in maniera strutturale, il mercato del lavoro, alimentando posti finti, finalizzati a riscuotere il credito d’imposta. Alla fine dei conti, poi, rimarrebbe a “fare la differenza” la questione della disciplina del licenziamento individuale. Come si vede, i nodi tornano sempre al pettine. E non a caso nelle proposte circolate nelle ultime settimane, compresa la ricetta Zapatero, ha rifatto capolino il problema delle regole della risoluzione del rapporto di lavoro, come cartina di tornasole della flessibilità.

Il fallimento del calcio senza regole*

Per decenni, il calcio italiano ha punito gli onesti e premiato i furbetti. Bisogna fare il contrario. Non sono necessarie nuove leggi, quanto il ripristino di quelle esistenti, troppo a lungo sospese. Come è accaduto al codice civile, “soppiantato” dal decreto salvacalcio. Da ripensare, e forse vietare, la quotazione in Borsa delle squadre. Lo Stato, poi, inizi a farsi pagare i 650 milioni di imposte arretrate. Chi deve fallire, fallirà. Ma entrerà aria nuova, e lo scandalo sarà servito a qualcosa.

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